AUTONOMIA ED ETERONOMIA
APPUNTI PER UN APPROCCIO ANTROPOLOGICO A PARTIRE
DALLA LEZIONE DI TOMMASO D’AQUINO
di Giovanni Grandi
Università degli Studi di Padova
Tutto questo implica però che modificare il proprio criterio profondo di orientamento nelle scelte voglia dire mettere in discussione il legame con la realtà ritenuta fondamento vitale della propria esistenza. Ora, lungo tutta l’introduzione della Prima Secundae Tommaso sottolinea il fatto che proprio questo cambiamento alle radici del proprio modo di stare al mondo sia l’appuntamento di ogni uomo dopo aver sperimentato l’insufficienza dei falsi dei : a partire dall’esperienza deludente dell’idolatria la persona adulta può finalmente mettere a fuoco l’esigenza di un riorientamento di sé, aprendosi all’idea di accogliere la venuta di un Dio «totalmente altro» e la sua offerta di salvezza. Si tratta di un cambiamento che ha tutti i caratteri
radicali di una «conversione», e dunque si capisce ancora una volta perché ad avviso di Tommaso la sequenza che segna il passo della maturazione umana è: insoddisfazione interiore-riorientamento a livello della sorgente di salvezza-rinnovamento della legge divina-cambiamento nell’agire. In altre parole: la maturazione dell’agire morale
passa attraverso una revisione a livello spirituale, mentre non può accadere il contrario. Nell’adulto la revisione spirituale dell’attesa di salvezza non può cioè avvenire attraverso la modificazione dell’agire morale : disciplinare i comportamenti significa agire a livello del fare, ma non del volere e dunque non a livello della «legge divina»; la via della disciplina dei comportamenti costituisce un itinerario pedagogico per il bambino che ancora non ha iniziato a orientarsi facendo i conti con il proprio desiderio profondo. È invece un sentiero interrotto rispetto all’esperienza del giovane e dell’adulto, il cui giudizio ormai è strutturalmente e irrevocabilmente «autonomo».
5. Autonomia, eteronomia e questione morale
Si intuisce allora che, se emerge culturalmente una questione morale, difficilmente potrà essere affrontata rimanendo all’interno di uno schema di pensiero che discute di eteronomia e autonomia contrapponendole tra loro, secondo una prospettiva di più o meno lontana derivazione kantiana: ci si ritroverà inevitabilmente per un verso a contestare l’«autonomia del giudizio», volendo riaffermare lo spessore oggettivamente regolativo della legge, e per un altro ad opporsi all’«eteronomia», avvertendola come una istanza di per sé mortificante della libertà. Una prospettiva tesa all’ampliamento del discorso morale, in particolare attraverso la tematizzazione delle domande di felicità e di salvezza, segnala quantomeno un itinerario di riflessione alternativo.
Dal punto di vista di una filosofia dell’educazione si potrebbe dire che il problema di sempre rimane – nel caso dell’adulto – quello della presa di coscienza e del riorientamento del desiderio tra la domanda di felicità nel tempo e la domanda di
salvezza nella storia ed al di là del tempo; certamente l’educazione, che pure come ricordava Maritain «è l’arte del togliere e del potare» non può accontentarsi di riproporre buone leggi, ma deve anzitutto mostrare la bellezza di ciò a cui la loro pressione vorrebbe condurre.
Tralasciando però le declinazioni educative, occorre riconoscere che nella prospettiva cristiana compendiata da Tommaso la problematicità dei comportamenti e degli orientamenti morali – lì dove venisse tematizzata – andrebbe ricondotta in radice alla pluralità delle risposte che gli uomini danno praticamente a se stessi (e agli altri) quanto a ciò che costituisce fondamento di salvezza. A questo proposito la lezione tommasiana non è diversa da quella dei Padri della Chiesa antica e dell’intera tradizione cristiana: la salvezza viene solo dal Dio crocifisso e risorto.
Evidentemente sorge un interrogativo sul rapporto tra il morale e il religioso confessionale, che il lettore contemporaneo non può ignorare: quale impatto effettivo ha la questione del Volto di Dio sulla strutturazione di un’etica, pur rimarcando che il nesso è di ordine interiore? La questione rimane sul tavolo di lavoro e non pare saggio ignorarla. Tuttavia proprio la Summa Theologiae, dunque uno scritto confessionale che non aveva certo bisogno di ritenere minimamente in discussione il kerigma, suggerisce un approccio molto circospetto alla questione del Volto del Dio che salva. A differenza della Summa Contra Gentiles – uno scritto che diremmo essere più accademico-dimostrativo – la Summa Theologiae non parte dall’affermazione del Dio rivelato nella tradizione cristiana, ma piuttosto imbocca un percorso negativo: dinanzi alla pluralità delle offerte di salvezza, Tommaso suggerisce di constatarne anzitutto l’insufficienza, guadagnando una prospettiva che si potrebbe dire pre-confessionale.
Questa prospettiva può essere sintetizzata in due momenti di consapevolezza: il primo è quello della presenza operante nell’umano di un desiderio di salvezza, distinto da un desiderio di felicità e di vita buona; il secondo è quello per cui, se c’è una risposta adeguata a questo desiderio, ebbene non può essere data da alcuna realtà creata. La critica alle diverse forme dell’idolatria del mondano, che rendono angusta
La rivendicazione di indipendenza, lì dove esprime proprio questo desiderio profondo di una vita più umana, è in radice una domanda di liberazione dalle dipendenze schiavizzanti: questa domanda, a dispetto di quanto potrebbe far concludere una lettura troppo frettolosa del sentire comune contemporaneo, trova nella valorizzazione dell’«eteronomia della coscienza» e simul dell’«autonomia del giudizio» preziosi alleati a cui restituire il rispettivo ruolo.
