DAI DOVERI AI DIRITTI.
PROSPETTIVE DI RICOSTRUZIONE DEL RUOLO DELLA PERSONA NELLA SOCIETÀ GENERALE E NELLE SOCIETÀ INTERMEDIE*
di Umberto Vincenti
(Università di Padova)

3. Un numero crescente di studiosi (e non solo) conviene sull’opportunità o sulla necessità di ripensare i nostri sistemi giuridici: l’idea è quella di costruire un diritto – inteso come ordine normativo oggettivo – a partire dall’enunciazione di tutta una gamma di doveri, quei doveri che sono essenziali per il sopravvivere della comunità organizzata; e il cui adempimento costituisce una sorta di pre-condizione per la soddisfazione dei diritti di chi ne abbia titolo fondato. Dal punto di vista educativo e, più in generale, etico ricordare agli uomini – con la maestà della legge – che essi hanno innanzi tutto dei doveri ha un’efficacia suggestiva diversa rispetto a quella di dire loro che hanno dei diritti: la comunanza del dovere sollecita all’impegno comune, unisce, mentre la titolarità individuale del diritto separa così come le proprietà fondiarie sono divise dai confini e il proprietario, d’altronde, sembra non avere bisogno di nessuno perché basta la cosa a soddisfarlo.
Vi sono inoltre tutta una gamma di nuovi diritti che, a ben vedere, non possono essere reclamati, esercitati, rivendicati da nessuno. E’ il caso dei diritti delle generazioni future; o quello del diritto alla pace. Tutti conveniamo che la pace è un bene (o il bene) supremo; ma in concreto chi di noi potrà agire contro lo stato fuorilegge? Qui più che un diritto è preferibile affermare l’esistenza di uno o più doveri a carico degli stati e affidare a organismi internazionali i poteri di accertamento e sanzionatori.
Vi sono ancora dei settori della vita organizzata, comunità minori rispetto alla comunità generale ma di primaria importanza, in cui è uso, anzi paradigma politicamente corretto, attribuire con solennità “i diritti” a soggetti deboli o molto deboli, fisicamente e/o moralmente. Una di queste comunità è l’ospedale, un’altra è la famiglia.
Il malato ha, oggi, i suoi diritti: diritto di essere informato, diritto di scegliere tra le terapie e gli atti medici possibili, diritto di non curarsi, diritto a non soffrire ecc.
Ci si è domandato se il modulo dell’attribuzione di una pur così ricca gamma di diritti sia il migliore in considerazione dell’obiettivo primario che è quello di assicurare al paziente il trattamento medico, gli atti sanitari, migliori per contrastare o lenire la patologia da cui il paziente stesso è afflitto. Si è così dubitato che codificare i diritti del malato possa essere davvero utile se si considera che a un individuo debole o debolissimo o incosciente si attribuisce un potere di pretesa e di rivendicazione il cui esercizio postula l’impiego di energie, la voglia di battersi insomma: questa è, d’altronde, la tecnica dei diritti, attribuire a qualcuno la possibilità di denunciare e di dimostrare l’ingiustizia asserita. Se si guarda alla vicenda oltre la cortina fumogena della retorica, vi è l’impressione che l’opzione (politica) di medicalizzare sempre più la vita umana ha come costo anche quello dell’estrema difficoltà – per l’ente promittente ed erogatore – di esercitare il controllo sui propri operatori così come si postulerebbe e ci si attenderebbe; molto più agevole attribuire ai pazienti il diritto di protestare e contestare e rimettere, in eventualità, ai giudici la decisione finale.
Un discorso strutturalmente analogo è da fare anche per i bambini ai quali pure si sono attribuiti enfaticamente “i diritti”: diritto alla protezione e alle cure necessarie, diritto di essere educato nella propria famiglia, diritto di essere informato, diritto di essere ascoltato, diritto di esprimere liberamente la propria opinione, diritto a conoscere le proprie origini, diritto al progetto di vita, diritto al riposo ecc.
Dal punto di vista dell’opzione di tutela i bambini stanno nella stessa condizione dei malati. Penso che abbia ragione Elisabeth Wolgast quando scrive che, in casi del genere,

invocare un diritto è […] spesso un mezzo per evitare di attribuire responsabilità a qualcuno in posizione di forza e di controllo. In tal caso, è sbagliata la nostra messa a fuoco morale (Wolgast, La grammatica della giustizia, Roma 1991, p. 53).

