DIRITTO E LIBERTÀ*
di Ottavio de Bertolis (Pontificia Università Gregoriana – Roma)
iscritta nella “natura”, che promana dalla volontà dell’uomo. Così il coniugio è qualcosa che è già presente nella “natura” dell’uomo e della donna come esseri sessuati: oggi diremmo nella nostra antropologia costitutiva. La legge umana, consegnata alla volontà dell’uomo, vi darà forma, lo regolerà nel modo migliore, attuerà nel modo si spera più giusto e perspicuo quelle esigenze. Lo stesso dicasi per la figliolanza, il rapporto parentale nelle sue dinamiche psicologiche, la morte e la nascita nella loro radicale indisponibilità e la loro invece possibile cura o accompagnamento.
In tal modo, abbandonando come troppo ristretta e perfino inadeguata de iure condito ogni concezione puramente monistica, due sono i polmoni con i quali l’ordinamento giuridico respira: il diritto, come antecedente logico e indisponibile alla volontà umana, come semplice realtà da tradurre in termini normativi, e la legge, prodotto logicamente successivo ma indispensabile della volontà umana, negli stessi termini del positivismo ma in un quadro costituzionale giuridicamente significativo. Per questo i romani dicevano che il diritto non è tratto dalle regole (ossia: le leggi), ma, al contrario, che è la regola (la legge) che deriva dal diritto : [20] il che non ci permette di sottovalutare o dimenticare le leggi umane, come se fossero un prodotto di seconda scelta, ma di ancorarle ad un significato sottratto al potere del legislatore. Ed è proprio questo il primo passo da compiere per iniziare a pensare un diritto non antagonista della libertà umana. In questo modo, il termine “ordinamento giuridico” non significa solo l’insieme degli ordini, cioè dei comandi, dati dal legislatore, cioè la totalità delle leggi, ma l’insieme dei fatti o delle cose che assumo come implicitamente già ordinati (l’antico ius), cioè dotati di significato, e sui quali si eserciterà poi l’attività del legislatore (lex) ovvero del giudice. Infatti è verissimo che “lo Stato laico e secolarizzato vive di presupposti che non può garantire” : [21] il diritto naviga, per così dire, sebbene espresso in modo ancora informe o solo materialmente, nei valori diffusi di una cultura di una determinata società, ed è determinato dal legislatore e quindi dai giudici in detto contesto, a partire dalla norma positiva.
Ci avviamo dunque a una comprensione della fondamentale dualità dell’ordinamento giuridico, che è ius e lex insieme, giustizia materiale e formale insieme: e questo proprio per il ruolo sovraordinato delle Costituzioni, che precipitano in sé questa “materialità” rendendo l’ordinamento continuamente aperto a questa ulteriore modificazione e plasmazione in modo conforme alle esigenze della giustizia materiale. Siamo ben consapevoli, d’altra parte, che le cose non parlano da sole [22] e sono significanti per l’uomo in relazione al quale si danno: il matrimonio, la proprietà, il contratto, non esistono come idee per così dire eterne oppure innate o trascendenti, essendo il diritto tutto e solo creazione umana e storica. Certamente le cose non stanno mute al di fuori di noi e dinanzi a noi, ma esse parlano proprio perché diventano significative per noi, in relazione all’uomo: l’uomo trova che cosa significhino per sé, e dunque le fa parlare. Il “farle parlare” significa esattamente interpretarle come significative, in mezzo a tante possibili interpretazioni che non significherebbero niente o poco, o meno di quel che potrebbero. Così un cavatappi [23] è significativo solo come cavatappi, e si può usare solo per togliere i tappi: io trovo in quel manufatto un significato, il più “vero”, perché per altri scopi esso sarebbe certamente meno adatto. Così non esiste una “natura” del contratto, ma esistono solo i tanti tipi (legali, e non naturali) possibili di contratto, frutto dell’elaborazione della volontà ragionevole umana: ma il significato primo di esso, l’incontro di volontà, e dunque la libertà di quei soggetti, la tendenziale vincolatività dell’accordo, il suo fine attuato nel raggiungimento dello scopo, deriva “dalla natura” (usando un termine oggi non più compreso come in antico ), [24] cioè dall’uomo, da qualcosa che lui è, e che non è frutto della volontà umana. Al contrario, la volontà umana sarà ragionevole nella misura in cui attua, traduce, discerne, questo presupposto: una legge che riconoscesse valore vincolante a un contratto non liberamente concluso ci apparirebbe irragionevole e ingiusta proprio per questo. Dunque l’uomo è la fonte di senso dell’ordinamento giuridico, e le regole in esso contenute sono giuste o ingiuste in relazione a lui: non nel senso che siano conformi o meno alla sua volontà, ma a qualcosa che egli non è libero di mutare se non distruggendole.
