AUTONOMIA ED ETERONOMIA
APPUNTI PER UN APPROCCIO ANTROPOLOGICO A PARTIRE
DALLA LEZIONE DI TOMMASO D’AQUINO
di Giovanni Grandi
Università degli Studi di Padova
11 – Luca Grion rileva puntualmente come in queste dinamiche, che investono il senso comune – e che mettono sotto scacco l’inestimabile –, giochi un ruolo non secondario la lezione filosofica che vuole ravvisare un nesso strutturale tra verità e violenza: «Oggi, anche nei discorsi dell’uomo della strada, cioè fuori dal ristretto dibattito intellettuale, si guarda con molto sospetto ad ogni pretesa di verità stabile. Si percepisce lo scetticismo nei confronti di un sapere che – soprattutto in ambito etico – pretenda di vantare un carattere di oggettività vincolante per ogni essere ragionevole. Anzi, una tale pretesa di verità viene percepita con sospetto, avvertita come potenzialmente violenta in quanto limita e riduce la libertà di scelta del singolo». Cfr. L. Grion, Educazione e politica, impegno e speranza, in B. Sorge, Il coraggio della speranza. Il ruolo dei fedeli laici nella vita pubblica, Gabrielli Editori, Verona 2010, pp. 10-11. Su questa deriva del pensiero Grion invita a riflettere, individuando una continuità tra crisi della verità, crisi dell’autorità, crisi della persona, crisi della politica e crisi antropologica.
12 – Sia concesso qui rinviare a G. Grandi, Felicità e beatitudine. Il desiderio dell’uomo tra vita buona e salvezza nel «De beatitudine» di Tommaso d’Aquino, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE) 2010.
13 – S. Theol., I-II, q. 90 pr.
14 – Naturalmente qui Tommaso sta sviluppando una riflessione psicologico-spirituale e non ontologica: in nessun modo è suggerita una simmetria tra Dio e il Diavolo, tra il Bene e il Male. Inoltre si consideri che neppure dal punto di vista dell’analisi della vita della coscienza si è all’interno di
un’ipotesi di simmetria, dal momento che Dio non solo «istruisce attraverso la legge», ma ulteriormente «soccorre attraverso la Grazia»: istruzione e soccorso, lex e Gratia sono gli «strumenti» di Dio dinanzi ai quali rimane isolata e ridimensionata la tentazione.
15 – «Poiché come dice Giovanni di Damasco, l’uomo è detto «fatto ad immagine di Dio», il che significa spirituale, libero di scegliere e padrone di sé; ed avendo già detto dell’esemplare, cioè di Dio e di coloro che furono creati da Dio secondo la sua volontà, rimane da considerare la sua immagine, ovvero l’uomo nella misura in cui egli è a sua volta origine delle proprie opere, quasi essendo libero di scegliere e padrone di sé. Per prima cosa è importante considerare il destino dell’uomo e poi esaminare ciò che consente all’uomo di adempiere il proprio destino e ciò che al contrario da questo compimento lo fa deviare». S. Theol., I-II, Proemium
16 – «L’habitus è in un certo modo medio tra la potenza e il puro atto. Ma non si può conoscere nulla se non negli aspetti per cui si tratta di qualcosa di compiuto. Poiché allora l’habitus è distante dall’essere qualcosa di compiuto, gli manca la possibilità di essere conosciuto in se stesso, e deve perciò essere conosciuto attraverso le sue manifestazioni. Ovvero: uno capisce di avere un certo habitus grazie al fatto che si rende conto di realizzare qualcosa che è caratteristico di quell’habitus. Oppure analizza la natura e la logica di un habitus analizzandone la manifestazione. Ora, il primo tipo di conoscenza si guadagna avendo un certo habitus che dà origine al gesto attraverso cui l’habitus subito è rivelato. Il secondo tipo di conoscenza si ottiene attraverso una ricerca molto accurata». S. Theol.,, I, q. 87, a. 2.
