DIRITTO E LIBERTÀ*
di Ottavio de Bertolis (Pontificia Università Gregoriana – Roma)
Bisogna dunque chiarire che cosa sia il “diritto ad avere diritti”: con questa stupenda espressione il giudice Brennan nel caso Furnam v. Georgia [1972] non mandò un uomo alla forca perché, obiettava, mentre “un individuo in carcere non perde il diritto ad avere diritti […] una persona giustiziata ha [invece] veramente perso il diritto di avere diritti […] è la fine delle nostre relazioni con lui” . [34] ” . Ecco un esempio di come una riflessione filosofica e giuridica insieme porti alla ricostruzione di un diritto amichevole, non in contrasto con la libertà e la dignità dell’uomo, proprio come il Papa ci sfida a fare: le idee possono cambiare la realtà, come capì bene quel condannato sfuggito al boia. Potremmo dire che il diritto ad avere diritti in fondo è l’essere persona, e non è un diritto come gli altri: esso è la vera Grundnorm, o norma fondamentale, non posta ma presupposta, proprio secondo quanto Kelsen insegnava. Essa è presupposta non rimanendo all’interno del circuito positivo delle leggi, ossia alla “macchina” fabbricatrice delle leggi dello Stato (altrimenti il carcerato sarebbe finito alla forca alla quale fu legalmente condannato), ma in un orizzonte di senso che è appunto l’uomo: e non potrebbe essere altrimenti, pena il ricadere nella necessità di giustificarlo, secondo la logica della probatio diabolica dei logici medievali . [35] Ed è significativo che il giudice Brennan poté fare quel che fece perché il suo sistema giuridico era di Common Law: un sistema in cui la legge non è l’unica fonte del diritto.
Potremmo anche dire che accade per il diritto quel che accade per il linguaggio: tutti noi impariamo ad esprimerci entrando in quell’orizzonte di senso costituito dalle regole della grammatica che tutti usiamo, e non perché ci siamo costretti, ma perché le sentiamo vincolanti . [36] “E’ un uomo alienato chi, ingabbiato nella propria visione del mondo, risulta estraneo al senso che gli altri uomini conferiscono al mondo stesso, ed è incapace di comunicare questa visione. Per accedere all’universo del senso, l’uomo deve rinunciare alla pretesa di imporre il proprio senso all’universo” :[37] perché la nostra parola sia compresa e comunichi, deve possedere il senso che tutti le conferiscono. Altrimenti sarebbe compresa solo da chi la pronuncia: la parola apre alla comunicazione oppure al delirio, la folle comunicazione solo con sé stessi . [38] Posso usare il linguaggio anche per criticare il senso che tutti conferiamo alle parole, e per sostituirvi un altro senso, ma lo posso fare solo, sempre ed inevitabilmente, presupponendo un senso condiviso, delle regole comunemente sentite, dei significati comuni. Detto in altri termini: il senso del gioco giuridico è la condizione o presupposto delle regole, e non una regola del gioco; proprio come il senso del linguaggio viene prima delle singole parole, che io posso usare anche per demolire ogni senso solo presupponendo quel senso dei termini che uso e quelle leggi della grammatica, e mantenendo fermi entrambi. Questo senso è appunto l’uomo. Il diritto dunque è un’istanza garante dello stato della persona: non costitutiva o fondativa, ma solamente ricettiva e tutrice. Altrimenti, di nuovo, saremmo di fronte non a soggetti di diritto, ma ad oggetti: e nella storia del diritto uomini-oggetto sono solo gli schiavi. Fin qui, il primo passo: il secondo sarà l’istituzione del soggetto.
