Diritto e terrore *
di Gabriele Civello **
Terminata l’indagine relativa all’ideologia di Lotta Continua, la ricerca di Alberto Berardi prosegue con la narrazione dei fatti concomitanti e successivi al 1980. In particolare, nella primavera di tale anno si verificava un evento di straordinaria importanza, ossia la collaborazione processuale di Patrizio Peci, leader della colonna torinese e componente della Direzione strategia delle Brigate Rosse; e nei primi anni ‘80 si consumava una considerevole frammentazione del fenomeno terroristico-politico: alla fine del 1981, infatti, avveniva la scissione della colonna napoletana e la fondazione delle Brigate Rosse-Partito della Guerriglia; inoltre, a seguito di una riunione della Direzione strategica in Padova, avveniva la fondazione delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Infine, nel 1984, si verificava l’ulteriore scissione tra la prima e la seconda Posizione, dalla quale si consolidava, poi, la nascita dell’Unione dei Comunisti Combattenti.
In tale labirintico e frattalico sviluppo per “gemmazione”, le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia, sulla scorta di una asserita conflittualità totale ed insanabile fra le classi, propugnavano il progetto di una guerra civile immediata, in relazione alla quale la società italiana appariva del tutto pronta e matura all’azione; tale progetto rivoluzionario implicava il coinvolgimento vieppiù massiccio dell’intero soggetto sociale collettivo, in una perenne dialettica tra avanguardia di matrice leninista e corpo sociale: anche in questo caso, dunque, si perpetuava il dissidio tra avanguardia partitica ed istanze proletarie. Peraltro, le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia presentavano, all’interno della propria impostazione ideologica, alcune venature latamente “pauperistiche”, in quanto – almeno in apparenza – predicavano l’inutilità e la deprecabilità di una violenza fine a se stessa, la quale non si facesse latrice dei più profondi e primari bisogni del proletariato. In proposito, tuttavia, è facile smascherare la natura del tutto surretizia e simulata di una tale forma di pauperismo, quantomeno al solo considerare che, a posteriori, la pretesa terroristica di agire in nome dei poveri si è rivelata del tutto soccombente (e, dunque, a priori secondaria), innanzi alle dilaganti ed autoreferenziali istanze rivoluzionarie di matrice leninista, sempre più soverchianti rispetto all’universo di bisogni e di esigenze maturati in senso alla classe operaia.
A tale punto della trattazione, l’Autore del testo rivolge la propria attenzione al diverso approccio ideologico delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: all’interno di quest’ultimo movimento, infatti, non si presentava spazio per alcuna soluzione di “internità politica” dell’avanguardia con le masse metropolitane. In tale prospettiva, infatti, il comunismo non era inteso come “bisogno espresso o esprimibile dalle masse, ma [come] concezione di una necessità storica, scientificamente basata sulla possibilità del superamento dei limiti strutturali di un modo di produzione”[20]: palese la frattura tra la programmazione rivoluzionaria armata del partito combattente da un canto, e le istanze di massa d’altro canto. È a dirsi, peraltro, che sin dall’inizio degli anni ‘80, tale processo rivoluzionario assumeva i caratteri di una vera e propria “guerra di classe resistenziale e di lunga durata”, la quale venne poi denominata “ritirata strategica”, a significare il progressivo trasformarsi della lotta in fenomeno latente e prolungato; in tale prospettiva, proprio la ‘ritirata’ avrebbe rappresentato lo strumento operativo e ‘tattico’ per costruire un nuovo impianto teorico ed una nuova linea strategica. Ebbene, è di solare evidenza che la “ritirata” avrebbe implicato una definitiva cesura di tutte le connessioni tra avanguardia armata e movimento operaio; purtuttavia, ciò non implicava di certo la rinuncia all’attacco violento ed indiscriminato, quale strumento principe per l’affermazione politica.
Proprio lo snodo della “ritirata strategica” e la soluzione di continuità tra istanze rivoluzionarie d’avanguardia ed istanze rivoluzionarie di massa, hanno costituito il trampolino per il finale approdo strettamente distruttivo ed autoreferenziale del fenomeno terroristico, culminato nell’ultimo ventennio: l’assenza di strumentalità della lotta armata a qualsivoglia causa rivoluzionaria ha finito per determinare il sostanziale riconoscimento dell’impossibilità di un avanzamento di tipo politico, con conseguente necessità di uno scontro prolungato con lo Stato, del tutto autoreferenziale e fine a sé stesso.
E proprio tale approdo “autoreferenziale” fa emergere, in tutta la sua dirompenza, una grave aporia del pensiero terroristico-rivoluzionario: se da un lato, infatti, l’originaria teorica rivoluzionaria è, sin dalle origini dell’ideologia, profondamente intrisa di propositi e finalità di carattere politico (pur in senso soggettivistico-volontaristico), dall’altro lato l’esito del fenomeno terroristico si sostanzia nell’esercizio di una violenza cieca ed indiscriminata, del tutto priva di qualsivoglia spessore politico, morale ed assiologico. In altri termini, proprio quei bisogni della classe operaia, che avevano costituito la fonte di legittimazione della lotta politica armata, finiscono per essere palesemente traditi da un movimento rivoluzionario ormai del tutto sordo alle esigenze sociali ed accecato da una insaziabile sete di violenza, di potere e… di morte.