17 – «L’habitus è in un certo modo medio tra la potenza e il puro atto. Ma non si può conoscere nulla se non negli aspetti per cui si tratta di qualcosa di compiuto. Poiché allora l’habitus è distante dall’essere qualcosa di compiuto, gli manca la possibilità di essere conosciuto in se stesso, e deve perciò essere conosciuto attraverso le sue manifestazioni. Ovvero: uno capisce di avere un certo habitus grazie al fatto che si rende conto di realizzare qualcosa che è caratteristico di quell’habitus. Oppure analizza la natura e la logica di un habitus analizzandone la manifestazione. Ora, il primo tipo di conoscenza si guadagna avendo un certo habitus che dà origine al gesto attraverso cui l’habitus subito è rivelato. Il secondo tipo di conoscenza si ottiene attraverso una ricerca molto accurata». S. Theol.,, I, q. 87, a. 2.
18 – S. Theol., I, q. 114 a. 2 ad 2. Qui si può apprezzare l’eco della grande lezione dei Padri sul discernimento degli spiriti, lezione ben nota a Tommaso attraverso Giovanni Cassiano e soprattutto attraverso Gregorio Magno.
19 – Tommaso si trattiene su questi aspetti ad esempio nella interessante riflessione che propone chiedendosi proprio se l’uomo possa comandare il proprio pensiero: cfr. S. Theol., I-II, q. 17, q. 6.
20 – S. Theol., I-II, q. 94 a. 2 co.
21 – Un caso esemplificativo potrebbe, ad esempio, essere quella dell’istruzione obbligatoria per i minori, che assume varie forme nei diversi contesti e che in ogni caso rappresenta una mediazione sociale tra la tensione dell’adulto «capofamiglia» nel tutelare il sostentamento della vita propria e dei famigliari (rispetto a cui potrebbe essere una risorsa anche il lavoro dei figli più piccoli) e quella nel garantire un futuro migliore ai piccoli (da sottrarre quindi al lavoro per un periodo adeguato di tempo).
22 – Per una chiarificazione più pertinente a proposito del dibattito su ciò che costituisca un «conflitto morale» si veda ancora A. Da Re, Le parole dell’etica, cit., pp. 162-184.
23 – Un discorso analogo si potrà fare per la legge positiva.
24 – Non a caso l’idea della «lotta interiore» accompagna l’ermeneutica della struttura dell’anima di Platone, lì dove elabora l’articolazione tra le «facoltà» (concupiscibile, irascibile e razionale) a partire dall’indecisione e dalla decodifica dell’indecisione come un conflitto tra «parti» dell’anima. Cfr. il racconto di Leonzio, in Repubblica, IV 439 E – 440 A.
25 – S. Theol., I-II, q. 91 a. 4 co.
26 – S. Theol., I-II, q. 1, a. 6 ad 3.
27 – «L’uomo si limita a legiferare su quello che può giudicare. Ora, l’uomo non può giudicare degli atti interni, che sono nascosti, ma solo di quelli esterni e visibili. E tuttavia la perfezione della virtù richiede che l’uomo sia retto negli uni e negli altri. Quindi la legge umana non poteva reprimere, o comandare efficacemente gli atti interiori, ma per questo era necessario l’intervento della legge divina». S. Theol., I-II, q. 91, a. 4 co.
28 – «Due cose si possono distinguere tra loro in due modi. Primo, come cose di specie diversa: cioè come il cavallo e il bue. Secondo, come due entità, perfetta ed imperfetta, della medesima specie: cioè come il bambino e l’uomo adulto. Ebbene, la legge divina si distingue in legge antica e legge nuova in questo secondo modo. Ecco perché l’Apostolo paragona lo stato dell’antica legge allo stato del bambino sottoposto al pedagogo». S. Theol., I-II, q. 91, a. 5 co.
