DIRITTO E TRASFORMAZIONI SOCIALI
di Fabio Ciaramelli (Università di Catania)
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Abstract
How can we understand the connection between social change and law? Abandoning the monistic logic based on a presumed unitary conceptual structure of law and, therefore, refusing any evolutionary concept of law itself, the aim of my paper is toanalyze the question of the limit of norms within a legal order. Such a limit lies upon the social-historical space of politics and takes exactly from this same space its strength and legitimation. In this perspective, we are then called to face an extra-legal but not an extra-social limit, since such a limit implies the unavoidable link with the social presupposition of every normative order. Only this kind of presupposition gives in fact a proper legal qualification to the human acting.
1. Come ha mostrato ad abundantiam Harold Berman nel suo Law and Revolution , [1] che può considerarsi un classico della storiografia giuridica degli ultimi decenni, proprio nella comprensione storiografica della nascita del diritto moderno il rapporto tra evoluzione e rivoluzione svolge un ruolo decisivo. Decisivo, però, non vuol dire affatto scontato. Scrive infatti Berman: “Una trasformazione radicale di un sistema giuridico è un paradosso, dato che uno degli scopi fondamentali del diritto è quello di portare stabilità e continuità. Inoltre, il diritto – in tutte le società – deriva la sua autorità da qualcosa che gli è esterno e se un sistema giuridico subisce un rapido mutamento, allora inevitabilmente sorgono questioni concernenti la legittimità delle fonti della sua autorità. Nel diritto, mutamenti improvvisi su larga scala – cambiamenti rivoluzionari – sono certamente ‘innaturali’ e, quando ciò avviene, bisogna fare qualcosa per impedire che succeda di nuovo.” .[2] Insomma le trasformazioni rivoluzionarie costituiscono un’interruzione del corso unitario del processo sociale, rendendone impossibile la comprensione in termini di evoluzione continua. Ed allora: come trattarne le ricadute giuridiche? Il paradosso segnalato da Berman consiste nel fatto che quando ciò si produce, cioè quando s’intacca un principio d’ordine intrinsecamente stabilizzante e omologante qual è il diritto, emerge subito il bisogno di difendersi dal pericolo d’una ulteriore discontinuità. Le “teorie” dell’evoluzione sociale rispondono a questa strategia difensiva. In altri termini, la preoccupazione scientifica di “offrire una spiegazione alle rivoluzioni che avevano periodicamente interrotto il corso dell’evoluzione sociale” [3] induce a leggere l’alterazione storica come se si trattasse d’un processo naturale unitario, sottratto all’agire umano e per questa ragione suscettibile d’una spiegazione “oggettiva”, capace di coglierne a priori la necessità. Perciò la teoria dell’adattamento evolutivo può spiegare il funzionamento del sistema in un contesto dato, ma non riesce a render conto dei passaggi di fase storica, caratterizzati dal crollo degli assunti fino ad allora ritenuti fondamentali. Quando i postulati di base cambiano, e si finisce per considerare naturale ciò che in precedenza si era ritenuto anomalo, sta nascendo quel che si può a buon diritto chiamare un “nuovo paradigma”, nel senso che a questa espressione attribuisce Thomas Kuhn . [4] Allora siamo di fronte a una trasformazione sociale “rivoluzionaria” perché essa interrompe la continuità evolutiva del corso storico.
2. Riflettere alle implicazioni radicali della trasformazione rivoluzionaria del sistema giuridico significa allora abbandonare la logica monistica di una presunta struttura concettuale unitaria e perciò stesso evolutiva del diritto, e affrontare la questione del limite dell’ordine giuridico delle norme, che rimanda allo spazio storico-sociale della politica, traendo in ultima analisi proprio da esso la sua forza e la sua legittimazione. A questo limite extra-giuridico ma non extra-sociale invita a pensare lo stesso Kelsen, quando nei Lineamenti del ‘34 scrive che “il contenuto della norma fondamentale è specialmente chiaro nel caso in cui un ordinamento giuridico non viene mutato per via legale, ma viene sostituito per mezzo di una rivoluzione; analogamente l’essenza del diritto e la comunità da questo costituita si presentano nel modo più chiaro quando è posta in questione la loro esistenza” . [5] In effetti, il contenuto della norma fondamentale riposa “su quegli elementi di fatto che hanno prodotto l’ordinamento cui corrisponde” .[6] Il riferimento alla norma fondamentale, insomma, non vale in nessun caso come riferimento a una norma ulteriore o superiore, ma come l’inevitabile rimando al presupposto sociale dell’ordine normativo, sul quale soltanto può fondarsi la qualificazione propriamente giuridica dei fatti umani.
