DEONTOLOGIA GIURIDICA[1]
di Mauro Ronco
L’inadeguatezza di una visione meramente deontologica appare evidente solo che si pensi al problema della contraddittorietà delle esigenze che derivano dalla complessità delle regole deontologiche. Si pensi alla quotidiana vita forense: la richiesta di rinvio che l’avvocato di controparte chiede a un difensore in vista dell’udienza già fissata. Che dire nel caso in cui accedere alla richiesta di rinvio della controparte significherebbe danneggiare il proprio assistito? E che dire del dovere di segretezza e di riservatezza sulle informazioni fornite all’avvocato dalla parte assistita o di cui egli sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato? Ben note sono le eccezioni, di ampia portata, di questa regola, contemplate al comma IV dell’art. 9, tutte quante affidate alla prudenza del professionista. E che dire dei rapporti con la stampa. Cosa si può dire, di più e di meglio, di ciò che è prescritto nell’art. 18 del Codice, secondo cui l’avvocato deve ispirarsi, nei rapporti con i media, a criteri di equilibrio e misura, per il rispetto dei doveri di discrezione e di riservatezza. Peraltro, come bene recita il I comma dell’art. 18 del Codice, l’avvocato deve muoversi nella linea dell’assoluto rispetto degli interessi del proprio assistito, modulando i propri interventi ad extra con il consenso di lui e nell’esclusivo suo interesse. Forse ciò legittima la celebrazione contemporanea del processo al di fuori delle aule di giustizia e sui media? Certo che no. Anche se ciò potesse essere apparentemente nell’interesse del cliente. Sembra dunque emergere un principio non scritto, ma fondamentale, che serve a gerarchizzare le varie disposizioni deontologiche. L’interesse del cliente è sempre quello che si riconosce nella concreta ed effettiva esperienza giudiziaria, nel rispetto degli organi della giurisdizione, cui spetta pronunciare il giudizio. In altri ordinamenti la trattazione funditus delle questioni di merito sui media potrebbe integrare l’offesa alla Corte. Ciò significa che l’art. 18 deve essere interpretato alla luce dell’art. 5, che contempla i doveri generalissimi di probità, dignità e decoro e, più ancora, alla luce del Preambolo, I comma, secondo cui l’avvocato deve garantire la regolarità del giudizio e del contraddittorio. Ove non è chi non veda che la trattazione in contemporanea del processo sullo scenario massmediatico è idonea a provocare distorsioni nel giudizio e prevaricazioni nel corretto funzionamento del contraddittorio. Ma anche qui, ove siano il Pubblico Ministero o la Polizia giudiziaria a diffondere un’aura di colpevolezza attraverso dichiarazioni o interventi pubblici, l’avvocato riprende tutto il diritto di rilasciare alla stampa interviste ad ampio raggio, in cui gli sia possibile rintuzzare le invasioni di campo mediatiche di altri soggetti processuali o non processuali.
Mi sembra possibile ricapitolare il fin qui detto in due provvisorie conclusioni: la prima, che le regole deontologiche non nascono dalla legge dello Stato, ma dall’esperienza della professione, e, dunque, è giusto che sia lasciata all’autonomia delle rappresentanze professionali di provvedere in chiave di normazione sub-primaria e, soprattutto, in chiave di giudizio disciplinare.
La seconda conclusione provvisoria concerne il carattere non soltanto giuridico, ma anche etico della normazione deontologica, nel senso che essa, attraverso previsioni generali, talora generiche, non si limita a vietare ciò che non si addice assolutamente all’avvocato, ma a promuovere altresì uno di stile di vita professionale con cui l’avvocato realizza la verità della sua professione.
3. Norme deontologiche e identità professionale.
Desidero a questo punto sviluppare un poco questo tema per penetrare meglio, se possibile, il tema della nostra identità professionale. Dalla compilazione giustinianea sono stati a noi tramandati i tre principi fondamentali della giustizia e del diritto: suum unicuique tribuere, alterum non laedere, honeste vivere.