Con questo non intendiamo dire che questo significato antropologico dal quale scaturiscono gli istituti giuridici, e a partire dal quale essi acquistano pensabilità razionale, sia stato sempre infallibilmente colto o, peggio, pensato una volta per tutte. Diciamo solo che questo costituisce una “sensibilità per la verità” che ci invita, secondo le parole del Pontefice, “a restare in cammino”, consapevoli che il diritto non è mai interamente o definitivamente attuato. Il diritto ci appare dunque un concetto limite, dove le grandezze che tendono a questo limite, senza mai raggiungerlo definitivamente, sono appunto le leggi; in questo senso, il diritto è, kantianamente, condizione di pensabilità delle norme in quanto norme, cioè non come proposizioni che si limitano ad enunciare poteri di fatto attribuiti e garantiti dal potere ,[25] ma come “vere” norme. Qui il termine “vero” non dice l’aggancio a valori metafisici, etici o religiosi, e rispetta così l’autonomia scientifica della giurisprudenza come scienza autonoma , [26] senza naturalmente con questo escluderli a priori come domande insensate o necessariamente non rilevanti per il diritto, rimanendo cioè aperto a un surplus di significato. Questo modo di esprimersi indica solamente il termine in relazione al quale il diritto si dà, cioè appunto l’uomo. Siamo nella medesima prospettiva aperta da A. Rosmini: “La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente: quindi anco l’essenza del diritto” .[27] In questo senso, si impone ragionevolmente la disamina di una prospettiva sull’uomo diversa da quella prospettata da Hobbes e dai suoi seguaci moderni (cioè, praticamente, da tutta la tradizione positivista): l’uomo deve essere pensato come tendenzialmente socievole, come capace di autoregolazione in vista del convivere, e non necessariamente come impegnato in una guerra sfrenata di tutti contro tutti. La qual cosa non è poi affatto nuova, ma solo desueta, essendo la riproposizione del principio aristotelico dell’uomo physei politikón, ossia per natura socievole. L’antropologia costitutiva dell’uomo, il suo “chi è”, diviene la chiave per la comprensione del diritto in termini davvero “miti” o “amichevoli”. Socievole verso di sé, ossia non autodistruttivo, e verso gli altri, ossia comunitario.
Socialità dell’uomo, verità del diritto
Se vogliamo iniziare a pensare un diritto amichevole, presupposto della libertà dell’uomo e non sua negazione, strumento della sua attuazione e tutela e non della sua repressione, il punto di partenza dovrà essere pensare a una libertà che non si disfi, ma si faccia. Come farsi liberi, laddove l’esperienza quotidiana è al contrario il suo erodersi, la minaccia e la violenza sempre aperte contro di essa? In termini giuridici: come l’uomo può essere per davvero “soggetto” dell’ordinamento giuridico, e non suo “oggetto”, seppure camuffato da soggetto? Come costruire dei veri “diritti soggettivi”, che attuino la sovranità dell’uomo sulla legge, e non viceversa? Sembrerebbe une quête de l’impossible, ma non lo è. Bisogna come prima cosa uscire dalla prospettiva per la quale i diritti sono attribuiti dalla sovranità politica, lo Stato: infatti la contraddizione logica da superare è che, se i diritti sono attribuiti, prima di questa attribuzione, almeno giuridicamente, non esistono, e dunque non c’è alcun soggetto di essi, perché essi stessi non ci sono. E’ il motivo per cui l’art. 2 della Costituzione italiana dice che i diritti inviolabili sono “riconosciuti e garantiti” dalla Repubblica, e non concessi. Naturalmente, ci si potrebbe domandare: a chi? A chi la volontà politica ha deciso di riconoscere qualcosa, o a chi, veramente, li ha, indipendentemente dal fatto che una volontà politica li voglia riconoscere? In altri termini: la politica viene prima del diritto, o il diritto viene prima della