Analisi del leading case Maxwell [1978][1]
Dolo di concorso e “concorso anomalo”, tra diritto penale inglese ed italiano.
Profili sintetici di teoria generale del reato e della pena
di Gabriele Civello

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1. Esposizione del leading case.

L’appellante, un membro dell’Esercito Volontario dell’Ulster, organizzazione proibita in Irlanda del Nord, aveva condotto sulla propria autovettura alcuni terroristi alla Locanda Crosskeys. Egli sapeva – fu accertato – che sarebbe avvenuto «un attacco contro il bar Crosskeys, e non una semplice visita o sopralluogo» e che «l’attacco avrebbe comportato l’uso della forza, in modo che le persone sarebbero state messe in pericolo ed i locali sarebbero stati seriamente danneggiati», ma che non sapeva esattamente quale reato sarebbe stato commesso.

Accusato come autore del reato (principal), che consisteva nel collocare un rudimentale ordigno esplosivo nella locanda Crosskeys, in violazione dell’art. 3 lett. a) Explosive Substances Act 1883, il suo ruolo fu definito quale partecipazione (aider and abettor). Egli appellò contro la condanna, perché si sarebbe dovuto dimostrare che egli era a conoscenza del tipo di reato voluto [dagli altri concorrenti] e del genere di mezzi che sarebbero stati trasportati sul luogo del delitto. L’impugnazione fu respinta sia dalla Corte d’Appello che dalla House of Lords con le sentenze qui riportate.

COURT OF CRIMINAL APPEAL IN NORTHERN IRELAND [1978] 3 ALL E.R. 1151 NOTE

PRESIDENTE LOWRY:

[…] Supponiamo che il reo comunichi al complice la sua intenzione di sparare ad A oppure di lasciare una bomba a casa di A e che il complice accetti di guidare il reo alla casa di A e rimanga di guardia una volta giunto sul posto; sembra chiaro che il complice sia colpevole di concorso, qualunque sia il crimine commesso dal reo, poiché egli sapeva che uno dei due crimini sarebbe stato commesso, ha prestato aiuto al reo e ha voluto questo atto di assistenza.

Ancora, supponiamo che il reo dica al complice che è sua intenzione uccidere A in una casa ma, se questi non vi si trovi o nel caso in cui la casa sia sorvegliata, il piano alternativo sarà di recarsi a casa di B e lasciarvi una bomba o, in terzo luogo, derubare una specifica banca (oppure uccidere qualcuno, far scoppiare una bomba a casa di qualcuno o rapinare una banca qualsiasi: v. il caso Bainbridge, [1960] 1 Q.B. 129; [1959] 3 All E.R. 200) e chieda al complice di fare una ricognizione in un certo numero di luoghi e di riferirgli successivamente quale sia il modo migliore per raggiungere l’obiettivo. Il complice accetta, compie tutti i sopralluoghi e comunica i risultati al reo, che, quindi, senza ulteriori comunicazioni, sceglie il bersaglio e commette il reato. Sembra ovvio che, qualsiasi crimine commetta l’autore, sussistono tutti gli elementi necessari per la colpevolezza del complice (accomplice).

In ciascuno dei precedenti esempi il complice sa con esattezza ciò che è stato progettato e l’unica cosa che non sa è di quale crimine diventerà complice quando sarà commesso. La sua responsabilità è resa evidente dal fatto che egli prevede la commissione di uno o più crimini da parte del reo e presta la sua assistenza affinché uno dei crimini venga commesso. In altre parole, egli sa che il reo commetterà o sta per commettere un atto illecito (illegal), da lui scelto in una ristretta cerchia di reati, e avendo tale conoscenza lo aiuta a commetterlo.

Questa situazione ha qualcosa in comune con il caso delle due persone che si accordano per rapinare una banca, sulla base di un’intesa, espressa oppure desumibile dalla loro condotta (ad esempio, quando uno dei due porta con sé una pistola carica e l’altro lo sa), che prevede come possibile il ricorso alla violenza. Il complice sa, non che l’autore sparerà al cassiere, ma che è possibile che lo faccia; e, se il reo effettivamente spara, il complice sarà colpevole di omicidio (murder). È diverso il caso in cui il complice prevede soltanto la commissione del reato A ed il correo commette il reato B. In questo caso il complice, benché moralmente colpevole (e forse effettivamente colpevole di aver cospirato per commettere il reato A), non è colpevole di aver cooperato (aiding and abetting) nella commissione del reato B.

Il principio che stiamo trattando non sembra autorizzarci, dal punto di vista della lotta alla criminalità in generale, a condannare un presunto complice per qualsiasi reato che, grazie anche agli atti da lui posti in essere in precedenza, il reo abbia commesso. Il reato in questione deve essere previsto dal complice e solo in casi eccezionali sarà possibile trovare una prova sufficiente a sostenere l’accusa secondo la quale il complice avrebbe consegnato al reo un «assegno in bianco» (ossia avrebbe accettato e condiviso, incondizionatamente ed a priori, qualsiasi comportamento il reo avesse ritenuto necessario adottare durante lo svolgimento del reato).

