DEONTOLOGIA GIURIDICA[1]
di Mauro Ronco

6. Segue: la diligenza.

Il richiamo alla diligenza, di cui all’art. 8 del Codice, evoca ugualmente profili comportamentali strettamente connessi al profilo etico della vita professionale. La diligenza è alla base di ogni rapporto tra gli uomini. La diligenza è particolarmente importante nella nostra professione. Nel giudizio disciplinare spesso vengono in evidenza problemi non facili sui rapporti tra errore, fondamento di una possibile responsabilità civile per il danno arrecato all’assistito e negligenza sanzionabile disciplinarmente. Quest’ultima non è automaticamente riconoscibile in ogni difetto di diligenza, perché occorre distinguere tra l’episodicità della dimenticanza o dell’errore e la carenza di fondamentali nozioni necessarie per l’esercizio della professione in un determinato settore ovvero la reiterazione di comportamenti incompatibili con l’espletamento corretto degli incarichi assunti.

Il concetto di diligenza ha serbato, nelle varie epoche storiche, il valore semantico di accuratezza, cura scrupolosa, solerzia, zelo. Cicerone nel De Oratore dichiara che la virtus di diligentia comprende in sé le “virtutes” di cura, attentio animi, cogitatio, vigiliantia, adsiduitas, labor, “[….] tendenti tutte ad esprimere lo scrupoloso ed attento agire, non senza ridondare nel senso di devozione verso la cosa cui l’attenzione è rivolta […]. Questi significati si ricollegano all’etimo della parola, assai generico e comprensivo, di “scelta”, “discernimento”, da dis e lego: ove scelta significa il discernimento dell’atteggiamento psichico-volitivo, volto a portare a buon fine la propria opera. S. Tommaso d’Aquino, in un denso discorso dedicato alla diligenza, inquadra tale concetto nella sollecitudine, e questa a sua volta nella prudenza, e la definisce come “electio […] recta eorum quae sunt ad finem”.

Le espressioni citate mettono in luce il legame tra la volontà del soggetto e il fine che costituisce l’oggetto e il termine dell’agire. La volontà giuridicamente rilevante non è auto-referenziale, ma deve trovare referenzialità oggettiva e specificazione motivante nella costellazione dei valori che la condotta coinvolge. La negligenza designa una inadeguata, insufficiente apertura del soggetto rispetto all’oggetto. E poiché l’oggetto non è la cosa materiale, bensì il bene di un altro uomo ovvero il bene comune a una molteplicità di persone, il concetto di diligenza evoca il movimento della ragione pratica versus il riconoscimento dell’altro come bene nonché come condizione necessaria per la stessa realizzazione del bene di colui che agisce.

 

7. Segue: il decoro.

Problemi analoghi solleva il concetto di decoro. Il termine è poco comprensibile a una mentalità frettolosa e superficiale, che si lasci distrarre dal frenetico rincorrersi degli avvenimenti e non presti attenzione adeguata al valore dei rapporti tra le persone. Anche per l’avvocato il significato del decoro rischia di stemperarsi, fin quasi a diventare la vuota caricatura di un perbenismo un po’ demodé, bolsa convenzionalità meritevole di essere abbandonata senza alcun rimpianto. Credo, invece, che il concetto di decoro sia importante.

Un grande aiuto alla comprensione del decoro mi è venuta dalla lettura del De Oratore di Cicerone. In quest’opera egli, a un certo punto, attribuisce a Licinio Crasso, famoso oratore della generazione a lui precedente, che egli ammirava in modo particolare, le seguenti parole, pronunciate durante una immaginaria conversazione in un cerchio eletto di amici: “[….] vi farò una confessione che non avevo ancora fatta a nessuno […]: secondo me, anche coloro che parlano ottimamente […], se non affrontano il discorso con una certa timidezza e non mostrano qualche turbamento al principio di esso, sono quasi degli sfacciati […] perché quanto più un oratore è valente, tanto più comprende la difficoltà del parlare […]. Invece colui che non è capace di concepire ed esporre nulla che sia degno dell’argomento, del nome di oratore e delle orecchie stesse del pubblico, anche se nel parlare si agita, mi sembra uno sfrontato: infatti non coll’arrossire, ma evitando di fare ciò che è sconveniente fare, noi sfuggiamo alla taccia di sfrontati. Colui che neppure arrossisce […] non solo, a mio avviso, è degno di rimprovero, ma anche di castigo”(De Oratore, L. 1, 119-122, in Opere retoriche di M. Tullio Cicerone, v. I, Utet, Torino, 1976, 149).

Queste parole di Licinio Crasso compendiano in modo mirabile il concetto di decoro. Il decoro è quella qualità – che trova radice nella virtù dell’umiltà – che permea di un’aura di modestia tutto il comportamento dell’avvocato valente. Egli anzitutto sa, ammaestrato dall’esperienza e dal naturale istinto, che talvolta i discorsi dei più grandi oratori e le comparse dei più insigni giuristi non riescono felici come ciascuno di essi desidera. Così, non senza ragione, tutte le volte che debbono parlare o scrivere, gli avvocati hanno ragione di temere che possa accadere ciò che qualche volta accade, di non riuscire a farsi pienamente comprendere. In secondo luogo l’avvocato sa che, quando non raggiunga nella sua prestazione la perfezione e il successo, verrà molto spesso giudicato un incapace. Per questo l’avvocato deve assumere sempre con timore la sua causa, mantenendo per tutta la sua difesa quella modestia che è conveniente alla delicatezza del compito che svolge.

