NOTE DI STUDIO SUL RUOLO DELLA PRUDENZA NELLA RAZIONALITA’ GIURIDICA CONTEMPORANEA
di Andrea Favaro

4. Prudenza e giudizio

La declinazione del confronto del momento prudenziale con la teoria generale del normativismo, si potrebbe sinteticamente rappresentare come la dicotomia tra la figura del “giudice” e quella del “legislatore”. Tema questo che viene anche oggi identificato all’interno dell’istituzione “stato” (modernamente intesa). Difatti, la vera grave preoccupazione del giurista che voglia rinvenire la dimensione corretta di libertà-autonomia entro il vaso di pandora della prudentia è chiamato a incanalare il discorso lungo il solco della limitazione del “potere”. È opportuno, prima di ogni altro argomentare, ridefinire gli orizzonti dell’autonomia nella società e nella politica. La tesi è che se non si stabilisce fra di esse un confine certo, la legislazione, id est la produzione formale di comandi normativi, finisce per mettere a repentaglio l’autonomia di qualsiasi soggetto facente parte egli stesso della (comunità) politica, che altro non è se non la società (civile).

A partire dal nodo gordiano del “giudizio”, la prospettiva “prudenziale” può proporre allora una alternativa strutturandosi quale essenza stessa del giuridico, poiché solo nel “luogo” del processo delle singole rivendicazioni si può esplicare la vera natura del diritto come entità connaturata all’essere umano e per questo restia a qualsiasi amputazione procustiana d’ordine formale28.

Pare utile richiamare come i problemi specifici di interpretazione e di applicazione che ciascun magistrato (dal giudice di pace a quello che siede in Corte Costituzionale e nelle varie sedi internazionali) si trova a dover affrontare, sono riconducibili a questioni più generali, ma non per questo astratte. Sulla scia del giusfilosofo, in effetti, ci dobbiamo chiedere se e come possano sussistere garanzie formali e sostanziali affinché il risultato interpretativo non cambi con il mutare della (prudentia) della “persona” del giudice29, sia esso in composizione monocratica o collegiale. In altri termini, la problematica sembra incentrarsi sul rapporto tra stato di diritto e il principio di uniformità interpretativa, lasciando in sospeso l’ulteriore nesso tra quest’ultimo principio e quello di certezza del diritto in una prospettiva di ordine prudenziale. Mentre, infatti, la certezza del diritto va intesa quale frutto ultimo e fondamentale della uniformità interpretativa, alla luce della dinamicità economica, politica, culturale (e quindi, si potrebbe intendere, anche giuridica) della società, pare necessario sottolineare che tali questioni non devono interessare soltanto la comunità degli specialisti (gli studiosi e i c.d. “pratici” del diritto), ma possono trovare spazio nell’agone della dialettica politica quotidiana.

È facile intuire come non sia ipotizzabile una teoria esaustiva ed organica circa il ruolo ed i poteri del giudice in società. Come già dedotto, però, si può “diffidare” dal “legislatore”, riponendo invece una grande fiducia nel “giudice”30. Già taluni autori si sono spinti lungo questa intuizione che non è però riuscita a palesare effettive, ma soprattutto efficaci, alternative. D’altronde, in termini sintetici, pare utile dedurre che queste prospettive scontano spesso una critica immediata: l’aver trattato con superficialità quella letteratura giusrealista che enfatizza(va) l’elemento arbitrario insito proprio negli arresti delle corti.
Con un gioco di parole si potrebbe affermare che la fiducia nel giudice è fondata sulla “non credenza” della reale possibilità di sentenze “incredibili”; e questa convinzione, ci pare, nasce non perché vi possa essere davvero qualche ingenuo positivista devoto, non (tanto) al legislatore, ma (in alternativa) allo stare decisis, ma perché si possa ritenere che, per quanto sussista una forma di arbitrio nelle sentenze31, essa non potrà mai palesarsi fisiologicamente in un
ordinamento giuridico. Il giudice32, difatti, più del legislatore-sovrano è ben consapevole che ci sono dei confini nell’argomentazione, il cui superamento è considerato da tutti, e quindi anche dal giudice medesimo in prima persona, prima che ingiusto ed irrazionale, statisticamente improbabile33.