Le due istanze non vanno dunque contrapposte, ma per guadagnare questo punto di vista occorre indubbiamente spostare l’asse del problema morale dal livello della disciplina dei comportamenti e del fare, al livello della delucidazione del desiderio, dunque a livello delle dinamiche di strutturazione (educazione – esperienza – riflessione) del volere profondo della persona. In quest’ottica si colloca indubbiamente un’etica delle virtù, mentre molto difficilmente possono qui convergere, e dunque uscire dalla logica della contrapposizione, le prospettive del deontologismo e del teleologismo ; la centralità della persona in etica non è infatti un puro assunto valoriale (la persona come «fine») rispetto a cui elaborare una disciplina del fare più o meno tesa a misurare le conseguenze possibili dell’azione: ben più radicalmente è il punto sorgivo e motivazionale a cui metodologicamente occorre risalire per comprendere la logica unitaria del decidere di sé in cui si iscrive il decidere per altri, con altri e di fronte ad altri.
la vita della persona, è per Tommaso il presupposto per uno spazio di accoglienza del Dio vivente.
In altre parole, ciò che precede la possibilità dell’interiorizzazione della legge divina della carità – che per Tommaso rimane il punto di approdo anche della maturità umana in senso morale – è l’esplorazione accurata delle profondità del desiderio umano, unita alla presa di coscienza del potere disumanizzante delle idolatrie del finito.
Da questo punto di vista, e proprio qui trovando – a conclusione di questa schematica rassegna – un rinvio alle problematiche esaminate in apertura, si può osservare che proprio la prospettiva a cui richiama l’Aquinate riconosce la centralità della questione di ciò in cui consiste una vita pienamente umana.
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1 – Tommaso d’Aquino, S. Theol., I-II, q. 6, a. 4 co.
2 – I. Kant, Critica della ragion pratica, Libro I, cap. 1, § 8, (teorema IV).
3 – Si parla della formazione del giovane e dell’adulto, cioè della persona che è ormai entrata nell’orizzonte di una moralità che ha come cardine il decidere di sé dinanzi ad una progettualità di vita. Diverso è il discorso del bambino, il cui decidere di sé non si misura ancora con progetti di lungo respiro.
4 – J. Maritain, La philosophie morale. Examen historique et critique des grands systèmes, Editions Gallimard, Paris 1960; tr. it.: La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 19995, p. 131.
5 – S. Bastianel, Autonomia morale del credente, Morcelliana, Brescia 1980, p. 61.
6 – Op. cit., p. 25.
7 – C. Taylor, The Malaise of Modernity, Canadian Broadcasting Corporation 1991; tr. it.: Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 20064, p. 18.
8 – A. Da Re, Le parole dell’etica, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2010, pp. 180.
9 – In questo senso invita a riflettere anche Luigi Alici, esaminando il senso della «negoziabilità»: «Nemmeno la negoziazione può sfuggire, in nome di una impossibile neutralità, ad una serie di implicazioni etiche: ci può essere, infatti, una cattiva negoziazione (condotta, ad esempio, in nome della forza), ed una buona negoziazione, che cerca di favorire il conseguimento del bene possibile in una situazione di conflitto. L’appello alla “non negoziabilità” non getta dunque un discredito implicito sulla negoziazione degli interessi. Nella concreta prassi politica, del resto, sono oggetto di negoziato anche valori alti e di per sé “non negoziabili”, come ad esempio la pace: non certo perché il valore in sé della pace possa essere mercificato, o ridotto ad una convenzione sociale, o sottoposto ad un processo di transazione, ma perché le condizioni storiche concrete per la sua promozione possono richiedere una forma di mediazione, in molti casi non solo lecita, ma persino doverosa». L. Alici, Il cristiano e il bene comune, in Bene comune e valori “non negoziabili”, a c. di F. Miano, «Quaderni di Dialoghi» – AVE, Roma 2007, pp. 12-13.
10 – Questa «reazione forte» potrebbe essere intesa come il «risentimento di molti» che Michele Nicoletti molto acutamente rileva sorgere quando l’alleanza tra «trono» e «altare» finisce per ingenerare la percezione che il religioso sia un «potere» (con facoltà di coercizione civile) e non una «autorità» (con capacità di moral suasion, come si direbbe): «Il modo proprio di esercitare l’autorità da parte della Chiesa passa attraverso il “metodo della libertà”, che oppone definitivamente la logica dell’autorità morale e religiosa alla logica coercitiva del potere politico. […] L’alleanza tra trono e altare ha per la religione un risultato letale e finisce per esporla a un terribile rischio: in nome di un vantaggio presente essa sacrifica il proprio futuro ed ottenendo un potere che non le è dovuto finisce per perdere il potere che le è proprio. Alleandosi al potere politico, la religione aumenta la sua potenza su alcuni ma perde autorevolezza, perde la speranza di regnare nei cuori di tutti, perché quell’alleanza le attira il risentimento di molti». M. Nicoletti, Autorità religiosa e autorità politica: la dialettica e la libertà, in S. Biancu e G. Tognon (a c. di), Autorità. Una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010, pp. 116-117.