DIRITTO E LIBERTÀ*
di Ottavio de Bertolis (Pontificia Università Gregoriana – Roma)
In altri termini, l’uomo deve rimanere soggetto di diritto, causa di effetti e non effetto di cause situate fuori di lui e a disposizione di altri. E tuttavia diviene soggetto solo se rimane assoggettato a una realtà di cui non può disporre, la propria antropologia costitutiva in uomo e donna, padre e madre, figlio e figlia, con la sua storia e la sua fine: “soggetto” in questa prospettiva significa sia il “soggetto di diritto” sia “assoggettato” ad una legge che lo riconosce tale, proprio come suggerisce l’etimologia della parola tedesca Gesetz, “legge”.
La legge positiva si pone dunque come garante della persona e del suo stato: in questo senso, la legge, proprio perché anche coazione e divieto, è istanza forte di tutela dell’integrità dell’uomo di fronte alle spinte (ideologiche, tecnologiche, economiche) disgregatrici della sua integrità personale. Ancorata alla sua antropologia costitutiva, la precipita in disposizioni vincolanti, tanto più necessarie quanto più esistono poteri di fatto forti ed insidiosi. Come un bambino impara a parlare, a divenire soggetto di linguaggio, inserendosi nel linguaggio comune e nel senso proprio e comune a tutti dei termini e delle leggi della grammatica, così “l’essere umano accede alla qualità di soggetto di diritto attraverso la legge” : [45] nel ragionamento giuridico perveniamo così al concetto di autonomia o soggettività giuridica attraverso l’eteronomia. In altri termini, il diritto crea soggetti proprio quando comanda alla politica prima e alla scienza poi: l’eteronomia, non dell’uomo (con buona pace di Kant) ma di quei particolari linguaggi che sono le scienze e la politica, si rivela condicio per quam del darsi della soggettività dell’uomo rispetto ad esse.
Conclusione
La riflessione del Pontefice ci ha spinto ad un’analisi del fondamento del diritto. Questo non può essere pensato conchiuso in se stesso, come del resto nessuna scienza lo può essere, pena l’autoreferenzialità, e dunque l’impossibilità della sua verificazione o falsificazione. Non esiste un sapere giuridico se non inserito tra altri saperi, i quali stanno tra di loro come le caselle esagonali di un alveare: si appoggiano le une alle altre, e in qualche modo si rinviano reciprocamente. E così non esistono nemmeno saperi conchiusi in sé, come una spirale di ragionamenti che si avvolga su se stessa, ma solo saperi aperti alla verificazione e falsificazione, cioè ad una realtà esterna significativa.
Sulla scia della riflessione del Pontefice, siamo così sfidati a reinserire “il concetto di verità nel dibattito filosofico e in quello politico”, andando oltre l’irragionevolezza di una pretesa “pura” ragione senza intelligenza: infatti ragione è strutturare il discorso all’interno delle singole caselle, intelligenza è cogliere queste interdipendenze senza chiudersi all’interno dei singoli saperi, e sapienza sarà il cogliere tutto questo in un orizzonte di senso mai definitivamente incasellabile, che è appunto l’uomo, la domanda “per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente”. La ragione costituisce così la struttura epistemologica propria della legge come proposizione deduttiva e sillogistica ; [46] l’intelligenza è cogliere la necessità logica del reciproco rinvio delle interdipendenze tra i saperi che “dicono” le cose, e tra i saperi e le cose stesse, poiché essi non possono verificarsi o falsificarsi rimanendo nel loro orizzonte proprio ; sapienza è continuamente reinserire questo sapere nell’orizzonte antropologico del diritto, che è la persona umana. In questa visione le leggi costituiscono la norma positiva; il diritto, inteso come “cosa” da normare o res, è la norma presupposta; la persona è il termine a partire dal quale e nel quale il diritto, e dunque le leggi, trovano significato, poiché certo le cose significano qualcosa solo in relazione ad un soggetto significativo.