L’accertamento dei fatti dimostra che l’appellante, in quanto membro di un’organizzazione che abitualmente perpetra atti di violenza con armi da fuoco ed esplosivi, appena istruito riguardo al suo ruolo, deve aver previsto che un attentato alla locanda Crosskeys sarebbe stato non l’unica possibilità, ma comunque una delle possibilità più ovvie fra quelle che i suoi compagni avrebbero potuto intraprendere e della cui commissione egli era intenzionalmente complice. Per quanto riguarda la conoscenza colpevole (guilty knowledge), egli era perciò nella stessa situazione dell’uomo al quale sia stata fornita una lista di compiti e al quale sia stato detto che uno di tali compiti sarà portato a termine. Così egli è colpevole del reato ascrittogli nel primo capo d’imputazione (count).

La Corte autorizzò l’appello in base al seguente punto di diritto ritenuto di importanza generale: «Se il reato commesso dal reo ed al quale l’imputato ha effettivamente cooperato (assisted), è stato scelto in una lista di reati e si tratta comunque di un reato in relazione al quale il complice sapeva che probabilmente sarebbe stato commesso dall’autore, la mens rea da provare perché il complice sia condannato fu in questo caso provata contro l’accusato?».

La House of Lords respinse l’appello con la sentenza qui sotto riportata.

HOUSE OF LORDS [1978] 3 ALL E.R. 1140

VISCONTE DILHORNE:

[…] Non possono sorgere obiezioni per quanto riguarda la forma di questi capi di imputazione (counts), poiché secondo la legge [Accessories and Abettors Act 1861, art. 8; Criminal Law Act 1967, art. 1 co. 2o] i complici (aiders and abettors) possono essere imputati come autori (principals) del reato, ma gli elementi (particulars) di ciascun capo d’imputazione non danno alcuna indicazione riguardo all’imputazione che l’accusatore intendeva elevare e dalla quale avrebbe dovuto difendersi l’accusato. Nei dettagli del primo capo di imputazione, egli è accusato di aver piazzato una bomba alla locanda Crosskeys; nei dettagli del secondo, egli è accusato di averne avuto il possesso o comunque il controllo. L’accusa non ha tentato di provare che egli aveva piazzato la bomba o che era presente quando la bomba era stata piazzata nella locanda, né ci fu alcun tentativo di dimostrare che, in qualsiasi momento, egli avesse avuto la bomba in suo possesso o sotto il suo controllo.

Sarebbe auspicabile che i particolari del reato mantenessero un qualche contatto con la realtà e, nei casi come questo, in cui è evidente che l’appellante è imputato di aver favorito l’attentato e la custodia della bomba, secondo me sarebbe stato preferibile se gli elementi del reato lo avessero precisato.

LORD SCARMAN (citando la decisione del presidente Lowry):

Il presidente Lowry continua dicendo che «il reato in questione deve essere previsto dal complice e solo in casi eccezionali sarà possibile trovare una prova sufficiente a sostenere l’accusa secondo la quale il complice avrebbe consegnato al reo un assegno in bianco». Il principio così formulato ha un grande merito. Focalizza l’attenzione sullo stato mentale dell’accusato: non su ciò che egli avrebbe dovuto prevedere, ma su ciò che fu da lui effettivamente previsto. Esso evita le definizioni e le classificazioni, assicurando nel contempo che un uomo non possa essere condannato per aver favorito qualsiasi reato sia stato commesso dal reo, ma possa essere condannato solo per aver favorito un reato da lui previsto. Egli può aver previsto un solo reato o più di un reato; e nel caso in cui ne abbia previsto più d’uno egli può considerarli come alternativi. Un complice che lasci tale scelta al vero autore del reato sarà penalmente responsabile, purché la scelta sia compiuta fra i reati che il complice aveva previsto. Benché la formulazione adottata dalla Corte vada oltre rispetto al principio precedente, si tratta di uno sviluppo corretto e niente affatto incoerente rispetto ad essi. Io lo accetto come un corretto principio giurisprudenziale in un campo in cui nessuna legge è attualmente vigente.

2. Il leading case alla luce del diritto penale inglese. Il concorso di persone nel reato e l’Accessories and Abettors Act del 1861. La mens rea del concorrente.

Nel leading case “Director Of Public Prosecutions for Northern Ireland V. Maxwell”, la giurisprudenza inglese ha avuto modo di affrontare il problema relativo al concorso di persone nel reato, con particolare riferimento ai profili di imputazione soggettiva del reato ai concorrenti. In particolare, nel caso de quo, si pone l’interrogativo concernente quale sia il grado di corrispondenza – necessario ai fini della punibilità – tra la rappresentazione soggettiva ante delictum interna alla persona del concorrente ed il reato concretamente commesso da parte dell’autore materiale del fatto.

Prima di entrare in medias res, è d’uopo effettuare una breve riflessione di carattere introduttivo.

Originariamente, nell’ambito del diritto inglese, la disciplina penalistica del concorso di persone nel reato era da rinvenire esclusivamente all’interno della common law e si ispirava a tre principi fondamentali:

1) la distinzione tra le differenti forme di partecipazione (principal in the first degree, principal in the second degree, accessories before the fact e accessories after the fact);

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