DIRITTO E TRASFORMAZIONI SOCIALI
di Fabio Ciaramelli (Università di Catania)
Contrariamente alla pretesa “realistica” della tradizione filosofico-speculativa, la struttura originaria della realtà è sprovvista di un senso ultimo o di un significato assoluto, universale e necessario. Non c’è, dunque, nessun accesso diretto, da parte della mente umana, alla realtà originaria, alla presunta oggettività del suo significato universale. La realtà risulta strutturalmente sprovvista di quella correlazione tra esistenza e significazione che potrebbe soddisfare le più profonde aspirazioni della psiche al possesso di una pienezza originaria. L’impossibilità di un accesso diretto al senso pieno e compiuto d’una realtà originaria non è tuttavia effetto d’una limitazione o finitezza “metafisica” della mente umana. L’inaccessibilità immediata dell’“originario” – il cui possesso diretto è variamente rivendicato da quanti presumono d’averne in esclusiva l’appannaggio – deriva infatti da un’impossibilità ontologica radicale, di cui il pensiero dell’assoluto non tien conto, nella sua ansia di accedere all’“ultimo segreto” delle cose. In realtà, nulla può dirsi, rivelarsi ed essere origine se non a posteriori: in altri termini, l’originario è tale solo quando un che di non originario vi rimanda come alla propria sorgente. L’originario, insomma, in se stesso, nella sua immediatezza o intimità non contaminata da nulla di esterno e di derivato, prima ancora che inaccessibile, risulta privo di senso. Senza nulla di “derivato” non c’è neanche l’origine. Quest’ultima, in se stessa, cioè nella sua “semplicità” ontologica, non è fornita di alcuna determinazione intelligibile. Il suo eventuale significato potrà esserle attribuito solo nel momento in cui qualcosa che dall’origine deriva, vi si rapporti come alla propria sorgente. Dunque, all’originario si può solo “risalire”: e il punto di partenza sarà necessariamente la contingenza e la particolarità di un qualcosa di concreto che “deriva” da esso.
Questa necessità di partire dalla natura contingente, molteplice, e storicamente situata del derivato dipende dalla struttura stessa dell’originario, alla quale mancano i tratti di semplicità e pienezza che tutte le speculazioni sull’assoluto si compiacciono di attribuirle. Insomma, l’originario si lascia afferrare e determinare soltanto a partire dalle sue filiazioni concrete, perché in se stessa, nella sua struttura immediata, l’origine non ha senso alcuno. La mediazione derivata di un ordine simbolico e istituito, fatto di significati di volta in volta codificati, è indispensabile alla determinazione dell’originario e del suo senso. L’origine, in se stessa indeterminata e sprovvista di senso, potrà acquisire solo quello che le sarà conferito a posteriori, allorché verrà valorizzata questa o quella direzione, questo o quell’orientamento d’uno sviluppo d’eventi che di fatto da quell’origine risultano derivati.
5. Proprio perché la contingenza dell’agire umano non è solo una caratteristica sociologica, ma ha un insuperabile fondamento ontologico, emerge in primo piano il ruolo decisivo dell’istituzione. Da essa deriva l’elaborazione necessaria di significati, valori e norme senza di cui sarebbe umanamente impossibile dare un qualunque tipo di ordine all’esperienza.
Le implicazioni giuridiche della categoria sociale di istituzioni sono molto vaste . [19] Possiamo definirla “come ambito di azioni reso possibile da norme” . [20] Ovviamente le norme in questione non possono precedere l’istituzione, perché senza istituzione le stesse norme non esisterebbero (non sarebbero né valide né efficaci). “Si può sostenere che la società è sempre il risultato (per quanto non sempre premeditato né previsto) dell’autodeterminazione degli esseri umani, in quanto questi non sono governati da meri istinti o da risposte irriflessive, ma da norme, e queste sono il prodotto dell’azione degli uomini (benché non sempre del loro disegno)” .[21] Quest’ultima formulazione, che, nei risultati delle azioni umane, distingue il prodotto ben determinato di un esplicito proposito dall’esito comunque ottenuto, risale a una formula di Friedrich von Hayek,desunta dal titolo d’un suo saggio: “The Results of Human Action but not of Human Design” . [22] Nella prospettiva del celebre economista e filosofo liberale, fiero avversario del razionalismo costruttivista (e delle sue implicazioni politiche), si tratta di una distinzione decisiva, attraverso la quale viene presa di mira la pretesa della società moderna all’autodeterminazione della propria identità e delle sue istituzioni. Infatti Hayek denuncia nel costruttivismo una concezione secondo la quale “si assume che tutte le istituzioni sociali siano o debbano essere il prodotto di un progetto deliberato”, cosa che bisogna considerare falsa, “perché non tutte le istituzioni esistenti sono il prodotto di un progetto deliberato” e soprattutto perché “non sarebbe possibile fondare interamente l’ordine sociale su un tale progetto” .[23] Non c’è dubbio che i risultati delle attività umane eccedano di gran lunga le intenzioni e le previsioni. Ciò non toglie, tuttavia, che le realtà istituzionali siano creazioni sociali-storiche. Il che è vero in modo eminente nel caso dell’esperienza giuridica. Quando, per esempio, Santi Romano scrive che “il diritto crea delle vere e proprie realtà che senza di esso non esisterebbero, delle realtà, quindi, che il diritto non prende da un mondo diverso dal suo per appropriarsele con o senza modificazioni, ma che sono esclusivamente sue” , [24] in un unico gesto definisce l’istituzione e la riconduce alla creatività dell’agire umano, senza però limitare quest’ultimo all’esecuzione di un predeterminato progetto, fornito d’un modello estrinseco e preliminare con il quale il risultato dovrebbe essere confrontato.