5. Conclusione. L’imperituro ruolo del giurista tra ordinamento e esperienza

All’interno di tale quadro, il ruolo sociale che il giurista può inverare è decisivo: assumere l’arduo giogo di evitare l’incoerenza dell’ordinamento tramite il ricorso quotidiano e non per questo meno importante alla prudentia; in sostanza, al giurista spetta il compito di sfruttare il proprio ruolo ermeneutico (e lo potrà evidentemente fare tanto come studioso quanto come giudice) per rendere compatibile quella regola particolare col principio generale che l’ha giustificata e, almeno implicitamente, fondata.

A tal fine, probabilmente, perfino Hayek invocava una comunione d’intenti tra giuristi: «se uniti, i giuristi di professione possono pertanto annullare talvolta l’intenzione del legislatore, non per dispregio del diritto, ma, al contrario, perché le loro tecniche li conducono a preferire quella che è ancora
la parte predominante del diritto, e a collocarvi un elemento estraneo trasformandolo in modo da armonizzarlo con l’intero insieme»34.
In questo clima, a ben vedere, il giurista partecipa di una autonomia tale che può assumere il ruolo sia del rivoluzionario che del conservatore; a lui e alla sua coscienza, in comunione con quella degli altri giuristi ma soprattutto degli uomini che nell’esperienza giuridica si relazionano autenticamente, toccano le sorti del diritto nell’esperienza. Perché pure per il giurista odierno la coscienza è il pertugio non sempre evidente attraverso il quale l’eterno emerge nel tempo. Il giusto si invera nel prudente e nel razionale. È così il positivo potrà intrecciarsi col naturale e, tramite questo, col divino35.

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1 Per un utile approfondimento, anche per l’argomentare giuridico, sul concetto di “classico” rimandiamo a T.S. ELIOT, Che cos’è un classico [1945], in ID., Opere, vol. II, Milano 2003, pp. 473-495, ove si legge anche «Un classico non appare se non quando una civiltà, una lingua e una letteratura sono mature» (Op. cit., p. 475 – corsivo nostro).

2 Cfr. J. PIEPER, Sulla Prudenza, Brescia 1956, pp. 35 ss..

3 Cfr., inter alios, P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano 2001.

4 Pare utile evidenziare sin dal principio, invece, che concordiamo con l’opinione per la quale non vi è virtù più ordinaria della prudentia come ci ha insegnato San Tommaso d’Aquino quando ricorda che «prudentia est virtus maxime necessaria ad vitam humanam. Bene enim vivere consistit in bene operari. Ad hoc autem quod aliquis bene operetur, non solum requiritur quid faciat, sed etiam quomodo faciat; ut scilicet secundum electionem rectam operetur, non solum ex impetu aut passione» (SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 57, a. 5).

5 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano 1984; nonché ID., Legalità, giustizia, giustificazione. Sul ruolo della filosofia del diritto nella formazione del giurista, Napoli 2008.

6 San Tommaso ricorda di seguito il richiamo ad Aristotele: «Et quasi est eadem definitio cum ea quam Philosophus ponit, in 5 Ethic., dicens quod “iustitia est habitus secundum quem aliquis dicitur operativus secundum electionem iusti» (II-II, 58, 1). Il P. Centi, nel commentare il passo (cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, [tr. e comm. a cura dei Domenicani italiani], Bologna 1987, vol. XVII, pp. 46-47, nota 2) chiarisce come «La definizione dei giuristi era ormai celebre, e l’Autore cerca di giustificare. Il De Vitoria osserva: “I logici moderni certamente la troverebbero riprovevole; ma S. Tommaso con la sua modestia l’accetta” (Commentarios a la Seconda Secundae de S. Tomàs, Salamanca 1934, t. III, p. 20). L’accetta però non senza ridurla in una formula più appropriata».

7 Circa una disamina sulla funzione del diritto, interessanti rimangono le osservazioni di S. COTTA, Ha il diritto una funzione propria? (Linee di un’analisi onto-fenomenologica), in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto» (1973), pp. 398-412. Si confronti con N. BOBBIO, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano 1977.

8 P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, p. 22. Lo storico prosegue asserendo «e di farlo elevando il tono della voce. I tempi appaiono fertili anche se molti semi si isteriliranno e avranno vita nascosta o attecchiranno tardi».

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