In fondo, il paradosso della condizione umana, e dell’umana conoscenza che ne è riflesso, è proprio questo: io non posso conoscere che per mezzo di modelli di conoscenza, o rappresentazioni delle cose, ma non posso confondere i miei modelli o rappresentazioni con ciò che conosco, le mie idee con le cose che vedo e che cerco di spiegare, proprio perché così non penserei più alle cose, ma alle mie idee su di esse. La scienza, ogni scienza, è come una fotografia, che però, sebbene nasca per fotografare le cose, disgraziatamente, può finire col fotografare se stessa; ancora, è proprio come il linguaggio, che nasce per comunicare, ma può risolversi nel parlarsi addosso.
_____________________________________________
* Per gentile concessione della Casa Editrice E.S.I. di Napoli pubblichiamo il primo capitolo della recente monografia O. DE BERTOLIS, Elementi di antropologia giuridica, E.S.I., Napoli, 2010.
1 Il testo è anche riportato in Civ. Catt. 2008 I 278-286. Come è noto, il discorso è stato solamente inviato, annullando una sua visita già prevista. Questo capitolo riprende e sviluppa le tematiche che ho trattato nel mio articolo «Il diritto come presupposto della libertà», in Civ. Catt. 2008 I 571-584.
2 I testi citati tra virgolette appartengono al discorso del Papa.
3 E’ interessante osservare, ad esempio, come M. BARBERIS, Breve storia della filosofia del diritto, Bologna 2004, dedichi 5 (cinque) pagine su quasi duecento del suo manuale al giusnaturalismo classico, trattando in esse Platone, Aristotele, gli stoici romani, Agostino e San Tommaso. Parrebbe che prima del Cinquecento non ci sia mai stato un pensiero filosofico, tanto meno giuridico, o che comunque a noi niente possa interessare di quanto possa essere stato eventualmente pensato prima.
4 “Il diritto di natura, che gli scrittori chiamano comunemente ius naturale, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della propria natura, cioè della sua vita, e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine”, T. HOBBES, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1997, 105, cit. in F. TODESCAN, Compendio di storia della filosofia del diritto, Padova 2009, 176.
5 Ma proprio qui si annida un nodo teoretico determinante: perché pensarci rivali? Hobbes conosce dunque una precisa antropologia, ma dobbiamo ben domandarci se e fino a che punto vada bene, o non sia una coperta troppo corta, per riprendere l’espressione già usata. Essa copre tutto l’essere dell’uomo, o ne solo una misura, che però non è, almeno sempre, quella giusta? E’ interessante osservare d’altra parte che il mondo antico conosce una naturale socialità dell’uomo – il ben noto physei politikón di Aristotele, un associarsi positivo per realizzare se stessi nel vivere insieme, che è un eu zéin, un “ben vivere”, non solo in senso utilitaristico, mentre nel mondo moderno l’aggregazione sociale nasce da un sentimento negativo, la paura, della morte violenta, come per Hobbes, o dell’insicurezza delle proprietà, come per Locke. Con questo non intendo negare che la tutela della vita o delle proprietà siano dei beni reali che l’ordinamento persegue, ma solamente che non sono gli unici beni, e che comunque tale c oncezione appare strutturata intorno al principio della paura. Ma l’uomo non è solo paura e sarebbe necessario riflettere se non si possa dare un principio di maggior respiro.
6 “La legge non è stata introdotta nel mondo se non per limitare la libertà naturale dei singoli uomini”, T. HOBBES, Leviatano, cit., 222, cit. in F. TODESCAN, Compendio, cit., 180.
7 T. HOBBES, Leviatano, 105, in F. TODESCAN, Compendio, cit., 177.
8 F. TODESCAN, Compendio, cit., 177.
9 T. HOBBES, Leviatano, 116, in F. TODESCAN, Compendio, cit., 179.
10 E’ invece da rilevare che nel pensiero antico e medievale non lo sono affatto. Così per San Tommaso ius (come il díkaion aristotelico) è qualche cosa di oggettivo, la giusta divisone o ripartizione dei beni di questo mondo, “ipsa res iusta”, Summa Theol. II II, q. 57, a. 1, ad 1, mentre lex è la regola di questa divisione, la ben nota “ordinatio rationis ad bonum commune ab eo qui curam habet communitatis promulgata”, Summa Theol. I II, q. 90, a. 4. Sul punto, mi permetto di rinviare al mio Il diritto in San Tommaso d’Aquino. Un’indagine filosofica, Torino 2000. Ma vedi infra.