Contrariamente a quel che sembra sostenere Hayek con la sua opposizione di ordine costruito e ordine spontaneo (al quale sarebbe riconducibile l’ordine sociale), è proprio l’assenza d’un modello originario dell’agire umano che ne rende i risultati imprevedibili (e che distingue l’agire umano, e la sua originaria creatività, dall’operare tecnico, la cui creatività è sempre derivata, perché subordinata alla realizzazione del modello preliminare). Se vi fosse un fondamento stabile del reale, e se tale fondamento potesse fungere da modello universale all’agire, quest’ultimo perderebbe la sua specificità, la sua indeterminatezza e la sua imprevedibilità, e verrebbe a coincidere con la produzione tecnica di oggetti. Solo in virtù della sua indeterminatezza, l’agire può avere forza istituente, da cui sgorgano a un tempo le istituzioni sociali e le norme che le regolano.
Nel passo di Kelsen citato all’inizio di queste note si leggeva che “il contenuto della norma fondamentale è specialmente chiaro nel caso in cui un ordinamento giuridico non viene mutato per via legale, ma viene sostituito per mezzo di una rivoluzione”. Si tocca qui il limite estremo dello spazio giuridico istituito, e ci si rende conto che l’istituente – il punto di arrivo di una complessa stratificazione di azioni politiche, sociali, culturali – è in ultima analisi un fatto: per definizione esterno al diritto. Poiché però si tratta d’un fatto sociale-storico, esso non è esterno alla società che s’istituisce attraverso il diritto. Ed è proprio dal fatto sociale istituente, dalla sua intrinseca storicità, che traggono la loro esistenza l’ordine simbolico e il sistema giuridico. La comprensibile ansia di stabilità che muove la ricerca di significati vorrebbe ancorarli a un’origine più solida, che li premunisca dalle diverse forme di degenerazione che in molti modi sempre li minacciano. Ma si tratta di un’impresa umanamente impossibile: e non sarebbe neanche desiderabile, perché ci toglierebbe la responsabilità radicale e ultima sull’esito delle nostre azioni.
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[1] Harold ld J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale (1983), trad. it. E. Vianello, Il Mulino, Bologna 1998.
[2] Ivi, p. 36.
[3] Ivi, p. 555.
[4] Cfr. Th.Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962, 1970), trad. ital., Torino 1979.
[5] H.Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), a cura di R. Treves, Torino 2000, p. 99.
[6] Ivi, p. 100.
[7] N. Luhmann, La differenziazione del diritto Contributi alla sociologia e alla teoria del diritto, a cura di R. De Giorni, Bologna 1995, p. 343, corsivo aggiunto.
[8] Ivi, p. 116.
[9] Ivi, p. 138.
[10] Ivi, p. 65.
[11] Rimando al riguardo alle riflessioni di Bernhard Waldenfels sull’ordine, di cui può leggersi in italiano il volume Estraneazione della modernità, a cura di F. Menga, Troina 2005, con una mia Introduzione.
[12] La differenziazione del diritto, cit., p. 201.
[13] Ivi, p. 371.
[14] Ivi, p. 251.
[15] P. Barcellona, Il suicidio dell’Europa, Bari 2004, pp. 78-79.
[16] N. Luhmann, La differenziazione del diritto, cit., p. 201.
[17] Ivi, p. 319.
[18] Ivi, p. 202.
[19] Si veda da ultimo l’informato e perspicace saggio di Andrea Bixio, “La società come istituzione”, in Rivista di diritto civile 2006, n . 2, pp. 199- 226.
[20] M. La Torre, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari-Roma 1999 p. 204.
[21] Ivi, p. 198.
[22] F. v. Hayek, Studies in Philosophy, Politics and Economics, London 1967, pp. 96 ss (citato da M. La Torre, op. cit., p. 336).
[23] F. v. Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 10.
[24] S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico (1947), Milano 1983, p. 209.