Prudentia iuris
di Francesco Gentile
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(Utrum sit..) Possiamo, oggi, considerare la Iuris prudentia tra le fonti dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive? Tale è la quaestio che viene posta all’inizio del convegno di studio su “Momento prudenziale e atto amministrativo singolare canonico”a. Ad essa cercherò di dare, sommariamente, una risposta in termini giuridico-filosofici, precisando sin dall’inizio che della metafora mi servo al modo di Cicerone[1] piuttosto che a quello di Livio[2]. Consapevole della ambiguità dell’immagine[3] ma anche della contraddizione in cui incorrono quanti, dopo avere per ragioni ideologiche escluso di potervi fare ricorso, la usano disinvoltamente[4] .
A. (Videtur..) Sembra, stando al dettato della moderna “geometria legale”[5], che la Iuris prudentia non possa trovar spazio nel processo di ordinamento delle relazioni intersoggettive.
1. “Auctoritas non veritas facit legem”[6]. Sin dalle prime formulazioni hobbesiane del volontarismo giuridico, risulta come dato assodato “che non è la verità, ma il potere a creare la legge” poiché, sostiene il Philosopher replicando al Lawyer che aveva perentoriamente affermato essere la “ratio anima legis”, sulla base della ragione “a chiunque sarebbe lecito proclamare contraria alla ragione qualsiasi legge, e cogliere così il pretesto per non obbedire”[7]. Va ricordato che, sul presupposto, convenzionalmente assunto, dello stato di natura, Hobbes sostiene “che bene e male sono nomi, imposti alle cose da coloro che attribuendoli vogliono esprimere la loro simpatia o la loro avversione” e che, “per la diversità dei temperamenti, delle abitudini, delle opinioni, le inclinazioni degli uomini sono diverse (..), sicché quel che uno loda, cioè chiama buono, l’altro biasima come cattivo, ché, anzi, soventissimo una stessa persona in occasioni diverse loda e biasima la stessa cosa. Donde sorgono discordie e contese e lo stato di guerra perdura tutto il tempo che, per la diversità delle ragioni individuali, bene e male si misurano con diverso metro”[8]. Conclusione in ordine all’esperienza giuridica: non la iuris prudentia, “o saggezza di giudici disordinati”, ossia l’opinione ondivaga di funzionari patentati, ma la ragione dello stato, che è un tutt’uno col pubblico imperio, fa la legge ed esclusivamente questa, la legge, per il potere del sovrano, è in grado di mettere ordine nelle relazioni intersoggettive[9].
2. Anche nella versione rousseauiana della geometria legale, si proclama tassativamente che solo alla legge gli uomini debbono “giustizia e libertà”. Avendo assunto che quello di assicurare i beni, la vita e la libertà di ciascuno mediante la protezione di tutti costituisca il motivo per il quale gli uomini, assembrati dai loro reciproci bisogni, si sono più strettamente uniti nello stato civile, Rousseau si chiede come sia possibile costringerli a difendere la libertà di uno di essi senza attentare a quella degli altri e come sia possibile provvedere ai bisogni pubblici senza alterare la proprietà particolare di ciascuno di quelli che si costringono a contribuirvi. “Se la mia volontà può subir costrizione, io non sono più libero e se altri può manomettere i miei beni, io non ne sono più il padrone”[10]. Ora, questa difficoltà, che doveva sembrare insormontabile, afferma il Ginevrino, è stata tolta di mezzo dalla “più sublime delle istituzioni umane, o piuttosto da un’ispirazione celeste, che insegnò all’uomo a imitare quaggiù i decreti immutabili della divinità”[11]: la legge. “E’ questo salutare organo della volontà di tutti che ristabilisce nel diritto l’uguaglianza naturale tra gli uomini. E’ questa voce celeste che detta a ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica, e gli insegna a modellare la propria condotta sui principi dettati dal suo proprio giudizio e a non essere in contraddizione con se stesso. Ed è solo questa voce che i capi devono far parlare quando comandano; perché appena un uomo pretende di sottomettere un altro alla sua privata volontà, indipendentemente dalle leggi, esce all’istante dallo stato civile per collocarsi di fronte all’altro nel puro stato di natura, in cui l’obbedienza non è mai prescritta se non dalla necessità”[12].
3. Poiché espressioni come “ragione dello stato” o. “ragione pubblica” avrebbero potuto ingenerare, ideologicamente, degli equivoci, Hans Kelsen nella sua teoria pura del diritto, la più radicale e coerente canonizzazione della moderna geometria legale, affronta “l’eterno problema di ciò che sta dietro al diritto positivo” e, spregiudicatamente, conclude affermando che “chi cerca ancora una risposta troverà non la verità assoluta di una metafisica né la giustizia assoluta di un diritto naturale. Chi alza quel velo senza chiudere gli occhi si vede fissare dallo sguardo sbarrato della testa di Gorgone del potere”[13]. Non poteva essere affermata in maniera più chiara l’espunzione dall’orizzonte giuridico della prudentia, essendo il campo occupato esclusivamente dal potere. Tanto che, portando l’argomento alle estreme conseguenze, vi sarà chi, come Giovanni Tarello ad esempio, concluderà sostenendo che alla “prudenza” del giurista non sarebbe toccato altro che il compito di sostenere ideologicamente il dettato del potere effettivo[14].