Se si scorre, anche rapidamente, la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo ci si rende conto che il fanciullo-tipo che si è pensato di soccorrere è soprattutto il fanciullo nato e vissuto in uno dei Paesi dell’Occidente del mondo: lo conferma, credo, l’analisi delle vicende considerate in funzione delle tutele poi apprestate o di cui si raccomanda l’apprestamento ad opera degli Stati parte. Nel Preambolo si legge che «il fanciullo, ai fini dello sviluppo completo e armonioso della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione». Ma poi in varie disposizioni si presenta il caso che la famiglia sia disgregata a causa di una pluralità di vicende. Gli artt. 9 e 10 introducono l’ipotesi che il fanciullo viva separato da uno o da entrambi i genitori: qui il «clima di felicità» non sembra più un obiettivo perseguibile o, comunque, da perseguirsi sempre e comunque, visto che ci si riduce a garantire al fanciullo «il diritto di intrattenere rapporti personali e contatti diretti e regolari con entrambi i suoi genitori». La gioia dell’ambiente familiare è degradata alla regolarità degli incontri; e, per di più, la tecnica protettiva è quella, qui già criticata, dell’attribuzione al soggetto debole di un diritto. Ma dietro a disposizioni del genere ci sta un problema morale (ha ragione Wolgast) perché la logica, e anche la retorica del preambolo, dovrebbero imporre ai genitori dei doveri assai rigidi di conservazione di tutte quelle relazioni da cui dipende la felicità del fanciullo nella sua famiglia. In realtà la tecnica del dovere finisce con il costringere in funzione di interessi super-individuali; ma se non si vuol limitare il diritto all’autodeterminazione degli adulti (in questo caso i genitori) è evidente che la felicità del fanciullo può essere irreparabilmente compromessa e attribuirgli allora un diritto (come fa appunto la Convenzione ONU) suona quasi come una presa in giro e, comunque, è una grave contraddizione sul piano morale.
Proprio il caso dei genitori in conflitto e che confliggono armati dei loro diritti ci fa intendere il significato profondo della riflessione di Simone Weil che ci vuole ricondurre sul piano dei doveri:

Il possesso di un diritto implica la possibilità di farne un buono o un cattivo uso. Il diritto è dunque estraneo al bene. Al contrario, il compimento di un obbligo è un bene sempre, dovunque (Wolgast, Morale e letteratura, Pisa 1990, p. 55).

 

4. Naturalmente la lotta per l’affermazione e il rispetto dei diritti umani ha grandissimi meriti e va proseguita. Ciò non toglie che dobbiamo evidenziarne i limiti e gli svantaggi che, in certi settori della vita civile, non si possono occultare o negare. Per esempio, siamo certi che inculcare nei nostri bambini lo spirito rivendicazionista insito nella cultura dei diritti sia proprio un bene? Lo stesso è da domandarsi in relazione ai coniugi, cioè alla coppia di riferimento di quella famiglia nei cui confronti proprio i bimbi sono solennemente proclamati titolari di diritti essenziali. Così ci appare tutt’altro che improvvisata o pessimista, ma verace, la constatazione di Gustavo Pietropolli Charmet:

L’istituzione alla quale più di tutte gli adolescenti di oggi hanno sottratto quasi totalmente il potere simbolico di cui godeva in passato è la scuola, ridotta a un edificio e un insieme di adulti deputati a erogare un servizio. Gli adolescenti di oggi entrano ed escono dalla loro scuola con indifferenza e padronanza; non ne hanno paura, non si sentono in colpa se non hanno fatto i compiti (Pietropolli Charmet, Ritratto dell’adolescente di oggi, Roma-Bari 2009, p. VIII).

Ora io penso che questa situazione – la cui descrizione mi sembra, tutto sommato, realistica – non sia affatto positiva; e penso anche che essa sia, in che misura non so, conseguenza, una conseguenza, della cultura dei diritti. Ci può abituare a considerare le istituzioni, ma anche il nostro prossimo vicino e lontano, come un erogatore di prestazioni (a nostro favore) senza contropartita. Si instaurano una mentalità e uno stile rivolti alla captazione e non all’oblazione; e in questo contesto la solidarietà rischia di essere uno slogan di piazza e una mission demandata ad altri e, in primis, a quel gigante che ci sovrasta tutti, cioè lo Stato.
Ritornare a parlare per doveri – e non esclusivamente per diritti – non significa auspicare un ritorno a un passato di sopraffazione del quale ci siamo fortunatamente liberati. Significa, invece, reintrodurre, nel nostro immaginario collettivo, l’etica della responsabilità: un’etica nei fatti quasi perduta, ma che la sopravvivenza, e poi il bene vivere, delle comunità a cui partecipiamo assolutamente postulano. Dobbiamo capire che i nostri comportamenti, in queste comunità, producono conseguenze per gli altri che vi partecipano; e ciò a cominciare dalla nostra famiglia alla quale non dobbiamo far pagare i costi dei nostri desideri o capricci. Anche se a questi desideri o capricci noi riuscissimo, con l’aiuto di una legge talvolta essa stessa poco responsabile, a dare il sontuoso manto dei “diritti”. Insomma solo se impareremo ad adempiere ai nostri doveri di partecipazione, solo se sapremo sacrificarci per le comunità di cui siamo parte (e tanto più se in posizione di primazia), potremo garantire i diritti degli altri, specie di quelli che dipendono da noi, a cominciare dai nostri bambini.

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* Dedico alla memoria di Francesco Gentile.


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