DAI DOVERI AI DIRITTI.
PROSPETTIVE DI RICOSTRUZIONE DEL RUOLO DELLA PERSONA NELLA SOCIETÀ GENERALE E NELLE SOCIETÀ INTERMEDIE*
di Umberto Vincenti (Università di Padova)
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Abstract
In this essay, Umberto Vincenti speaks about the “age of rights”, begun with the Enlightenment and eighteenth century’s revolutions, to stress the problems connected to the concepts of claim and pretension closely related to the modern approach to rights. Umberto Vincenti, therefore, highlights the opportunity, and the necessity, to return to speak about duties, re-introducing the “ethics of responsability” to assure everybody’s – and most of all, weakest people’s ones – rights.
Il possesso di un diritto implica la possibilità
di farne un buono o cattivo uso. Il diritto è
dunque estraneo al bene.
Al contrario, il compimento di un obbligo
è un bene sempre, dovunque.
(Simone Weil)
1. Viviamo nell’età dei diritti; e non v’è chi, anche nel quotidiano, sul lavoro o in famiglia, in qualunque comunità si trovi a partecipare, non rivendichi, profondamente convinto, la titolarità e il rispetto dei propri diritti. E attribuiamo dei diritti sempre nuovi anche a chi non sia in grado di esercitarli (com’è il caso dei malati e dei bambini); o a chi ancora non è (come le nuove generazioni); o a chi non sarà mai uomo o persona (come l’ambiente). In questo vi è già una certa dose di illogicità che non è casuale, ma si può spiegare e comprendere attraverso la storia della nostra modernità, diciamo dall’illuminismo e dalle rivoluzioni settecentesche a noi. Allora vi era l’esigenza di costruire un nuovo sistema di potere nel quale non vi fossero più i privilegi di pochi (i nobili e gli ecclesiastici) e fosse, invece, consentito a tutti, a prescindere dal ceto, di avere: avere i beni della vita a cominciare dalla proprietà delle cose per giungere, come si legge nella Dichiarazione dei diritti della Virginia (1776), alla “felicità”. Su questi diritti di avere – per i più soltanto potenziale (i proprietari sono sempre pochi per non dire dei felici) – si è costruita tutta una nuova organizzazione sociale oltre che di potere; un’organizzazione fondata sulla libertà di qualunque uomo, una libertà pari dunque, e, pertanto, sull’eguaglianza: eguaglianza dei diritti sulla quale si è pure fondata l’eguale dignità degli uomini, chiunque essi siano.
La radice dei diritti sta nella pretesa e nella rivendicazione; e si capisce che pretese e rivendicazioni, la domanda insomma di beni sempre nuovi e più numerosi, non si esauriscono e l’uomo è così in continua captazione: non si accontenta mai, ma esige ogni giorno di più, dagli altri e, particolarmente, dal soggetto a cui per contratto ci siamo tutti assoggettati, lo Stato. Più o meno è questa la condizione in cui ci troviamo ora, almeno nelle democrazie occidentali contemporanee.
L’età dei diritti è stata salutare perché ha liberato l’uomo da alcune catene che lo vincolavano, talora lo annientavano; e nella libertà e nell’eguaglianza vi è stato un indubbio progresso civile e materiale. Ma non sono mancate le contraddizioni che, ai giorni nostri, sono particolarmente evidenti; tanto che non pochi oggi si domandano se sia opportuno o necessario cambiare. Una critica dei diritti – o del loro sistema in funzione della giustizia – è cominciata da tempo, anche se non se ne parla molto e non ha pertanto scalfito l’idea che l’ordine giuridico debba instaurarsi attraverso l’attribuzione a qualunque persona di un fascio di diritti, tutti quelli che le consentano di essere indipendente e sovrano a fronte del prossimo, anche di quello più vicino (un genitore, un coniuge, un figlio…). Ma la critica è divenuta indilazionabile prima di tutto per acquisire consapevolezza, quella consapevolezza che l’ubriacatura dei desideri e delle rivendicazioni legittime rischia di farci smarrire.
Si imputa alla teoria e alla pratica dei diritti di avere determinato una sorta di atomismo sociale nel senso che gli individui portatori di pretese tendono soprattutto a contrapporsi gli uni agli altri piuttosto che a cooperare; e alla fine ad isolarsi nel godimento dei beni a cui hanno diritto divenendo non solo indipendenti, ma anche deresponsabilizzati. È una critica che da qualche tempo si è incominciato a svolgere in Nord America (da una filosofa come Elisabeth H. Wolgast) e ora è stata recepita anche da noi (per esempio da Tommaso Greco). In sé non vi è alcuna novità perché una critica del genere era già stata formulata a suo tempo dal nostro Mazzini in un libretto quasi dimenticato dal titolo significativo Dei doveri dell’uomo.
Mazzini riteneva profondamente diseducativo che un ordinamento giuridico fosse strutturato come sistema di diritti: i diritti non solo isolavano l’individuo, ma anche lo costringevano in una dimensione materialistica la quale non avrebbe certo assicurato la felicità. Soprattutto non avrebbe più avuto alcuno spazio, al di là della retorica delle parole, lo slancio autenticamente altruistico e gli uomini sarebbero divenuti sempre più edonisti ed egoisti:
Ciascun uomo prese cura dei propri diritti e del miglioramento della propria condizione senza cercare di provvedere all’altrui; e quando i propri diritti si trovarono in urto con quelli degli altri, fu guerra: guerra non di sangue ma d’oro e d’insidie […] In questa guerra continua gli uomini si educarono all’egoismo, e all’avidità dei beni materiali esclusivamente […] A questo siamo oggi, grazie alla teoria dei diritti (Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Milano 2002, p. 12).
