Analisi del leading case Maxwell [1978][1]
Dolo di concorso e “concorso anomalo”, tra diritto penale inglese ed italiano.
Profili sintetici di teoria generale del reato e della pena
di Gabriele Civello

In particolare, se la pena viene intesa quale strumento di controllo e difesa sociale[40] e di pura
prevenzione del crimine[41] e, al contempo, il reato (unitamente alla persona del reo) viene concepito come mero fattore oggettivo di disordine e di pericolo sociale da reprimere (c.d. “matrice materialistica”[42]), è evidente come si finisca per approdare ad una concezione oggettivistica del “concorso anomalo” ex art. 116 c.p.; in tale prospettiva, infatti, nell’ipotesi in cui due soggetti concordino la commissione di un reato ma, nell’esecuzione del medesimo, uno dei concorrenti si renda colpevole di un ulteriore e differente delitto, l’attenzione dell’interprete si focalizzerà non tanto sul differente atteggiamento interiore connotante i due compartecipi, bensì sull’esito fattuale della vicenda concorsuale, ossia sull’“evento finale” oggettivamente dannoso o pericoloso: pertanto, il “concorrente anomalo” sarà tenuto a rispondere di tale diverso reato per il sol fatto di versare in re illicita. In tal caso, dunque, in chiave di prevenzione generale e di difesa sociale, l’ordinamento intende addebitare obiettivamente il reato, diverso da quello concordato, anche al concorrente che non l’abbia materialmente commesso; costui, infatti, per il sol fatto di essersi reso infedele agli imperativi della legge (ossia di essersi, comunque, accordato per la commissione di un reato) e di avere scelto negligentemente quale complice un soggetto aggressivo ed inaffidabile, meriterebbe una pena esemplare[43].

È chiaro come una siffatta impostazione si fondi su un postulato antropologico ben preciso, ossia sulla fictio secondo la quale l’uomo sarebbe una mera “pedina” a-nomica, del tutto priva di una qualsivoglia istanza etica e spirituale, la quale agisce esclusivamente secondo un clinamen di natura fisica, assolutamente sprovvisto di uno spessore assiologico-valoriale[44]; in tal caso, la sanzione penale – strumento di controllo sociale per eccellenza – tenderebbe ad assumere la portata di una sorta di “misura di sicurezza preventiva”, volta ad arginare oggettivamente ogni spinta di disordine e di disgregazione, presunta latente nel corpo sociale[45].

In proposito, si è evidenziato come, all’esaltazione del principio (squisitamente utilitaristico) della difesa dell’ordine, corrisponda una generale “svalutazione della portata determinante e differenziatrice dell’elemento soggettivo di sostegno della condotta criminosa, che, da elemento costitutivo del reato, […] acquista sostanziale irrilevanza, a fronte della valutazione oggettivamente pericolosa di una determinata condotta o di una determinata intenzione soggettiva. […] Di qui in definitiva, l’idea della retribuzione in ordine alla pena è, nel totalitarismo penale, del tutto sconosciuta, assumendo la sanzione nulla più che un ruolo di purificazione sociale”[46].

In tale prospettiva, la devianza punibile non presenta in sé uno spessore ontologico e sostanziale, ma viene considerata come mera – e formale – contrarietà della condotta ad un paradigma legalmente posto; ossia, come ha puntualmente osservato Francesco Gentile, “un comportamento è qualificato come deviante, e dunque punibile, per autorità, indipendentemente dal fatto che esso devii veramente da qualcosa o che nell’agente vi sia una reale intenzione di deviare”[47]. Alla luce di tale impostazione, “per un verso […] l’insistenza con la quale si sottolinea il carattere “nominalistico” ed “empirico” della devianza punibile, che tale non è perché vi sia una reale deviazione ma perché così è stata qualificata dal sovrano, è rivelatrice della premessa, rimasta implicita ma non per questo inoperante, che per l’individuo, in quanto tale, nessun comportamento può essere definito deviante perché e qui dobbiamo citare nuovamente Hobbes, “nel puro stato di natura (…) bene e male sono solo nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni”. […] Per altro verso, risulta subito con chiarezza la divinizzazione dell’auctoritas che stabilisce, dal nulla la devianza di un comportamento, al quale vien fatta corrispondere una conseguenza particolarmente grave com’è quella della pena”[48].

In altri termini ed in sintesi, considerato il reo come mero fattore materiale di destabilizzazione sociale, valutato il “concorrente anomalo” alla luce non di criteri di responsabilità personale e colpevole, bensì di meri parametri di sicurezza e difesa sociale, è evidente come si giunga ad imputare al concorrente medesimo l’evento diverso da quello voluto a titolo di mera responsabilità oggettiva (o, nella versione soft propugnata dal “diritto vivente”, a titolo di mera colpa incosciente)[49].

Tale ricostruzione teorica, tuttavia, come sopra evidenziato, risulta gravemente conculcante non solo i principi costituzionali in materia di responsabilità penale (e, segnatamente, il principio di personalità ed il principio di tendenziale funzione rieducativa della pena), ma anche i generali valori di libertà e dignità della persona umana[50].

