AUTONOMIA ED ETERONOMIA
APPUNTI PER UN APPROCCIO ANTROPOLOGICO A PARTIRE
DALLA LEZIONE DI TOMMASO D’AQUINO
di Giovanni Grandi
Università degli Studi di Padova

prescindere da ciò che possono aver deciso o stabilito. La visione complessiva che si afferma è quella ben descritta da Charles Taylor: «Ciascuno ha il diritto di sviluppare la sua propria forma di vita, fondata sulla sua propria percezione di ciò che è realmente importante o ha realmente valore. Gli esseri umani sono chiamati ad essere fedeli a se stessi, e a ricercare la propria autorealizzazione. In che cosa consista, ciascuno, uomo o donna, deve in ultima analisi deciderlo da sé. Nessun altro può, o deve, tentare di dettarne il contenuto» .
«Indipendenza» e «dipendenza» (e le loro ombre tecniche, «autonomia» ed «eteronomia») sono avvertite come autentiche forme a priori della stessa esperienza morale, forme che però si direbbe già decidano del contenuto, assegnando alla prima la palma del «positivo» ed alla seconda l’onta del «negativo».
La prospettiva del primato dell’«indipendenza», che Taylor riconduce peraltro ad una forma di individualismo, entra inevitabilmente in rotta di collisione con qualunque sorgente che includa nel proprio lessico forme riconducibili alla «dipendenza». Un esempio contemporaneo evidente è dato dal sospetto nei confronti dei cosiddetti «valori non negoziabili»; come annota Antonio Da Re, «in via preliminare va
osservato come l’aggettivo “negoziabile” alluda a ciò che può essere contrattabile, vendibile, oggetto appunto di negotium e di commercio; e quindi, se si parla di “valori non negoziabili” è perché si sottintende che vi siano valori che possono essere oggetto di contrattazione e valori invece che devono essere sottratti a un procedimento di questo genere» . Da questo punto di vista si intuisce che un aspetto primario del «non negoziabile» risiede nel non-aver-prezzo delle realtà di cui si parla: è la semantica dell’inestimabile, del prezioso .

Eppure lo sfondo sopra richiamato volge il «non negoziabile» piuttosto nel senso dell’imposto, del dettato e suscita una reazione forte ; l’agire sotto dettatura è avvertito diffusamente come sinonimo di vita peggiore, meno umana, mortificata. Lo sfondo che valorizza l’«autonomia» intesa come «indipendenza», reagisce così all’«eteronomia», alla prospettiva dell’«imposizione» e della «dipendenza» in nome della tensione alla costruzione di una vita buona; paradossalmente l’inestimabile viene avvolto dall’ombra del mortificante .
Su questo sfondo ha evidentemente gioco facile chi fa leva sulle forme a priori e su una diffusa allergia alla dettatura per erodere il consenso sugli stessi contenuti, ma questo aspetto porterebbe a ragionare sulle strumentalizzazioni di cui già diceva Bastianel.
Rimanendo invece a qualche distanza da questi sviluppi può essere interessante avvicinare la questione dell’«autonomia» dal punto di vista del desiderio di vita buona e delle dinamiche dell’interiorità, individuando dunque un approccio antropo
logico prima ancora che morale e sociale. Si tratta allora di ritrovare le due tesi di Tommaso sopra richiamate: l’idea di una struttura dialogale della coscienza (eteronomia della coscienza) e di una strutturale libertà del decidersi (autonomia del giudizio).

 

3. La struttura dialogale della coscienza (eteronomia della coscienza).
Entrando ora nel merito delle tesi tommasiane è opportuno richiamare preliminarmente alcune avvertenze di ordine concettuale forse scontate, ma pur sempre utili per evitare fraintendimenti.

Il lessico dell’autonomia e dell’eteronomia – impiegato intuitivamente dalla mens contemporanea secondo una logica di contrasto tra le due modalità (etero-/auto-) – è riconducibile all’orizzonte kantiano ed è rinvenibile, quanto alle questioni che sollecita, anche in quello tommasiano. Anche Tommaso ragiona distesamente sull’uomo a partire dal riconoscimento che questi trova nella libertà di scelta e nella padronanza di sé i propri tratti distintivi; anche Tommaso riflette sul ruolo della legge nel quadro di un discorso morale ed analizza il rapporto tra la coscienza e ciò che le viene proposto da una sorgente esterna. Anche Tommaso, dunque, affronta i temi dell’autonomia (come padronanza di sé) e dell’eteronomia (rapporto con leggi che la coscienza non crea da sé). Il tema morale, dunque, è sempre il medesimo. Anche dal
punto di vista lessicale c’è lo spazio per un accostamento: «etero-nomia» traduce in maniera puntuale il concetto tommasiano di «legge» (nomos/lex) dalla «provenienza esteriore» (etero-/exterius movens). Tuttavia il quadro entro cui il tema viene affrontato, ed in cui i lemmi vengono impiegati, è decisamente diverso da quello kantiano, ed è quello di uno studio delle dinamiche della vita interiore; eteronomia ed autonomia sono dunque riferimenti che possono essere chiamati in questione ma, appunto, mutatis mutandis.

