Diritto e terrore *
di Gabriele Civello **
In particolare, secondo il pensiero di Lenin, nella Russia del tempo sussisteva un sostanziale deficit antropologico e sociologico di cui era affetto il proletariato russo, il quale rendeva impensabile un abbrivio rivoluzionario spontaneo da parte del corpo sociale; pertanto, al dato quantitativo, costituito dalla massa operaia, si sarebbe dovuto raggiungere un importante dato qualitativo, costituito da un’organizzazione rivoluzionaria rigorosa e scientifica da parte dell’élite, rappresentata dal partito.
In chiave leninista, dunque, il processo rivoluzionario non avrebbe potuto prescindere da una “lotta accanita contro la spontaneità”, ossia una inoculazione affatto artificiale e sofisticata dei “germi rivoluzionari” in uno spento e sopito corpo sociale.
È evidente la fallacia di tale approccio, il quale, invece che valorizzare le istanze sociali di autonomia e di auto-composizione dei conflitti, propugna una sostanziale galvanizzazione delle masse, mediante inasprimento e rinfocolamento (o, forse, inoculazione?) degli istinti e delle pulsioni peggiori; ed una tale operazione, nell’ottica leninista, sarebbe stata opera di una elitaria avanguardia partitica, che avrebbe sostanzialmente fondato una sorta di “aristocrazia rivoluzionaria”, vero motore intellettuale della rivoluzione.
Alla luce di tali riflessioni, dunque, a giudizio di Alberto Berardi, il fenomeno del “terrore” finisce per ri-declinare la categoria del nemico, il quale si trasforma da “nemico reale” a “nemico assoluto”: la stessa teoria schmittiana, pertanto, subisce una nuova curvatura radicalizzante, che conduce da una “irregolarità della lotta di classe” ad una “irregolarità totale”, la quale supera definitivamente il concetto di guerra convenzionale, per approdare alla criminalizzazione totalizzante del nemico di classe; in breve, all’ostilità assoluta.
Si passa, così, dalla figura soggettiva del partigiano, incarnante il concetto “reale” di nemico, alla figura del “rivoluzionario di professione”, che nella disamina schmittiana viene ascritto paradigmaticamente alla figura di Lenin; dunque, comincia a scolorarsi, per diluizione, la radice asseritamente politica del fenomeno terroristico e, così, al totalitarismo del terrore.
In proposito, è significativo riportare una icastica definizione del “rivoluzionario”, fornita da Necaev ne Il catechismo del rivoluzionario: “Il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione. Nel suo intimo, non solo a parole, ma nei fatti, egli ha spezzato ogni legame con l’ordinamento sociale e con l’intero mondo civile, con tutte le leggi, gli usi, le convenzioni sociali e le regole morali di esso. Il rivoluzionario è suo nemico implacabile e continua a viverci solo per distruggerlo con maggiore sicurezza[11].
A parere di chi scrive, alla sola esegesi parafrastica di tale allucinata – e allucinante – definizione, emergono con chiarezza i tratti fondamentali del rivoluzionario (e, dunque, per proprietà transitiva, della rivoluzione stessa):
1) la perdita di ogni profilo personalistico, l’alienazione e la de-soggettivazione dell’uomo: “è un uomo perduto in partenza”, ossia tutto votato alla rivoluzione e, dunque, tutto estroflesso verso un quid estrinseco, diverso dal proprio ‘io’; “non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome”, ossia perdita di qualsivoglia identità personale;
2) la prefissazione ossessiva e monotematica di “un unico interesse”, “un unico pensiero”, ossia la rivoluzione, con conseguente oblio di tutto ciò che è poliedrico, sfaccettato, sfumato: insomma, la vita del rivoluzionario diventa una sorta di ossessivo quadro monocromo;
3) la cesura di ogni legame con la realtà, con conseguente creazione di una “nuova” e virtuale realtà, tutta deformata e piegata all’unico, ossessivo, scopo: la revolutio;
4) la perdita di ogni collegamento con la morale ed il diritto (“egli ha spezzato ogni legame con l’ordinamento sociale e con l’intero mondo civile, con tutte le leggi, gli usi, le convenzioni sociali e le regole morali di esso”), in una sorta di nuovo “stato di natura” in cui il rivoluzionario non risponde che alla propria spada, è legibus solutus, paradossalmente assumendo i medesimi caratteri dello stesso Sovrano-Stato che la rivoluzione si prefigge di abbattere[12];
5) infine, la a-problematica avversione nei confronti dello status quo, presunto con integralmente e totalmente errato e, dunque, da emendare non mediante una dialettica distinzione tra ‘buono e cattivo’, ‘vero e falso’, ‘giusto ed ingiusto’, bensì mediante un utopistico[13] ribaltamento della realtà attuale.
