Diritto e terrore *
di Gabriele Civello **

In via di prima approssimazione, come in Carl Schmitt, così nell’ambito del “sistema terroristico”, il conflitto diviene unico metro, uno criterio di giudizio che consente di distinguere ciò che è politico da ciò che politico non è; al limite, l’eliminazione fisica del nemico, quale condicio sine qua non dell’affermazione del potere, diviene strumento ammissibile, se non addirittura necessitato della dinamica politica.

Dietro le quinte di tale impostazione, quasi come costante Hintergrund teorico, appare l’ombra di un’antropologia pessimistica, à la Machiavelli (“presupporre tutti gli uomini rei”) o à la Hobbes, affatto scettica circa la possibilità di comporre i dissidi sociali senza un continuo attingimento ad una – presunta latente – aggressività “naturale”, laddove per ‘natura’ non si intenda l’essenza reale dell’uomo, bensì, convenzionalmente ed operativamente, un ipotetico stato di natura.

Peraltro, acutamente, l’Autore del testo osserva come “di tale temperie teorico-culturale”, connotata da una curvatura tutta volontaristica e soggettivistica, “appare intrisa altresì la dottrina giuridica che, quando ragiona degli strumenti normativo-sanzionatori di contrasto proprio al fenomeno del terrorismo, si lascia condizionare da locuzioni di senso polemiche, quella della guerra, della lotta al terrorismo” (pag. 62), in un diabolico susseguirsi di violenza a violenza, il quale, se privato di ogni spessore assiologico, finisce per lasciare sfuggire il discrimen valoriale tra violenza terroristica e c.d. “violenza delle istituzioni”[5].

Alla luce di ciò, dunque, la prima conclusione interlocutoria cui giunge Alberto Berardi è la seguente: innanzi alla “insufficienza classificatoria” cui va incontro una ricostruzione del fenomeno terroristico in chiave di mera violenza efferata, il secondo elemento costitutivo, rappresentato dalla finalità politica, assume un significato strettamente soggettivo; in proposito, icastico è il seguente slogan tratto da “Che cos’è Potere Operaio”: “dalla lotta sul terreno economico-rivendicativo, ad una lotta apertamente politica sul terreno del potere”[6]. E ancora: “Cosa vogliamo? Vogliamo il potere! […] E non ne vogliamo una fetta, ma lo vogliamo tutto”[7], laddove il binomio ‘volere-potere’ è significativo del passaggio da una lotta in chiave meramente economico-rivendicativa ad una lotta apertamente politica.

Al fine di verificare la fondatezza di tale prima conclusione interlocutoria, l’Autore ripercorre la distinzione tra il concetto schmittiano di “nemico pubblico” o “esterno” (hostis, in greco polémios) ed il concetto classico di inimicus (in greco ékthros), con particolare attenzione alla parallela contrapposizione tra la guerra “esterna” e la sedizione “interna” alla comunità politica: nella guerra, infatti, la polis combatte contro l’hostis esterno, il quale, in quanto extraneus, non viene fatto oggetto di riconoscimento alcuno da parte del civis; viceversa, nella sedizione, è come se la polis – cui appartiene anche l’inimicus – combattesse con sé stessa, in un fase in cui la fisiologica amicizia si tramuta, temporaneamente, in mera discordia, senza sfociare mai in guerra totale.

Ora, in chiave schmittiana, la coppia amico/nemico, che costituisce il nucleo teorico di ogni politica, si lega al significato “esterno” di nemico, ossia fa riferimento alla guerra tra il cittadino e l’hostis estraneo alla comunità: tant’è che, nel pensiero di Schmitt, il nemico è concepito come un “corpo estraneo” ed esterno rispetto al perimetro della polis. Tuttavia, tale paradigma teorico non pare affatto applicabile al fenomeno terroristico, il quale – al di là delle sue ultime declinazioni internazionalistiche, la cui riconduzione al terrorismo “tradizionale” è tutta da dimostrare – assume ontologicamente una portata tradizionalmente “interna” al sistema politico: infatti, il terrorista nasce come cellula “tumorale” che scava, dall’interno, il corpo politico, al fine di destabilizzarlo e, infine, rovesciarlo; inoltre, alle dinamiche terroristiche appare del tutto estraneo il c.d. “diritto di guerra”, il quale regola e disciplina la dimensione “internazionalistico-bellica” del conflitto.