La vita della coscienza è costituita dal prendere delle decisioni, e – prendendole – dal decidere di sé: con le proprie scelte l’uomo modifica la realtà e costruisce (o intende costruire) un mondo migliore ed allo stesso tempo modifica se stesso, costruisce cioè progressivamente la propria personalità, in senso morale ma più oltre in senso spirituale. Lungo questo percorso costruttivo si gioca, secondo Tommaso, la gran
de partita dell’esistenza nel tempo: la persona si trova cioè alle prese con la spinta insopprimibile al dare risposta ad una domanda di vita buona e simultaneamente ad una domanda di salvezza, due domande irriducibili tra loro secondo la lezione della Summa Theologiae . All’interno di questa visione complessiva, che costituisce la cornice da non dimenticare, è possibile comprendere la dinamica vitale della coscienza, ovvero la dinamica del discernimento.
Secondo Tommaso ogni azione umana, cioè ogni scelta di spessore morale in cui si esprime la libertà, matura attraverso una attivazione di tutte le risorse dell’uomo: abitudini consolidate, sentimenti, memorie, ragionamenti e suggestioni di vario tipo lavorano di concerto – e non di rado in maniera cacofonica – in vista del decidere. Tutta la Prima Secundae della Summa Theologiae è organizzata al modo di
un grande affresco delle pressioni interiori con cui la persona si misura, dovendo maturare una decisione: dopo aver esplorato le condizioni dell’operatività della coscienza (qq. 6-21), viene analizzato il ruolo dei sentimenti (le passiones, qq. 22-48), quindi si passa all’esaminare le pressioni che salgono dalla storia della persona – dunque le esperienze e la comprensione del mondo stratificatasi in abitudini, che emergono nella forma della spontaneità – (gli habitus, o principi intrinseci o interiori, qq. 49-89) ed infine si osservano le pressioni che vengono dall’esterno: tra queste ecco dunque le leggi o principi esterni (o esteriori), a cui sono dedicate le questioni dalla 90 alla 108.
Il discorso sulla «legge», dunque su quel «nomos» di cui si discute quanto alla provenienza, si colloca, come segnalato sopra, all’interno di un quadro di comprensione della vita interiore. Senza nulla togliere al valore delle annotazioni della Summa in senso più strettamente giuridico, occorre in ogni caso osservare che il trattato «De lege» proposto nella Prima Secundae va interrogato anzitutto in senso antropologi
co, alla luce del disegno complessivo di ricapitolazione della struttura e della vita della coscienza tracciato in questa imponente sezione della Summa.
L’esordio della quaestio 90 consente di contestualizzare con precisione il ragionamento sulla legge nel quadro appena richiamato. Tommaso annota quanto segue:

«Dobbiamo ora ragionare a proposito dei principi esteriori dei nostri atti. Ora, il principio esteriore che inclina al male, è il diavolo, e di esso abbiamo già parlato nella Prima Parte, trattando della tentazione. Invece il principio che spinge al bene dall’esterno è Dio, il quale ci istruisce mediante la legge, e ci soccorre mediante la grazia. Perciò prima tratteremo della legge, quindi della grazia» .

Si apre dunque la riflessione sui «principi esteriori»: propriamente parlando la «legge» [nomos] non può che giungere dall’esterno, cioè da «altro» [etero-], da una sorgente [Principium] che «muove da fuori» [exterius movens], e giunge come uno «strumento» per muovere la coscienza, avendo il carattere dell’«istruzione», nel caso provenisse da Dio [qui nos instruit per legem] o della «tentazione», nel caso provenisse dal Diavolo [Principium exterius ad malum inclinans].
Il discorso sui principi esteriori [de principiis exterioribus actuum] investe anzitutto due sorgenti tra loro contrapposte secondo l’intenzionalità che le caratterizza: da un lato il Diavolo, che inclina al male, dall’altra Dio che muove al bene. Tentazioni e leggi sono gli «strumenti» attraverso cui si concretizza la pressione di questi due «Princìpi» sulla coscienza, e si distinguono dunque tra loro per ciò a cui mirano.
Ora, la nozione di «principio esteriore» merita di essere precisata in ciascuna delle sue parti: Tommaso è sempre molto accurato lì dove fa un uso tecnico del linguaggio, e non a caso parlando delle pressioni con cui si misura la persona nella propria interiorità non impiega mai la nozione di «causa», ma appunto quella di «principio». Questa scelta è molto significativa, perché consente di sottolineare il dato di una origine (da dove viene una pressione) ed allo stesso tempo di precisare che in ogni caso non si tratta mai di qualcosa che abbia la forza di imporsi alla coscienza. «Causa» dell’agire in senso proprio è, per Tommaso, soltanto la persona stessa: non solo il Diavolo non può imporsi al volere dell’uomo senza strapparne il consenso, ma neppure Dio stesso può agire in tal modo sulla coscienza. Del resto la grande coordinata con cui si apre l’affresco psicologico-spirituale della Prima Secundae è proprio quella della libertà dell’uomo di decidere di sé, tratto in cui si condensa l’essere imago Dei .

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