Prudentia iuris
di Francesco Gentile
In realtà, nel concreto dell’esperienza giuridica la iuris prudentia, che non è la prudenza applicata al diritto ma la via del diritto alla prudenza, apre nel finito un varco all’infinito, nel transeunte un varco al perenne, che consente agli uomini divisi dalle liti di recuperare la relazione personale che li caratterizza come uomini perché, in virtù della volontà del Bene, la rappresentazione veritiera del suo di ciascuno diventa regola e forma dell’azione.
Per non lasciare l’impressione di vagheggiamento intellettualistico, concluderei con due brevi corollari su due campioni di origine prudenziale dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive, d’ogni tempo.
2. Sull’advocatus. Che cosa chiedono i litiganti al giurista chiamato, advocatus appunto, in aiuto? Non la complicità nel conflitto per il dominio, ché più conveniente sarebbe rivolgersi a un bandito, allo scopo di lui certo meglio attrezzato, ma il sostegno nel riconoscimento di un diritto. In realtà al giurista si chiede di trasformare il conflitto, sorto per la pretesa di dominio su di una cosa, in controversia ossia nel confronto dialettico delle ragioni che suffragano la richiesta di riconoscimento del diritto di una persona. Causa del conflitto il dominio; causa della controversia il riconoscimento. Oggetto del conflitto la cosa; oggetto della controversia il diritto della persona. In questo frangente la prudenza del giurista è chiamata ad operare, con intelligente avvertenza per la natura della cosa in questione ma anche con determinata volontà di ristabilire la relazione tra le persone questionanti. E a questo fine opera dialetticamente poiché la pretesa di ciascuno al suo diritto si configura e può essere sostenuta come domanda d’essere rispettato in ciò che lo diversifica personalmente dagli altri, ma è altresì chiaro che tale diversità può essere definita solo a partire da ciò che ciascuno ha con gli altri personalmente in comune, ossia la razionale disposizione all’ordine per la qual è proprio dell’essere uomo riconoscere a ciascuno quello che gli spetta, ossia il suo diritto. In questa concretissima prospettiva risulta anche chiaro come della legge, prodotto storico dell’auctoritas del sovrano, si serve l’advocatus. Non tanto come grimaldello per controllare una volontà che pretende il dominio ma come lente per riconoscere una ragione che sostiene il diritto. Sicché, stabilendo un parallelo, ardito ma non temerario, tra concetto e legge potremmo dire che come il concetto costituisce un principio regolatore della conoscenza, nel senso che mediante il concetto, o meglio la rete dei concetti, in cui si unificano le esperienze precedenti ci si apre ad esperienze nuove, così la legge esercita la funzione di modello per l’azione, nel senso che si trova nella legge, o meglio nella rete delle leggi in cui sono raccolti i tratti qualificanti di una relazione, l’indicazione utile per disporsi concretamente ad una relazione nuova con gli altri, nel caso della lite superando le lacerazioni prodotte dal conflitto. Ma risulta altresì chiaro che questo è possibile solo a condizione che l’opera dell’ advocatus sia sorretta da una precisa disposizione al bene della relazione intersoggettiva che, come tale, costituisce l’autentico bene da proteggere.
3. Sul iuratus. Cicerone nel De officiis fa memoria di un “costume tramandatoci – dice – dai nostri padri (oh, se noi lo conservassimo ancora), di pregare il giudice con questa formula: ‘Fa per me tutto quello che puoi, purché sia salva la tua coscienza’”[70]. Alla coscienza anche oggi si appella chi è chiamato a giudicare ma a quale condizione la sua coscienza sarà salva? La iuris prudentia ha una risposta che anche oggi non può non risultare incontrovertibile. “Quando il giurato dovrà pronunciare sentenza si ricordi che adopera Dio come testimone, cioè – come io ritengo – la sua coscienza, della quale Dio stesso all’uomo nulla di più divino ha dato”[71]. Una lapidaria citazione del teologo Romano Guardini mi soccorre a questo punto: “Coscienza è, anzitutto, quell’organo per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: ‘Il bene esiste; ha un’importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato ad esso; il bene bisogna farlo; in questo fare si decide una realtà ultima’. La coscienza però è anche l’organo mediante il quale dalla situazione ricavo il chiarimento e la specificazione del bene; mediante il quale posso conoscere che cosa sia il bene in questo determinato luogo e in questo determinato momento. L’atto della coscienza è dunque quell’atto col quale penetro di volta in volta la situazione e intendo che cosa sia, in tale situazione, il giusto e perciò stesso il bene. Così la coscienza è anche la porta per la quale l’eterno entra nel tempo”[72]. Sarebbe superfluo ricordare come coscienza e prudenza valgano quali sinonimi[73]. La formula “ex animi mei sententia”, con la quale il giudice romano, che era come tutti ricordano un privato cittadino, ma in fondo con cui ogni giudice, anche il funzionario pubblico d’oggigiorno, introduce e sostiene il suo giudizio, significa collocare l’azione del iuratus sotto il presidio della coscienza del bene e del sommo Bene. Significa, per usare un’espressione straordinaria dell’Antico testamento (Gdc 18,6), “camminare sotto gli sguardi Dio”.