B. (Sed contra ..) Tuttavia anche la “geometria legale” o, come per lo più si dice, il positivismo giuridico sono costretti in proposito a scendere a qualche compromesso. Su questo dobbiamo riflettere, anche senza addentrarci nel campo aperto della “scienza della legislazione”, che peraltro in Italia, come ha scritto opportunamente Alessandro Giuliani, è stata caratterizzata sempre, sin dal tempo di Giambattista Vico, dal modello del “legislatore ragionevole”[15].
1. Senza sconfessare la tesi fondamentale circa il primato della volontà nel diritto “il positivismo giuridico ha per parecchio tempo sottoscritto come propria la teoria della coerenza e, ancor più, quella della completezza dell’ordinamento – nota Giacomo Gavazzi, forse il più lucido e insieme autenticamente critico esponente della scuola di Bobbio – Ora sia quello della completezza sia quello della coerenza sono ideali tipicamente razionalistici. Di un modesto razionalismo, certamente formale la coerenza; per dirla rudemente: ‘il legislatore può comandare tutto quello che vuole, ma non deve contraddirsi. Più invasiva, ma altrettanto formale la completezza; anche qui, per dirla in sintesi: ‘se il legislatore ha comandato certe cose, i suoi comandi valgono anche per le cose simili’. Su tale strada bisognava e, ancora si può, andar avanti per cercare di vedere un po’ chiaro nel problema del diritto razionale o come altro lo si voglia chiamare”[16]. In altri termini, si tratta di riconoscere il “pedaggio” che la volontà del legislatore deve, o dovrebbe, pagare alla ragione per potersi dire autenticamente capace di mettere ordine nelle relazioni intersoggettive. Gavazzi ritiene che un modo per risolvere il problema possa essere quello della “motivazione delle leggi”, analogamente alla motivazione di una sentenza o di un provvedimento amministrativo, cioè con “un discorso strumentale, preparatorio e giustificativo di quello imperativo della decisione o della prescrizione, come esposizione delle ragioni (vere o false, buone o cattive, congrue o incongrue, non importa) che vengono o possono venire portate a giustificare la prescrizione”[17].
2. Tra i “compromessi” cui deve scendere la geometria legale, a proposito del pedaggio che la volontà deve, o dovrebbe, pagare alla ragione per potersi dire autenticamente capace d’ordinamento, quello dell’interpretazione è il più appariscente. Se, infatti, il diritto ha da essere applicato, è necessario accertare il senso delle norme da applicare ossia bisogna interpretarle e questo implica inevitabilmente un “procedimento intellettuale” di natura conoscitiva incidente in modo significativo sul “processo dell’applicazione del diritto nel progressivo passaggio da un piano superiore ad un piano inferiore (..) come per esempio fra costituzione e legge o fra legge e sentenza”[18]. Ora, anche in una prospettiva geometrica dell’ordinamento, a causa dell’intenzionale o involontaria indeterminatezza della prescrizione normativa, “l’interpretazione di una legge non deve necessariamente condurre ad un’unica decisione da ritenersi la sola esatta bensì deve condurre, possibilmente, a più conclusioni nota sempre Hans Kelsen – tutte aventi egual valore, nella misura in cui le si raffronta soltanto alla legge da applicare, anche se soltanto una di esse si trasforma poi in diritto positivo, mediante l’atto dell’organo che applica il diritto, e particolarmente del tribunale”[19]. Si pone, tuttavia, così al centro del discorso il problema della ragione che induce l’organo che applica il diritto a scegliere una delle più conclusioni possibili, tutte aventi egual valore in rapporto alla legge da applicare ma una sola valida in rapporto all’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive cui si applica.
3. Derubricare la ragione della scelta come politica, ma in realtà sarebbe più corretto dire ideologica, e non giuridicamente rilevante, come finisce per fare anche la teoria pura del diritto, significa eludere pilatescamente il problema, senza risolverlo non avendolo potuto evitare. Perché, se è vero che “nell’applicazione della legge da parte di un organo giuridico l’interpretazione teorica del diritto da applicare si collega con un atto di volontà”, è altresì incontestabile che tale atto di volontà poggia e si regge, in quanto motivato, sulla “scelta fra le possibilità rivelate dall’interpretazione teorica”[20]. E questa scelta, se non la si vuole lasciar affondare nel vuoto dell’irrazionale, su di una qualche ragione deve pure basarsi.