2. Noi tutti siamo partecipi della comunità generale organizzata; e da questa partecipazione noi ritraiamo tutta una gamma di vantaggi, alcuni dei quali facciamo fatica anche ad immaginarceli. Comunità deriva dal latino communitas; e dentro quest’ultimo sostantivo vi è, come ha recentemente sottolineato Roberto Esposito, il termine munus che significa “prestazione, ufficio, dovere”. Così la nostra partecipazione alla communitas implica essenzialmente una relazione con il dovere: insieme noi dobbiamo dare; o donare o, ancor meglio, restituire. A chi? Agli altri, i nostri consorti o concittadini, in una prospettiva di mutualità o reciprocità (munus-mutuus): una prospettiva che la filosofia occidentale pone a fondamento di qualunque società politica. Così Cicerone nel De officiis, uno dei pilastri dell’etica occidentale:
[…] siamo nati non soltanto per noi, come egregiamente scrisse Platone […] quindi gli uomini vengono al mondo in servizio degli uomini stessi, affinché possano recarsi reciproco giovamento: in questo dobbiamo seguire la guida della natura, mettere a disposizione del comune i vantaggi con la reciprocità del dovere, dando e ricevendo, stringere la società degli uomini fra di loro, con le arti, le prestazioni, le risorse a nostra disposizione (Cic. off. 1.22).
Quando reclamiamo dei diritti esigiamo comunque (vi sia o no reciprocità) una o più prestazioni in nostro favore; e il più delle volte ad essere gravato è quell’entità onnipotente rappresentata dalla comunità generale, lo Stato. Siccome le prestazioni via via pretese costano, e tanto, vi è chi – come Giovanni Sartori – ha addirittura paventato che l’età dei diritti minacci gravemente la sopravvivenza delle nostre democrazie: la cultura dei diritti accenderebbe o accrescerebbe i conflitti sociali e, soprattutto, potrebbe portare alla bancarotta dello Stato. Ma non solo queste le nubi che minacciano il consumismo – talvolta i consumi goderecci – dell’età dei diritti. Vi è principalmente lo spettro sempre più consistente dell’indifferenza reciproca; e la solidarietà tanto invocata e conclamata si riduce troppo spesso a uno slogan da pubblica manifestazione o da short pubblicitario (com’è il caso della Coca-Cola). Siamo diventati indifferenti: eguali, indipendenti e cinicamente indifferenti. Siamo un po’ tutti ridotti a quell’avvocato Clamence, magnifico protagonista de La caduta di Camus; e facciamo molta fatica ad aiutare il nostro prossimo che arranca o è abbattuto dalle vicende della vita.
Elisabeth Wolgast porta a questo proposito un esempio molto pertinente, prendendo spunto dalla nota parabola evangelica del buon samaritano e introducendovi due varianti che ci costringono a riflettere. Nel Vangelo di Luca si legge dunque che un viandante era stato depredato e malmenato dai briganti che lo avevano ridotto in fin di vita. In questo sventurato si imbattono tre persone, un sacerdote, un levita e, appunto, un samaritano. Ma solo quest’ultimo, che stava compiendo un viaggio, si fermò: lo medicò, se lo caricò sull’asino, lo portò in una locanda «e si prese cura di lui». Poi diede del denaro all’albergatore perché lo tenesse a pensione fino a quando fosse stato pienamente guarito, assicurando che, se i soldi non fossero bastati, egli avrebbe pagato il di più al ritorno dal viaggio.
Wolgast ci domanda se sarebbe stato lo stesso se il samaritano – un samaritano ricco – avesse ordinato al proprio servo di far quello che, nella narrazione di Luca, egli fece in prima persona; oppure se il samaritano – un samaritano dei nostri giorni – avesse telefonato al pronto soccorso provocando l’intervento di un’ambulanza. Ma è evidente che il prendersi cura del nostro prossimo può avvenire attraverso azioni qualitativamente diverse e la presenza dell’istituzione pubblica oggi ci esenta dall’intervento personale e diretto; al massimo aiutare il nostro prossimo ci costa una telefonata e accade spesso che la nostra indifferenza sia tale che nemmeno questa sentiamo il dovere di fare.
Ecco il punto: la cultura dei diritti e il Welfare State hanno indebolito il sentimento, l’etica, del dovere, dei doveri incombenti su ciascuno di noi perché in societate. L’antica radice *mei- (di communitas e munus) ci ricorda che noi siamo in comunità (e possiamo continuare a essere partecipi) solo se ci scambiamo reciprocamente delle prestazioni. Quando rivendichiamo diritti noi ci chiamiamo fuori da questa comunione di debito che è la comunità o, come scriveva Mazzini, l’associazione: vogliamo essere, in quanto portatori di diritti, immunes, immuni cioè (letteralmente) “privi di obblighi”. Vogliamo prendere senza dare. Ora talvolta questo è giusto; ma può accadere che l’immunità pretesa non lo sia. E allora non avremo più un diritto, anche se il postulante creda (in buona o mala fede) che così sia: nella realtà si evidenzierà un privilegio e si intuisce che, in una comunità rettamente organizzata, non vi sarà spazio per i privilegi e nemmeno per i diritti oltre misura.
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