L’avvocato che non si rende conto che egli è soltanto uno strumento tra gli altri perché sia fatta la giustizia, e pretende di dettare lui da solo la legge del caso, appare – ed è realmente, come dice Cicerone -, uno sfacciato e uno sfrontato. E diventa non soltanto degno di rimprovero, ma anche di castigo. La giustizia – i doveri e i diritti che l’avvocato vuol far valere nel giudizio – è cosa troppo complessa e difficile, troppo controvertibile e contestabile perché si possa pretendere di realizzarla da soli, urlando e gridando, senza attrezzarsi con le virtù della semplicità e della modestia ad ascoltare le ragioni degli altri per far valere dialetticamente le proprie. In questo – ma non soltanto in questo – sta il decoro che costituisce un pilastro della nostra deontologia professionale.

 

8. Segue: la pubblicità e l’informazione.

Vorrei terminare con un cenno al tema della cosiddetta pubblicità.

Come è noto, i rigorosi divieti antichi sono caduti. Ma non è caduta l’essenza di ciò che si chiamava divieto di pubblicità. Oggi la materia è regolata in modo piuttosto analitico dagli articoli 17 e 17 bis del Codice. E ciò è sicuramente positivo. Occorre infatti distinguere tra informazione e pubblicità. La prima è assolutamente lecita, anzi doverosa; la seconda è comunque illecita. Il confine tra informazione e pubblicità è difficile da erigere. I criteri basilari per la distinzione stanno, ancora una volta, nei modi dell’informazione. Essa deve anzitutto rispettare la dignità e il decoro della professione. Essa deve essere corrispondente al fine, che è l’affidamento della collettività in ciò che viene dichiarato. Essa deve rispondere a criteri di trasparenza e di veridicità, deve essere conforme a verità e correttezza e non può mai trasmodare nella rivelazione al pubblico dei nomi dei propri clienti, ancorché questi vi consentano. In ogni caso, l’informazione non deve assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa. Come vi rendete conto, la pubblicità nel senso proprio del termine rimane proscritta. Che dire al riguardo delle “informazioni” che appaiono spesso sui quotidiani, soprattutto su quelli a diffusione gratuita o semi-gratuita, che segnalano questo o quell’avvocato come esperto in uno o più spesso in più campi del diritto? Io ritengo che non siamo di fronte a una vera informazione, ma a una pubblicità palliata, tutte le volte in cui sia del tutto carente un vero profilo informativo, che apporti cioè una conoscenza reale agli utenti, che serva a meglio orientarlo nella scelta del difensore.

Forse, se non vi è inganno, forse, se non vi è millanteria, forse, se non vi è scorrettezza palese, forse, se viene conservato un certo decoro e una certa dignità nella propria autopromozione, allora probabilmente non sarà superata la soglia dell’illecito disciplinare. Ma certamente le informazioni che ripetono genericamente la propria disponibilità a fornire i servizi legali, dichiarandosi competenti e preparati a fornirli, non giovano alla dignità della professione e non guadagnano il rispetto e l’attenzione delle persone serie. Non è sicuramente con la indiscriminata proposta di se stessi a un numero indeterminato di persone che matura un rapporto stabile e fruttuoso con i possibili futuri clienti.

Sono ammesse, come voi sapete, dall’art. 17, a fini non lucrativi, l’organizzazione e la sponsorizzazione di seminari di studio, di corsi di formazione professionale e di convegni in discipline attinenti alla professione forense da parte di avvocati o di società o di associazioni di avvocati. Anche in queste attività, pure espressamente consentite, possono celarsi censurabili intenti pubblicitari. E’ certamente difficile valutare le intenzioni. Non spetta al giudizio disciplinare espletare un compito del genere. Tuttavia, proprio per l’ambiguità che può nascondersi dietro iniziative del genere, è necessario che esse siano condotte in piena trasparenza e con la più assoluta serietà organizzativa e ridondino effettivamente in un vantaggio informativo per l’utente.

 

9. Conclusione breve.

Non mi resta per terminare che ricordare a me stesso e a tutti che le qualità proprie del professionista orientato al rispetto dei valori deontologici sono: saggezza, competenza, equilibrio interiore, misura, equità nel giudicare e nel considerare problemi e situazioni, nel risolverli e nel dare consigli; capacità quindi di prendere decisioni sagge e opportune, tenendo conto che l’equilibrio interiore non fomenta le liti, ma contribuisce a risolverle, secondo l’obiettivo che ogni buon avvocato deve perseguire.

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[1] Intervento nella Tavola rotonda del Congresso nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica, Torino, 18 settembre 2008.

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