L’ultimo sintagma non identifica un dovere o un divieto specifico, ma addita uno stile di vita generale che è indispensabile per rispondere, secondo giustizia, ai propri doveri di stato e, soprattutto, ai doveri relativi al contesto dei rapporti professionali. Giuseppe Capograssi su questo lemma ha lasciato pagine preziose: “L’onesto è proprio tutto quello che è coerente alla giustizia e al dovere : è cioè questo criterio morale di determinarsi secondo la verità della realtà, dell’azione e del bene, di non riferire ad suum commodum la propria azione, ma riferirla alla verità oggettiva dell’idea e della realtà su cui in definitiva l’attività pratica si fonda. Non adattare o ridurre l’essere alla propria soggettività, ma considerarlo e tenerne conto per quello che è”. A fondamento delle sue parole Capograssi evoca Cicerone nelle Leggi e soprattutto nel De Officiis, ove l’Arpinate sintetizza, tra l’altro, la sua definizione di dovere, alla cui stregua “ogni azione deve andare esente da temerità e negligenza, né si deve fare alcuna cosa di cui non si possa dare motivo plausibile: questa press’a poco la definizione del dovere”.
L’honeste vivere, come principio supremo del diritto, riferito alla professione dell’avvocato, significa che egli non si deve accontentare di non violare dei precetti di non fare, ma deve tendere costantemente alla perfezione intrinseca della sua intera attività, che è ben rivelata dalle prescrizioni deontologiche generali, interpretate positivamente in vista dello scopo di garantire la difesa del suo assistito, contribuendo con ciò a realizzare, nel contraddittorio e di fronte a un giudice terzo, la giustizia umanamente possibile.
Oltre ai testimoni antichi, tra cui ho ricordato Cicerone, mi pare appropriato riferire le parole di un testimone moderno, Piero Calamandrei, il cui celebre scritto “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” è memorabile anche nella specifica ottica deontologica. Ricordo un solo pensiero, dedicato al confronto funzionale tra i giudici e gli avvocati, da cui derivano interessanti rilievi deontologici: “ L’aforisma nemo iudex sine actore non esprime soltanto un principio giuridico, ma ha una più vasta portata psicologica: in quanto spiega che non per biasimevole pigrizia, ma per necessità istituzionale della sua funzione, il giudice deve tenere nel processo un atteggiamento statico, aspettando, senza impazienza e senza curiosità, che altri lo venga a cercare e gli ponga i problemi da risolvere. La inerzia è per il giudice garanzia di equilibrio, cioè di imparzialità: agire vorrebbe dire prendere un partito. Spetta all’avvocato, che non teme di apparire parziale, essere l’organo propulsore del processo: prendere tutte le iniziative, agitare tutti i dubbi, rompere tutti gli indugi: agire, insomma, non solo nel senso processuale, ma nel senso umano. Questa differenza di funzioni che passa nel processo fra giudice e avvocato, il momento statico e il momento dinamico della giustizia, appare perfino negli atteggiamenti esterni e nei gesti che si vedono in udienza : il giudice seduto, l’avvocato in piedi; il giudice con la testa tra le mani, raccolto e immobile, l’avvocato con le braccia protese e tentacolari, aggressivo e irrequieto. La netta contrappo-sizione dei due tipi appare anche nei loro vizi, che rispecchiano deformate le loro rispettive virtù: l’avvocato, a furia di agire, può diventare un agitato, che bisogna cacciare dall’aula come un disturbatore; il giudice, a forza di concentrarsi, può semplicemente diventare un dormiente”.
4. Il dinamismo inerente ai precetti deontologici: l’indipendenza.
I precetti deontologici hanno, dunque, un carattere dinamico. Non si limitano a vietare qualcosa di specificamente determinato, ma focalizzano un percorso nel quale e grazie al quale si diventa veramente avvocati. Un esempio riguarda il dovere di indipendenza. Questa può essere intesa in generale come libertà dai condizionamenti esterni e, più specificamente, come autonomia dalle decisioni e dall’influenza di enti ed organizzazioni commerciali e come distinzione ferma tra l’avvocato e gli interessi economici dell’assistito, con i quali il primo non deve mai confondersi.
Visto in questo modo il dovere di indipendenza, ci si rende immediatamente conto che esso, più che una acquisizione che si possa dare compiutamente all’inizio della professione, è un compito arduo che accompagna l’avvocato per tutto il corso della sua carriera. Se, infatti, siamo liberi perché capaci di scelte che rinviano alla nostra esclusiva responsabilità, è anche giusto riconoscere che la libertà non è uno status definitivo, bensì un processo di autoliberazione da tutti i condizionamenti, esterni ed interni, che limitano e impediscono il conseguimento della nostra intima aspirazione al bene, quello che vale sia per noi sia per il nostro prossimo.