Peraltro, a ben vedere, la distanza teorica tra fenomeno terroristico e teoria schmittiana del nemico si rende vieppiù insuperabile, se solo si pone mente agli esiti estremi raggiunti dal giurista di Plettenberg nel proprio percorso di ricerca: infatti, il concetto schmittiano di hostis, o nemico esterno, da combattere in ogni caso e a tutti i costi quale non-io da annientare, è tale solo in virtù di una forma – se pur affatto peculiare – di riconoscimento; o meglio, amico e nemico sono tali, solo ove si instauri reciprocamente una relazione di tragica anagnorisis, in base alla quale il nemico viene qualificato come tale da parte del civis. E, al limite, se con il nemico si giunge ad un “trattato di pace”, tale accordo postula, ancor di più, un precedente atto di reciproco riconoscimento tra i due soggetti, in virtù del quale si perviene alla ossimorica figura soggettiva dell’hostis iustus, ossia del nemico che, in quanto riconosciuto, diviene “qualcuno”, e non più una scheggia impazzita o un mero delinquente da neutralizzare. Al limite, dunque, il nemico schmittiano acquista il “diritto” di essere tale, è “legittimato” ad essere tale in ragione di un “diritto di guerra”, a differenza delle categorie residuali dei ribelli, dei criminali e dei pirati, hostes irriducibili e non riconducibili nell’alveo del ‘giuridico’.

Ecco, allora, che l’incompatibilità tra teoria schmittiana del nemico e teoria soggettiva del “terrorista” diviene insanabile: da un lato l’hostis, il quale, al limite, diviene iustus; dall’altro lato, il terrorista che, al pari dei summenzionati soggetti (ribelli, criminali e pirati), non è in nessun caso suscettibile di essere “riconosciuto” da parte della comunità politica. In conclusione, l’incompatibilità tra la coppia categoriale “amico-nemico” e le radici teoriche del fenomeno terroristico tradisce proprio l’insufficienza concettuale di cui è affetta una ricostruzione politico-soggettivistica del terrorismo, che si fondi esclusivamente sul binomio soggettivo schmittiano; quest’ultimo, peraltro, diviene un’arma “spuntata”, ossia uno strumento concettuale privo di reale efficacia euristica, laddove esso appare inadeguato ad individuare il discrimen dogmatico tra delinquenza politica e delinquenza “comune”.

Ma allora diviene claudicante anche una prima conclusione interlocutoria, che individui quale ubi consistam del terrorismo – oltre alla violenza efferata – la finalità politica soggettivamente intesa, in ragione del fatto che, ove l’accezione soggettiva del genitivo “politica” venga fatta coincidere con l’asse portante del terrorismo, si finisce per attribuire alla finalità di terrorismo una valenza affatto contingente, connessa al punto di vista del soggetto vincente nel conflitto; in altri termini, si giunge all’aporia secondo la quale la “parte forte”, risultata vincente nel conflitto sociale, acquista di fatto il potere di qualificare il proprio agire come politico e l’agire del “perdente” come terroristico: evidente la perdita di qualsivoglia spessore assiologico connessa ad una siffatta impostazione, la quale lascia l’individuazione del “terrorista” in balìa della regula trasimachea[8].

“Su questo tracciato”, conclude Alberto Berardi, “l’insufficienza classificatoria testé denunziata moltiplica i suoi effetti negativi, poiché apre, conseguentemente, ad una sorta di indifferenza giuridicamente inaccettabile, a proposito dell’endiadi tra le “due fondamentali categorie terroristologiche” del terrorismo di Stato versus il terrorismo contro lo Stato, ed alla conseguente irrisolvibilità conoscitiva delle accuse reciproche in tal senso”. A tal proposito, icastico è il passo trotzkijsta, secondo il quale “l’unico interrogativo che resta da porsi è se i politici borghesi abbiano o meno il diritto di versare la loro piena indignazione morale sul terrorismo proletario quando il loro intero apparato statale, con le sue leggi, polizia ed esercito, non è nient’altro che l’apparato del terrore capitalistico!” (pag. 72).

Evidente ed imbarazzante il vicolo cieco teorico, il quale, tuttavia, contiene in sé la “molla” per il superamento dell’aporia, ossia la seconda conclusione interlocutoria: l’equazione tra violenza politica e violenza terroristica è chiaramente insufficiente ad evadere lo sforzo di comprensione del contenuto della finalità di terrorismo.

A tale punto della riflessione, l’Autore del testo ritiene di potere superare, in chiave eminentemente dialettica, l’esposta aporia attraverso una duplice indagine teorica: da un lato, una riflessione relativa alla nozione penalistica di ‘delitto politico’; dall’altro, un’attenta analisi storico-linguistica, concernente il lemma ‘terrorismo’.

L’art. 8, comma 3, c.p. stabilisce che “agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”.

In tema di delitto politico, si fronteggiano due differenti opzioni interpretative: la prima, di matrice autoritaria e fascista, giustifica una nozione lata e rigorosa di delitto politico, soprattutto in vista dell’estensione della punibilità dei reati politici commessi all’estero; la seconda, invece, di matrice democratico-liberale, perviene ad una nozione “garantista” di delitto politico, in ispecie connessa al divieto costituzionale di estradizione per reati politici (art. 10, comma 4 e art. 26, comma 2, Cost.).

Alla luce della categoria penalistica del delitto politico, ci si chiede se il fenomeno criminoso di matrice terroristica possa essere ricondotto, sia in chiave rigoristica sia in chiave garantistica, a tale categoria teorica, con le conseguenze applicative che ne possano derivare.

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