29 – «In queste due leggi [antica e nuova] la perfezione e l’imperfezione si rilevano in base a tre caratteristiche della legge, di cui abbiamo già parlato. Primo, la legge ha il compito di ordinare al bene comune. Ora, questo può essere di due specie. Può essere sensibile e terreno: e a codesto bene ordinava direttamente la legge antica; infatti nel prologo di essa il popolo viene invitato al regno dei Cananei». Ibid.
30 – «Alla legge spetta dirigere gli atti umani secondo l’ordine della giustizia. E anche in questo abbiamo la superiorità della legge nuova sulla legge antica, [anche] perciò si dice, che “la legge antica trattiene la mano, la nuova invece l’animo umano”». Ibid.
31 – «Terzo, la legge ha il compito di indurre gli uomini all’osservanza delle cose prescritte. Ora, la legge antica ricorreva per questo al timore delle pene; la legge nuova si serve dell’amore, che viene infuso nei nostri cuori mediante la grazia di Cristo conferita nella legge nuova, mentre in quella antica era prefigurata soltanto. Ecco perché S. Agostino può affermare, che “la differenza tra la Legge e il Vangelo è tutta qui: nel divario che passa tra il timore e l’amore”». Ibid.
32 – «[L’Apostolo] paragona lo stato della nuova legge alla condizione dell’uomo adulto, non più soggetto al pedagogo». Ibid.
33 – «[Il bene comune] può essere invece un bene spirituale e celeste: e a questo vuole indirizzare la nuova legge. Infatti il Cristo all’inizio della sua predicazione invitava al regno dei cieli, dicendo: “Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino”. Perciò S. Agostino insegna, che “nell’antico Testamento troviamo promesse di cose temporali, e per questo esso si chiama antico: mentre al nuovo Testamento appartiene la promessa della vita eterna”». Ibid.
34 – «[La legge nuova] ordina gli atti interiori dell’animo, secondo il detto evangelico: “Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei non entrerete nel regno dei cieli”». Ibid.
35 – Ibid.
36 – Questa scelta per il fine è l’espressione più intensa dell’unità tra l’intendere ed il volere, ed essendo una scelta che riguarda l’orientamento interiore complessivo della persona non è suscettibile di coercizione: «Rispetto agli atti da essa comandati la volontà può subire violenza, perché con la violenza si può impedire che le membra eseguiscano il comando della volontà. Ma all’atto proprio della volontà non è possibile fare violenza». Cfr. S. Theol., I-II, q. 6, a. 4 co.
37 – Su questa dinamica tra provenienza da altro e decisione Tommaso ritorna in diversi luoghi, ma sempre sottolineando il radicale primato decisionale della coscienza personale: «Per la nozione di violenza non basta che il principio sia esterno; ma è necessario aggiungere: “senza che il paziente vi apporti nessun contributo”. Ora, questo non avviene quando la volontà è mossa da un principio estrinseco: poiché è essa che vuole, pur essendo mossa da altro. Invece questa mozione sarebbe una violenza, se fosse contraria al moto della volontà. Ma ciò nel caso nostro è assurdo: poiché nel caso la volontà dovrebbe volere e non volere una medesima cosa». Cfr. S. Theol., I-II, q. 9, a. 4 ad 2.
38 – In definitiva tutta la lunga sezione dedicata agli habitus (I-II, qq. 49-89) va ben compresa non tanto come una trattazione tassonomica di vizi e virtù, ma ben più radicalmente come uno studi della genesi biografia delle abitudini, uno studio peraltro ben collocato nel quadro generale di un cammino dell’uomo (motus rationalis creaturae) in cui lo snodo esistenziale è precisamente il cambiamento della persona, tanto quanto al proprio fondamento di vita (domanda di salvezza) quanto di conserva quanto alle proprie abitudini maturate nel corso del tempo. Non a caso infatti Tommaso dedica tre distinte quaestiones alla genesi (51), allo sviluppo (52) ed alla contrazione fino al venir meno (53) degli
habitus, a riprova del fatto che al centro dell’attenzione va collocata la dinamica della vita della coscienza nel suo fluire storico e non la tassonomia delle diverse forme dell’abitudine.