Se, viceversa, si comprende la natura del reato quale fattore di rottura della relazione interpersonale, il cui disvalore e la cui riprovevolezza risiedono principalmente nell’atteggiamento interiore serbato dal soggetto agente e nelle modalità concrete di estrinsecazione della condotta criminosa[51], e la pena viene concepita come mezzo per la realizzazione della giustizia e dell’equa retribuzione nell’ambito della medesima relazione intersoggettiva[52], muta anche la prospettiva ermeneutica in tema di “concorso anomalo” ex art. 116 c.p..

A tal proposito, si è autorevolmente affermato che “alla base della protezione dei beni sociali […] non può non stare la realizzazione di un fine di giustizia, ché, altrimenti, non si comprenderebbe in base a quali criteri lo Stato potrebbe selezionare i beni e gli interessi sociali meritevoli […] di protezione giuridica e, in specie, di protezione penalistica”[53].

In tale prospettiva, la comminazione e l’irrogazione della sanzione penale non possono prescindere dai profili relativi alla colpevolezza del soggetto agente; conformemente al principio di personalità della responsabilità penale ed alle supreme esigenze di tutela della dignità umana, infatti, al reo non può essere applicata se non la pena “di giustizia”, la quale sia realmente ed in concreto meritata.

In particolare, con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 116 c.p., il “concorrente anomalo” non può subire una pena maggiore, rispetto a quella meritata in ragione del suo personale ed individuale atteggiamento interiore: egli, dunque, non può essere sottoposto ad una pena esemplare per mere ragioni di general-prevenzione; se, infatti, un soggetto si è accordato con un altro soggetto per la commissione di un reato “x” e, nell’esecuzione di tale reato, il complice commette un differente reato “y”, sottoporre il “concorrente anomalo” alla pena per il reato “y” – per il sol fatto del concorso nel reato “x” – significa strumentalizzarlo in vista del perseguimento della difesa sociale[54]. Potrebbe, infatti, sostenersi, in chiave strettamente general-preventiva, che punire il “concorrente anomalo” per il reato “y” comporti una intimidazione generale, volta a prevenire la commissione non solo del reato “y”, ma anche del reato “x” (quale reato latamente “prodromico” al reato “y”): ma ciò comporterebbe l’irragionevole ed inaccettabile irrogazione, in capo dal concorrente ex art. 116 c.p., di una pena sproporzionatamente alta e del tutto sconnessa al disvalore concreto dell’azione del “concorrente anomalo”.

Sul punto, tornando al prefato caso D.P.P. for Northern Ireland v. Maxwell[55], giova rammentare l’acuta affermazione del Presidente Lowry, il quale disse: “il principio che stiamo trattando non sembra autorizzarci, dal punto di vista della lotta alla criminalità in generale, a condannare un presunto complice per qualsiasi reato che, grazie anche agli atti da lui posti in essere in precedenza, il reo abbia commesso. Il reato in questione deve essere previsto dal complice […]”.

Se, dunque, il reato viene inteso come sostanziale rottura della relazione intersoggettiva[56], si comprende la profonda radice di ingiustizia sottesa alla punibilità oggettiva del “concorrente anomalo”: costui, infatti, viene punito in ragione del solo rapporto da lui intrattenuto con l’autore materiale del “reato diverso”, ossia in ragione dell’originario pactum sceleris; in chiave “oggettivistica”, quindi, la comminazione e l’irrogazione della pena prescindono dal fatto che tra il “concorrente anomalo” e la vittima del “reato diverso” sussista quella particolare rottura della relazione interpersonale la quale, viceversa, costituisce fondamento e giustificazione della punibilità. In altri termini ed a titolo meramente esemplificativo: se Tizio e Caio si accordano per commettere un furto ai danni di Sempronio; se, nell’esecuzione del furto, Caio estrae improvvisamente una pistola (senza che ciò fosse previsto da Tizio) ed uccide Sempronio, punire Tizio ai sensi degli artt. 116 e 575 c.p. significa applicargli “oggettivamente” una pena a prescindere dal fatto che tra Tizio e Sempronio sia stata compromessa la relazione intersoggettiva, sub specie ‘rispetto dell’altrui vita’. In tal caso, infatti, Tizio intendeva solamente aggredire il patrimonio di Sempronio (senza l’uso della minima violenza alla persona) e subisce, ciononostante, l’addebito di un’aggressione alla vita.

Va, peraltro, aggiunto che una lettura meramente “obbiettivistica” dell’art. 116 c.p. violerebbe anche il principio della tendenziale funzione rieducativa della pena (art. 27, cpv., Cost.): se, infatti, il “concorrente anomalo” viene sottoposto ad un “doppio” trattamento sanzionatorio, in relazione non solo al reato voluto, ma anche a quello non voluto, la pena finale – quantomeno nel quantum relativo al reato non voluto – risulterebbe a priori inidonea ad esplicare una funzione rieducativa e, pertanto, violerebbe palesemente il dettato costituzionale; non v’è, infatti, ragione per pretendere di rieducare un soggetto, in relazione ad un reato commesso da un terzo e da lui nemmeno preveduto (se pur prevedibile). Anzi, tale “sovrappiù” di pena risulterebbe del tutto ingiustificato agli occhi del condannato, tanto da causare, quasi per contrappasso, un effetto di grave “diseducazione”, connessa al profondo risentimento per la sottoposizione ad una pena arbitraria.

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