politica, secondo quanto la grande esperienza inglese insegna affermando il Rule of Law? La domanda non è senza significato, e vorrebbe costituire un esempio di quella “sensibilità alla verità” di cui parla il Pontefice: non può essere rimossa, pena l’arroccarsi in un dogmatismo sterile, per il quale non c’è niente da cambiare. Chi sono i soggetti ai quali i diritti sono riconosciuti? Il che implica la domanda: ci sono forse alcuni soggetti non riconosciuti come tali? Potrebbe essere l’inizio di un nuovo sapere aude, “osa sapere” , [28] laico e kantiano: quali sono i soggetti che la politica [29] non vuole riconoscere come tali negli ordinamenti giuridici vigenti? Questa è la domanda fondamentale con la quale deve camminare ogni ordinamento giuridico che aspiri ad essere giusto, cioè vero. Qui siamo in un terreno previo al diritto, cioè la politica: la sfida aperta dal Pontefice è quella di ripensare il rapporto tra la politica ed il diritto, e la politica stessa in senso oggettivo, e non soggettivo , [30] affinché “la sensibilità per la verità” non sia sopraffatta “dalla sensibilità per gli interessi”, vale a dire il “conseguimento di maggioranze” e “gli interessi che promettono di soddisfare”. In questo modo, il Pontefice propone una vera rivoluzione copernicana rispetto alla mentalità corrente, che confonde ormai quasi abitualmente la politica con l’ideologia, ossia la “misura” con la “giusta misura”, misconoscendo la realtà dei fatti ed il loro significato. L’errore fondamentale, come abbiamo già osservato, è stato infatti, fin dai tempi dei primi scrittori giuspolitici moderni, aver confuso la società vera, ossia l’uomo con i suoi bisogni e fini reali, con le sue rappresentazioni, ossia con la politica intesa come ragionamento e spiegazione ideologica. Il problema sociale è stato inteso e interpretato come
problema politico, quando, al contrario, il problema politico è innanzi tutto un problema sociale . [31] La società viene prima dello Stato, e non viceversa, e gli uomini prima delle “leggi” che li regolano: la politica gira attorno al diritto, ne è debitrice, e non viceversa, ossia il diritto non è in funzione di un determinato disegno politico, ma viceversa. In altri termini, la politica deve essere pensata come ancorata alle cose della città e alle esigenze loro inscritte, e non alle prospettive sfalsanti dei diversi punti di vista, assunti come assoluti.
Scendendo poi al livello giuridico, primo passo di questa rivoluzione sarà avere il coraggio di assumere l’ordinamento giuridico nel senso più ampio già enunciato, comprensivo di diritto e legge: anche qui, niente di nuovo, perché si tratta praticamente di accostarsi con maggiore disponibilità al modello giuridico di Common Law, una dimensione cioè più marcatamente processuale e dottrinale della giurisprudenza, quale del resto appartenne anche al mondo romano, e più libera dalle pastoie dell’unicità della legge [32] come fonte del diritto. Ritornare dunque alla persona umana come diritto sussistente, secondo la sfida aperta da Rosmini. Questa, e quindi il suo bene oggettivo e personale, è previa alla legge, ne è il criterio di giudizio ed il metro di verità: infatti non un’astratta ragione è misura delle cose, ma le cose stesse sono misura e metro delle ragioni da noi utilizzate, verificandole o falsificandole .[33] Questo è l’inizio di un tentativo di risposta alla domanda del Pontefice sul “come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo”: in una parola, perché i diritti siano veramente dell’uomo, occorre che l’uomo ed i suoi diritti vengano prima dell’ordinamento giuridico. Altrimenti è giocoforza che i diritti siano i diritti dell’uomo-soggetto di diritto, ossia assoggettato dal potere, ossia fatto schiavo: l’unico veramente libero è, in questa prospettiva, il sovrano, proprio come per Hobbes.