Il presupposto extra-giuridico dell’ordine propriamente giuridico delle norme è da intendersi come l’operazione collettiva attraverso cui la società moderna regola riflessivamente la dimensione normativa dell’istituzione dei significati sociali fondamentali che sorreggono la vita sociale. Questa operazione è originaria e autofondata, non presuppone cioè un livello universale e immodificabile di legalità o significatività al quale ispirarsi, dal quale dipendere, e rispetto al quale, in conseguenza di ciò, sarebbe possibile giudicarla, valutarla e quindi eventualmente modificarla.
Parallelamente però è da escludere, proprio in nome della storicità dell’istituzione, che l’istituito sia destinato a mantenere in aeternum la medesima configurazione normativa. Sennonché, l’ordine istituito delle norme giuridiche, esattamente in virtù della sua giuridicità, può essere messo in discussione, alterato e modificato solo da un nuovo intervento dell’attività istituente, fornito della forza sociale adeguata a revocarlo. Insomma, i significati sociali sanzionabili, ossia le norme, proprio in quanto sono istituzioni sociali, non hanno nessuna eternità o immodificabilità. La loro sempre possibile alterazione resta all’orizzonte dell’attività istituente da cui traggono origine, valore e legittimità. Questa è una conseguenza necessaria della positivizzazione del diritto propria nella modernità. Ciò è chiaramente riconosciuto da Luhmann, per il quale “il fondamento di validità del diritto positivo sta ormai soltanto nella sua stessa trasformabilità”; in altri termini, “il diritto positivo viene mantenuto attraverso la ri-negabilità, sull’attualizzazione della quale si decide nel confronto tra sistema e ambiente. Un ordine auto-sostitutivo come il diritto è negabile e trasformabile nella misura in cui esso stesso pre-struttura le condizioni di questa possibilità” .
[7] Detto altrimenti, una delle caratteristiche essenziali della modernità è la positività del diritto, e quest’ultima va intesa come la trasformabilità delle norme istituite, che si realizza attraverso la produzione di nuove norme che possono sostituire o alterare le precedenti. Scrive ancora Luhmann: “Della positività fa parte il fatto che il diritto ‘di volta in volta’ vigente viene vissuto come selezione rispetto ad altre possibilità e che vale in virtù di tale selezione” .[8] Poiché d’altra parte “il diritto di volta in volta valido deriva il suo diritto di valere dalla possibilità di essere trasformato” , [9] la sua validità è una contingenza che senza diritto non esisterebbe . [10]
L’ordine sociale – che il diritto stabilizza e legittima – è selettivo ed esclusivo , [11] giacché presuppone e riconosce la contingenza dell’azione umana ch’è suo compito regolamentare, ma da cui esso stesso deriva. Tale contingenza va senz’altro intesa, come fa Luhmann, in riferimento all’inevitabilità di azioni che possono sempre deludere le aspettative ; [12] ma essa va anche intesa in un senso “ontologico” molto più radicale, come lo stesso funzionalismo di Luhmann non manca di riconoscere, quando esclude che il diritto moderno possa essere garantito da un simbolismo della natura . [13] È proprio l’orizzonte ontologico della contingenza in quanto “premessa” del diritto a rendere necessaria la mediazione creativa dell’istituzione sociale. In altri termini, deve inevitabilmente ricondursi all’istituzione sociale-storica l’insorgenza di codici di senso, capaci di fornire i significati, i valori e le motivazioni da cui poi emergeranno le norme. Come scrive Luhmann, “ogni sistema giuridico è e resta dipendente da trasposizioni di rappresentazioni sociali di valore in fattispecie giuridicamente rilevanti” . [14] In tal modo il sistema normativo si presenta di fatto come la punta di un iceberg, alla cui base pulsa la vita magmatica dei significati sociali. Tuttavia, la formula luhmanniana che propone di pensare il diritto come ordine autosostitutivo, mentre da un lato riconosce come essenziale la trasformabilità delle norme in cui culmina l’elaborazione collettiva di significati, valori e motivazioni che danno corpo e struttura alla vita sociale, d’altro lato tende a interpretare questo processo in una chiave esclusivamente evoluzionistica.
In altri termini, la nozione di diritto come ordine autosostituivo non rende sufficientemente conto delle cesure storiche, che viceversa accadono quando l’insorgenza di nuovi significati sociali comporta la trasformazione radicale dello stesso ordine giuridico: quando cioè la coerenza interna e la logica stazionaria o gradualmente evolutiva del sistema giuridico non riesce ad assorbire e neutralizzare i contraccolpi degli eventi storici. A quel punto, l’ordo iuris inevitabilmente si altera e si trasforma in maniera imprevista e radicale.