39 – La quaestio 2 della Prima Secundae tematizza il problema antropologico delle idolatrie nel contesto dell’interrogativo sul fine ultimo della vita dell’uomo.
40 – Il Dio vero rimane – nel quadro della analisi che Tommaso conduce nell’esordio della I-II – al di là di ogni definizione positiva; in maniera forse minimale la Summa qui rileva che il Dio vero non può essere nulla di ciò che appartiene all’orizzonte del creato: «È impossibile – scrive Tommaso – che la beatitudine umana si trovi in un bene creato. Infatti la beatitudine è il bene perfetto che appaga totalmente il desiderio: altrimenti se lasciasse ancora qualche cosa da desiderare, non sarebbe l’ultimo fine. Ora, l’oggetto della volontà, cioè dell’appetito umano, è il bene universale, come quello dell’intelletto è il vero nella sua universalità. È evidente quindi che niente può appagare la volontà umana, all’infuori del bene preso in tutta la sua universalità. Esso però non si trova in un bene creato, ma soltanto in Dio, poiché ogni creatura ha una bontà partecipata. Perciò Dio soltanto, può appagare
la volontà dell’uomo, “il quale”, come dice il Salmo, “sazia di beni la tua brama”. Dunque in Dio soltanto consiste la beatitudine dell’uomo». S. Theol., I-II, q. 2, a. 8 co. Rimanendo all’interno del discorso antropologico circa la vita ed il dinamismo della coscienza, il profilo di Dio chiamato in causa da Tommaso non è poi così distante da quel «totalmente Altro» di cui parlava Barth nel Römerbrief, perché qui non è al centro la questione del Volto di Dio, ma anzitutto del ruolo di un dio/Dio rispetto alle dinamiche della vita interiore e dello smascheramento per via esperienziale – poi riflessivamente ricompreso – di tutto ciò che falsamente potrebbe essere riconosciuto come Dio. Come si osserverà, Tommaso richiama il tema della partecipazione – tema peraltro non del tutto circoscrivibile nell’analogia entis – ma qui per rimarcare l’alterità, non l’eventuale forma di una accessibilità del Volto di Dio.
41 – A meno che non lo si intenda come un autentico esercizio spirituale, che tuttavia trova il suo senso in un riorientamento del desiderio che lo precede.
42 – «Ciò che importa principalmente per l’educazione ed il progresso dell’essere umano, nell’ordine morale e spirituale (come nell’ordine della crescenza organica), è il principio interiore: vale a dire, qui, la natura e la grazia. I nostri mezzi non sono che degli ausiliari, la nostra arte, un’arte cooperatrice ministra rispetto a questo principio interiore. E tutta l’arte di togliere e potare – cosa che riguarda la tempo stesso l’individuo e la persona – in modo tale che nella intimità dell’essere la pesantezza dell’individualità diminuisca, quella della personalità vera e della sua generosità aumenti. È un’arte difficile». Cfr. J. Maritain, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer 1946; tr. it.: La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 199510, p. 28.
43 – È opportuno dire «praticamente» per richiamare su questo punto quanto sia decisiva la prassi ben più di quanto non lo siano le dichiarazioni di intenti.
44 – A questo proposito di veda ancora A. Da Re, Le parole dell’etica, cit., dove annota tra l’altro (p. 84): «L’etica delle virtù infatti si concentra sulla valorizzazione non tanto dell’atto morale o delle sue possibili conseguenze, bensì del soggetto stesso che agisce. In tal senso si può affermare che in quanto etica della persona, più che dell’atto, essa offre una interpretazione metaetica dell’esperienza morale dell’uomo, che non è immediatamente preoccupata di fornire criteri di giudizio dei singoli atti, ma intende piuttosto rendere conto del problema di formazione di sé da parte del soggetto»