Ecco, dunque, che nelle ultime propaggini del fenomeno terroristico, il baricentro teorico dell’ideologia si sposta sempre più dalla finalità autenticamente – seppur soggettivamente – politica, al mero nichilistico bisogno di distruzione; scompare, così, ogni velleità politica, per lasciare il posto ad una distorta ed aberrante estraniazione rispetto al reale. Così, si passa dal prototipo “romantico” del terrorista come uomo intriso di bisogni ed afflati politici, alla patologica caricatura del terrorista, quale individuo emarginato, alienato, estraniato, che sfoga la propria animale vis distruttiva, senza più tenere in considerazione ciò che gli sta attorno; insomma, al limite, uno psicopatico il cui motore è costituito dall’odio per il mondo e dal culto per il nulla, in una parabola distruttiva che vede proprio il mondo precipitare nel baratro del nihil. Insomma, dal terrorismo politico al distruttivismo a-politico (pag. 171).
Sibillino e profetico, dunque, appare lo slogan di Saint-Just riportato dall’Autore del testo, secondo il quale “ciò che costituisce la Repubblica è la distruzione totale di ciò che le si oppone”[21]: l’ossimorico accostamento tra “costituzione” e “distruzione” è sintomatico dell’idea politica fondamentale, secondo la quale non v’è ordinamento giuridico che non venga costituito mediante distruzione dell’ordine istituzionale precedente; ma anche, ad esiti estremi, non v’è distruzione politica che, prima o poi, non si consumi, essa stessa, in una tragica autodistruzione.
Considerati gli estremi approdi del fenomeno terroristico, Alberto Berardi giunge così ad una quarta conclusione, la quale “vorrebbe assumere un significato che si proietti oltre l’interlocutorio” (pag. 173): alla luce dell’approfondita indagine circa i prodromi teorici e gli ultimi esiti operativi dell’ideologia del terrore, può concludersi che il fenomeno terroristico-rivoluzionario contenga in sé, in nuce, il concetto di violenza distruttrice, indiscriminata e terrorizzante; e dunque, l’approdo autoreferenziale ed aberrante cui giunge il terrorismo, lungi dal costituire una mera deviazione rispetto ad un integro e puro percorso teorico, tradisce una sostanziale debolezza – se non, addirittura, una inconsistenza teorica – di cui sembra affetta l’intera ideologia terroristica, sin dalle proprie fondamenta.
Alla luce di quest’ultima conclusione, “oltre l’interlocutorio”, l’Autore del testo ritiene assai efficace l’affermazione di Papa Benedetto XVI, secondo la quale “Marx ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo”[22]. Anche ad avviso di chi scrive, dunque, quella rivoluzionaria è una ideologia condannata a mostrare solamente il proprio volto destruens: parafrasando Kelsen[23], chi voglia “girare la medaglia” ed osservare l’altro volto del terrorismo, probabilmente non potrà mai scorgere alcun altro volto construens, ma solo un terrificante vuoto pneumatico. In proposito, continua Papa Ratzinger: “Marx […] ha […] mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo […]. Che egli di ciò non dica nulla è logica conseguenza della sua impostazione”[24].
Ma allora, la violenza che sta alla base del fenomeno terroristico e rivoluzionario non è altro che espressione del nulla e, osando, del Male assoluto: per comprenderne l’essenza, forse, bisognerebbe prima rimuovere il tabù oggi imperante in tema di Male assoluto e di Demonio, in quanto proprio quest’ultima figura, quale espressione del “male per il male”, riesce a rappresentare e scolpire il poliedrico prisma della terreur.
Alla luce di ciò, non sembra esserci definizione più icastica della figura soggettiva del terrorista, rispetto a quella fornitaci da Albert Camus: “i terroristi [sono coloro] che hanno deciso che si deve uccidere e morire per essere, poiché l’uomo e la storia non si possono creare se non col sacrificio e l’omicidio”[25].
Prima di rassegnare la propria ultima conclusione in tema di terrorismo, l’Autore fa cenno al possibile parallelo tra terrorismo di matrice rivoluzionaria e c.d. “terrorismo eversivo di destra”, ponendo il problema della riconducibilità di quest’ultimo all’alveo teorico del primo. Sul punto, tuttavia, lo studioso si scontra con un “deficit clamoroso di elaborazione teorica”, in quanto il terrorismo neofascista, pur mostrando alcuni aspetti metodologici e di principio rinvianti alla matrice rivoluzionaria, appare essere stato costruito attorno ad una fondazione teorica perlopiù grossolana e superficiale; infatti, mentre il c.d. terrorismo “di sinistra” affonda le proprie radici, come detto nella teorica rivoluzionaria di fine ‘700, poi ampiamente sviluppata, elaborata e contaminata nel corso dei secoli, l’eversione di destra pare essere frutto più di una istintiva ed impulsiva “reazione violenta al sistema”, che di una meditata ed organica teorizzazione previa[26].