E la definizione della figura soggettiva del “rivoluzionario” fornita da Necaev non può, a parere di chi scrive, non ricordare la definizione di “nichilismo” e “nichilista” fornita da Wilhelm Traugott Krug nel supplemento al Dizionario manuale delle scienze filosofiche: “nihil est – nulla è – è una affermazione che si distrugge da sé e che è stata anche chiamata nichilismo. Infatti, se nulla fosse, non si potrebbe nemmeno affermare nulla. […] In francese si chiama “nihiliste” anche colui che nella società, e in particolare in quella borghese, non ha nessuna importanza (che è solo un numero, ma non ha nessun peso e nessun valore), e parimenti in questioni religiose non crede a nulla. Tali nichilisti sociali o politici e religiosi sono molto più numerosi dei nichilisti filosofici o metafisici, che vogliono annientare tutto ciò che è”[14].
Lo stesso Louis-Sébastien Mercier, nell’opera Néologie ou Vocabulaire de mots nouveaux del 1801, precisa che « nihiliste » o « rienniste » è « qui ne croit à rien, qui ne s’intéresse à rien »[15], ossia chi non crede in niente e non s’interessa a niente.
Lo stretto legame intercorrente tra “rivoluzionario” (come definito da Necaev) e “nichilista” (come definitivo nella letteratura francese) appare un’ennesima premonizione, circa la reale essenza del fenomeno terroristico, il quale, quasi come un astronomico “buco nero”, appare destinato ad una vorticosa autodistruzione, in una inesorabile tensione verso il nihil.
Secondo la ricostruzione fornita dall’Autore del testo, in tale panorama concettuale si innesta la variante trozkista dell’ideologia rivoluzionaria, denominata “rivoluzione permanente” e fondata su tre sostanziali pilastri teorici: l’idea che la rivoluzione dovesse avvenire immediatamente (ossia nella Russia del tempo), ad opera della minoranza costituita dal proletariato industriale, nonostante la massa della popolazione avesse, a quel tempo, prevalente carattere agricolo-rurale, dunque prima della completa maturazione del fenomeno capitalistico; l’idea che la rivoluzione debba, in generale, estrinsecarsi in una lotta interna di durata indefinita e, al limite, permanente; la proiezione internazionalistica della rivoluzione permanente (c.d. “permanenza spaziale”).
A differenza di Lenin, inoltre, Trozkij non nutre una sostanziale “venerazione” per un’elitaria avanguardia del Partito e, anzi, ritiene che la rivoluzione possa levarsi solo dall’aggravarsi generalizzato e “di massa” della lotta di classe; in tale ottica, “se il terrorismo è inteso […] come azione che ispiri paura o arrechi danno al nemico, allora certamente l’intera lotta di classe non è nient’altro che terrorismo” (pag. 121).
In conclusione, a seguito di tale excursus storico-ideologico, avente ad oggetto la nozione di rivoluzione e di terrore, è evidente come, nonostante le differenti radici ideologiche sottese ai diversi fenomeni storici, il socialismo rivoluzionario russo costituisca una sorta di “cerniera” tra la rivoluzione francese, la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica del 1917; in particolare, il fil rouge che connota vieppiù le differenti esperienze di matrice rivoluzionaria è costituito dal montante fanatismo e dall’aberrante e progressiva crescita di una sostanziale autoreferenzialità del fenomeno terroristico, il quale sempre più trova il proprio fulcro non tanto nel “terrore per fini politici”, quanto nel “terrore per il terrore”, in una spiroidale e vorticosa caduta del terrore su se stesso, con conseguente perdita di ogni spessore (sia pur soggettivamente) politico.
L’Autore del testo, così, giunge alla terza conclusione interlocutoria, la quale, per certi profili, conferma e rafforza la prima menzionata conclusione: in buona sostanza, l’equazione tra violenza politica e violenza terroristica, nell’ambito della concezione moderna del soggettivismo politico, risulta compiutamente spiegabile nella cornice teorica della c.d. “causa rivoluzionaria totalizzante”, finalizzata all’eliminazione totale di quello che viene definito il “nemico assoluto”, secondo l’ideologa di matrice marxista-leninista; ciò, in sostanziale continuità con i dettami della Rivoluzione francese, della Comune parigina e della rivoluzione bolscevica. D’altra parte, tale continuità storico-ideologica fu intuita dallo stesso Marx, il quale ebbe a dire: “nella storia ci sono analogie sorprendenti. Il giacobino del 1793 è diventato il comunista dei nostri giorni”.
Nella terza parte del testo, l’Autore si propone di verificare la coerenza della terza conclusione interlocutoria, alla luce delle vicende del terrorismo italiano del XX secolo.