Per operare con vero spirito di indipendenza l’avvocato deve esercitarsi in due importanti virtù, quella della prudenza e quella della fortezza. L’avvocato forte riesce a conservare la propria indipendenza, rischiando il benessere economico, soltanto se si sottomette con pazienza alla legge dello sforzo e del sacrificio quotidiano, non perseguendo successi immediati, ma puntando alla meta alta e nobile di servire con indipendenza e fedeltà i diritti di chi a lui fiduciosamente si rivolge per essere aiutato.
5. Segue: la fedeltà.
Un altro esempio concerne il contenuto e la portata del dovere di fedeltà, di cui all’art. 7 del Codice che, mette in luce la tensione etico/giuridica sottesa alla prescrizione deontologica. Fedeltà significa rispettare scrupolosamente gli interessi del proprio assistito ed evitare di arrecargli in qualsiasi modo pregiudizio. Rientra in questo dovere anche la riservatezza, per cui l’avvocato non deve servirsi delle notizie conosciute dal cliente per fini personali. Ma la fedeltà è dovuta anche nei confronti dell’ordinamento, come ben recita il secondo comma dell’art. 7, secondo cui l’avvocato deve esercitare la sua attività anche nel rispetto dei doveri che la sua funzione gli impone verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere. L’avvocato, pertanto, è astretto da un duplice vincolo di fedeltà, che può implicare conflitti di doveri talora difficilmente risolubili. Certo, l’avvocato non può, per rispetto alla volontà del cliente, contribuire a commettere reati. Ma, accanto all’area del penalmente sanzionato, vi è tutta una serie di comportamenti che si trovano in una zona grigia e, pur non rilevanti come reato, debbono essere accuratamente evitati. Io ritengo che i conflitti possano e debbano essere evitati in causa, ovvero all’origine del rapporto, preservando l’avvocato integra la propria dignità e il proprio decoro di fronte a qualsiasi cliente. Fedeltà non significa infatti ricevere ordini dal cliente, piegarsi ai suoi desideri o ai suoi comandi allo scopo di accondiscenderlo, vuoi per interesse vuoi per timore, sia esso del tipo revenzionale nei confronti del cliente dal colletto bianco, sia esso addirittura di tipo fisico nei confronti del cliente prepotente orbitante nell’area della criminalità organizzata. Infatti, al principio di fedeltà verso il cliente va accostato il principio di fedeltà verso l’ordinamento giuridico, meglio, verso la giustizia, alla cui realizzazione l’ordinamento giuridico è orientato. Contro certe posizioni talora estremistiche che vogliono fare dell’avvocato un soggetto quasi legibus solutus, esclusivamente proteso a realizzare l’interesse del cliente anche sfiorando la violazione della legge, vale ricordare che l’avvocato deve conservare, nel rispetto del dovere di fedeltà verso il proprio incarico, la fedeltà verso i princìpi, etici e costituzionali, che stanno a fondamento della nostra società. Si comprende in questo modo che il dovere di fedeltà è un aspetto importante della virtù della giustizia. La fedeltà non si esaurisce nell’adempimento burocratico delle prestazioni fissate dagli Ordini professionali, né nell’esecuzione dei ‘comandi’ del cliente. Essa è una virtù, prima di essere un dovere, che implica una grande energia morale, intrisa di fiducia, di pazienza, di spirito di servizio e di attenzione verso il valore pieno della giustizia nelle relazioni umane. Non sempre la richiesta di un cliente rivela un autentico bisogno di giustizia. Talora esprime una intenzione sopraffattoria, elusiva di doveri umani fondamentali. In queste situazioni l’avvocato fedele non è chi si precipita a eseguire l’indicazione del cliente come se fosse un ordine, ma chi gli spiega che, oltre all’interesse particolare, vi sono altri beni che meritano di essere rispettati. E l’avvocato fedele è capace anche di rinunciare al mandato, quando il cliente tende a imporglisi come datore di ordini che violano intrinsecamente il principio di giustizia e i diritti degli altri: diritti che l’avvocato deve saper riconoscere come fondativi di tutta l’esperienza giuridica.