L’istituzione del soggetto giuridico
Il senso del gioco giuridico, secondo quanto abbiamo fin qui cercato di dimostrare, è l’uomo: esso non è negoziabile, ma viene prima di ogni negoziazione. Non è materia possibile di accordo o votazione, pena il ricadere nella sua oggettivazione, cioè la negazione di quanto abbiamo dovuto postulare. In questo senso, nessuno può istituire il soggetto in quanto tale: e perciò abbiamo parlato di istituzione del soggetto giuridico, unendo il sostantivo e l’aggettivo nell’endiadi di un unico significato. In tal modo, per istituzione del soggetto giuridico intendiamo precisamente il necessario riconoscimento della persona nella sfera normativa, e la necessaria traduzione di questo in termini giuridici. Ancora, niente di particolarmente nuovo, ma profondamente inserito nella migliore tradizione, anche positivistica: infatti è quanto cercarono di fare le tante Dichiarazioni dei diritti, e, più recentemente, numerose Costituzioni del secondo dopoguerra, tra le quali segnatamente quella tedesca e italiana, dato lo scotto del periodo precedente, nelle loro prime parti. I diritti civili, politici, sociali, economici ne sono esempi.
Nel nostro tempo si ripresenta, di fronte alle possibilità di istituire ancora uomini-oggetto (cioè, come ho già detto, schiavi e vittime di una nuova shoah) delle biotecnologie e di fronte ad una nuova ingegneria, non solo genetica, ma anche giuridica, la necessità di istituire con forza il soggetto giuridico anche in questi nuovi settori dell’umana potenzialità. E’ necessaria una più decisa e vigilante volontà giuridica. E questa volontà, proprio perché giuridica nel senso che noi diamo a questo aggettivo, postula un’antropologia, il cui punto di partenza è un’affermazione molto significativa: “Tutti dobbiamo imparare a inscrivere nell’universo del senso il triplice limite che circoscrive la nostra esistenza biologica: la nascita, il sesso e la morte. L’apprendimento di questi tre limiti è al tempo stesso l’apprendimento della ragione” . [39] Non hanno ragione, anche nel significato debole del termine, coloro che ne prescindono. Non esiste l’autopoiesi: e il bambino diviene adulto quando impara a rapportarsi al mondo esistente, non alle proprie fantasie, anche giuridiche. Questo è il motivo per cui il bambino [40] può certo – e guai se non lo facesse, proprio perché è un bambino – giocare sulla spiaggia del mare, costruire un castello, popolarlo di soldati, immaginare di guidarli in guerre contro draghi o mostri: la sua fantasia imprime un significato alle cose, costruisce un mondo incantato, appunto di fantasia. Ma la fantasia non può, per un adulto sostituire la realtà: e per questo chi si dedica all’alcool o alla pornografia virtuale o alla droga o semplicemente allo sballo del sabato sera, è un infelice con forti problemi psicologici, e va aiutato a rientrare e a vivere la sua vita reale. Queste esperienze infatti dicono sempre una fuga, un profondissimo disagio, cioè la perdita del senso del vivere, il bisogno continuamente frustrato di essere accolti e amati come in realtà si è: la tragedia che si consuma in molte vite è che queste fughe non solo sono illusioni, ma spostano continuamente i bisogni, non permettendone mai l’appagamento, come un continuo inseguire l’arcobaleno. Il minimo comune denominatore di tutto questo è che la fantasia del soggetto non è misurata alla realtà: quest’ultima deve invece essere introiettata, pacificando il soggetto con se stesso e col mondo a lui esterno.
Ma è così anche per la fantasia del ricercatore, che non permette alla realtà di verificare il senso dei propri sogni, resi tecnicamente possibili, ovvero per quella del legislatore, che ricrea un mondo con un significato che capisce solo lui, coerente alle sue idee, ma non alle cose come esse sono. Bisognerebbe avere il coraggio, anche andando controcorrente, di ribadire che alle ideologie, il corrispettivo per adulti delle fantasie e dei capricci puerili, va opposto, laicamente, il realismo. Il mondo (e con questo intendo dire, per esempio, un malato terminale, un feto, un bambino con la
sua realtà fisica e psicologica di discendenza, fino a comprendere me stesso) non è una play station, e confondere le cose può creare effetti decisamente devastanti, un nuovo incanto del mondo che è però solo un’illusione. Lo spirito umano infatti è illimitato, e può creare infiniti mondi: ma deve rimanere nel mondo, se vuole rimanere spirito incarnato, cioè uomo vero, in grado di distinguere “ciò che pertiene all’immaginario e ciò che invece pertiene alla realtà” , [41] imparando a far uso delle proprie facoltà mentali: altrimenti, abbiamo solo la disumanizzazione o l’idiozia, nel senso etimologico già accennato.