Se da un lato è vero che, nella storia del diritto occidentale, “il codice rappresenta la fine di un itinerario: dal diritto alla legge”, V. VARANO – V. BARSOTTI, La tradizione giuridica occidentale, Torino 20063, 124, è anche vero che, a partire dall’introduzione delle Costituzioni, si è verificato un fatto nuovo: ci riferiamo alla “capacità della Costituzione, posta come lex, di diventare ius; fuori dalle formule, nella capacità di uscire dall’area del potere e delle fredde parole di un testo scritto per farsi attrarre nella sfera vitale delle convinzioni e delle idee che abbiamo care”, G. ZAGREBELSKI, La legge e la sua giustizia, cit., 126. Anzi, l’Autore afferma che “la nostra epoca vede la rinascita dell’antica e mai spenta tensione tra ius e lex e che lo ius si manifesta, per l’appunto, attraverso le norme costituzionali indeterminate […]. Questo diritto materiale trova oggi espressione nella Costituzione, la quale, a sua volta, è un insieme di principi che operano rinvii e ricezioni a un diritto ma teriale pre-positivo”, 380-381. Tali affermazioni sono particolarmente significative in quanto l’Autore è ben persuaso, e giustamente, che “i principi stabiliti dalla Costituzione non sono certo diritto naturale. Essi, al contrario, rappresentano il massimo atto d’orgoglio del diritto positivo, in quanto costituiscono il tentativo di «positivizzare» quel che, per secoli, si era considerato appannaggio del diritto naturale, appunto: la determinazione della giustizia e dei diritti umani. La Costituzione infatti, per quanto trascenda il diritto legislativo, non si colloca in una dimensione indipendente dalla volontà creatrice degli uomini e non precede quindi l’esperienza giuridica positiva”, G. ZAGREBELSKI, Il diritto mite, Torino 1992, 155.
11 Così nel mondo medievale, e, oggi, in quello di Common Law, “il diritto è una realtà che il potere non crea, non pretende di creare, non sarebbe in grado di creare; che invece può soltanto dire, dichiarare”, P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., 135. L’Autore parla, a p. 72, di “reicentrismo”, come di un “tentativo di ritrovamento delle dimensioni oggettive di ogni forma giuridica”: l’esperienza giuridica medievale infatti nasce delle cose, dalla loro fattualità, dalla loro cogenza, mentre quella moderna, post-napoleonica, è interamente centrata sulla volontà dell’individuo, sul potere dello Stato, in un ordine qualificato come “antropocentrico”.
12 L. DUMONT, Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Milano 1993, 189, cit. in A. SUPIOT, cit., 55.
13 A. SUPIOT, cit., 175. Infatti “il potere legittimo […] è il potere che rende visibile una ragione nella quale crediamo”, ivi, 176. Corsivi nostri, per sottolineare che il Diritto istituisce la ragione, e si fonda su delle credenze condivise, e quindi sullo statuto antropologico dell’uomo come animale fiduciario. La fiducia che noi diamo alle nostre credenze (siano esse i diritti dell’uomo, un testo sacro, la scienza e le sue asserzioni, oppure le risorse auree come garanzia del valore del denaro) non dimostra ciò a cui crediamo, ma rende possibile il ragionamento a partire da esse: detta fede o fiducia non è quindi irrazionale, ma condizione di pensabilità del ragionamento stesso.
14 K. MARX, Sulla questione ebraica, in K. MARX – F. ENGELS, Opere, vol. III, Roma 1976, 178, cit. in F. GENTILE, Intelligenza politica, cit., 91. Si può ben dire che negli scrittori giuspolitici del contratto sociale si finisca con “l’immaginare che la società tutta intera funzioni di fatto come essi hanno pensato che debba funzionare la sfera politica da loro creata”, L. DUMONT, Homo hierarchicus, cit., 84. Ecco un esempio di ragione misura delle cose, e non viceversa, come dovrebbe essere.