“Non nobis, Domine, non nobis”. Inciso sulla facciata del Palazzo Loredan in Canal Grande, ancor oggi l’incipit del Terzo Salmo dell’Hallel[74] ci ricorda di quanto forte sia stato il “timor di Dio” nei governanti di questa straordinaria città che “serenissima” non ha mai temuto gli eventi umani essendosi in ultima istanza affidata sempre al Redentore. Ma ci ammonisce anche a riflettere sul timore degli uomini che, “una volta preteso di fare a meno del timor di Dio, è il principio d’ogni follia” perché, come dice il Papa Benedetto, “a bandire Dio dalla città si finisce per bandire la giustizia e anche anche il diritto”[75].
Non sarà che il compito laicissimo del giurista di oggi, che abbia il dono d’essere cristiano, sia quello di recuperare la iuris prudentia, intravista dal giurista di un tempo pagano veluti si Deus daretur, con una consapevolezza razionale resa più radicale e profonda dalla “buona novella” di Cristo?
È un interrogativo cui questo convegno su “Momento prudenziale e atto amministrativo singolare canonico” immagino vorrà dare una qualche risposta. Quello di cui sono certo è che questo si attendono gli studenti del primo anno della licenza in diritto canonico, la primavera della scuola che qui ci ospita.
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a Studium Generale Marcianum, Venezia, 3 maggio 2007
[1] Cfr. di M.T.Cicerone De partitione oratoria, 37, 131; De officis, III, 18, 73; De republica, V, 5 e De legibus, i, 16-18.
[2] Cfr. Di Tito Livio Historiae, III, 34, 6.
[3] Si veda in proposito, tra gli altri, L. MOSSINI, Fonti del diritto. Contributo alla storia di una metafora giuridica, in “Studi Senesi”, LXXVI (1962), I, p. 149 ss. o U. PAGALLO, Alle fonti del diritto. Mito, Scienza, Filosofia, Giapichelli ed., Torino 2002.
[4] Cfr. innanzitutto di H. Kelsen La dottrina pura del diritto [1934], tr. it. a cura di R. Treves, Einaudi, Torino 1952, p. 43 e p. 83; Teoria generale del diritto e dello Stato [1945], tr. it. Ed. Comunità, Milano 1959, p. 134; La dottrina pura del diritto [1960], tr. it. A cura di M.G.Losano, Ed. Einaudi, Torino 1966, p. 84 e p. 219. Ma cfr. altresì, tr gli altri, G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I: Il sistema delle fonti, Utet, Torino 1988 oppure L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Il mulino ed., Bologna 1996.
[5] Sulla nozione di “geometria legale” cfr. “La navigazione nell’arcipelago delle geometrie legali”, a cura di A. Berardi, nel mio Filosofia del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi, Cedam, Padova 2006, pp. 23 ss.
[6] Dal Dialogo fra un filosofo ed uno studioso del diritto comune d’Inghilterra [1666] di Th. HOBBES, tr. it. Di N. Bobbio, Utet, Torino 1959, p. 397.
[7] Dal Dialogo..cit., p. 396.
[8] Dagli Elementi filosofici sul cittadino [1642], tr. it. a cura di N. Bobbio, Utet, Torino 1959, p. 129.
[9] Cfr. Leviathan [1651], II, 26.
[10] Dal Discorso sull’economia politica [1755] di J.J. ROUSSEAU, tr. it. a cura di M. Garin in Scritti politici, Ed. Laterza, Bari, I, p. 285.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
[13] Da Die Gleichheit vor dem Gesetz in Sinne des Art. 109 der Reichsverfassung in Veröffentlichung der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1927, III, p. 55; tr. it. in A. CARRINO, L’ordine delle norme. Politica e diritto in Hans Kelsen, ESI, Napoli 1990, pp. 33-34. Ma già nella relazione al Titolo preliminare del Code Civil, presentata da J.S.M. Portalis, nella seduta del Corps Législatif, il 4 del mese ventoso dell’anno XI della Rivoluzione francese (23 febbraio 1803), si legge: “Il potere legislativo è annipotenza umana. La legge stabilisce, cambia, modifica, perfeziona; distrugge ciò che è, crea ciò che non è ancora. La mente di un grande legislatore è una specie di Olimpo donde promanano le grandi idee, le felici concezioni che provvedono alle fortune degli uomini e al destino degli stati”.
[14] “Il processo di tecnicizzazione del vocabolo ordinamento sulla base dell’elaborazione concettuale (…) non risponde tanto ad un’esigenza di pulizia linguistica quanto ad un’esigenza di polizia, o di ideologia, giuridica: quella di specializzare un sinonimo di diritto per la funzione di occultare fratture e individuare coerenza di sistema (unità di ordinamento) ove la percezione immediata presenta contraddizioni e conflitti tra forze che si vestono da giuridiche, convalidando sempre il risultato del conflitto” (G. TARELLO, Il diritto come ordinamento in AA.VV., Il diritto come ordinamento – Informazione e verità nello Stato contemporaneo, Atti del X Congresso nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Giuffré, Milano 1976, p. 70). Del medesimo autore cfr. altresì Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Il Mulino ed., Bologna 1974.