Conferire un senso alla nascita significa conferire senso alla nostra storia, significa coglierci, come siamo, all’interno di una catena di trasmissione culturale, e capire quindi che dar significato alla nostra vita significa recuperarlo: significa comprendere, non solo logicamente ma esistenzialmente, l’idea di causalità, “ciò da cui” provengo, le mie radici, poiché non ha presente né futuro chi non ha passato. Riconoscere la nostra sessualità significa imparare quel primo principio logico per cui il singolo, cioè la parte, non è il tutto, significa “comprendere che abbiamo bisogno dell’altro [ed è altro in senso forte colui che è sessualmente diverso da me] e, attraverso ciò comprendere l’idea di differenza. Introiettare [infine] l’idea della morte significa riconoscere che il mondo continuerà ad esistere dopo di noi, che la nostra vita è sottoposta ad un’istanza che va al di là di noi, e attraverso ciò comprendere l’idea di norma” . [42] Anche se pochi credono alla legge naturale, tutti però dovranno ammettere che questa significa almeno che tutti moriamo, quando e come non sappiamo: ma anche che nasciamo, non volendolo e senza scegliere i nostri genitori, ai quali piuttosto dobbiamo imparare a rapportarci; inoltre, questa significa che non siamo padroni della nostra sessualità, ma è lei padrona di noi, fin nelle fibre più profonde del nostro essere, e imparare a viverla né da castrati né da soggiogati è una fatica che dura una vita, per tutti quanti.
Ridurre la nascita ai giochi tecnici con il genoma (che si rivelano così autentiche sperimentazioni con gli uomini, né più né meno del dottor Mengele), il legame genitoriale alla pretesa di un figlio, che sarà vezzeggiato proprio come un cucciolo al quale non si farà mancare nulla salvo un legame vero e non mimetico (le sperimentazioni sullo stato civile delle persone) , [43] la sessualità ed il suo significato a pura fruizione edonistica, a un funzionamento di organi ed alla massimizzazione dei risultati con la minimizzazione dei rischi, la morte ad uno “staccare la spina”, sono altrettanti esempi del sonno della ragione, che genera sempre mostri. Qui “mostro” è l’uomo cosificato, il soggetto di diritto divenuto oggetto, come inevitabilmente accade se si concepisce da un lato il diritto come ancella dell’ideologia (e della politica così intesa), e al tempo stesso come ancella della tecnologia, laddove al contrario sono la scienza e la politica ancelle del diritto, poiché il compito del diritto è, ragionevolmente e perciò laicamente, quello di costruire un mondo più vivibile, non quello di sostituire a persone libere individui soggiogati alle decisioni altrui. Solo così si può impedire che sotto l’egida delle leggi l’umanità venga ad essere divisa tra esseri umani ed esseri umani- prodotto: solo così si può impedire a nuovi potentati di togliere agli uomini il diritto di avere diritti. Prendere posizione contro tutto questo significa tutelare l’essenza stessa dello Stato di diritto, come laicamente concepito dalla nostra civiltà giuridica. Altrimenti, lo Stato di diritto o Rechtsstaat, coinciderebbe con il diritto dello Stato, o Staatsrecht. Un gioco di parole piuttosto pericoloso, perché era quanto desiderava Hitler quando scandiva: “Non è lo Stato che ci comanda, ma siamo noi che comandiamo lo Stato” . [44]