Prudentia iuris
di Francesco Gentile

“Prudentia praecise dirigit in his quae sunt ad finem … Sed finis agibilium praeexistit in nobis dupliciter: scil. per cognitionem naturalem de fine hominis (synderesis!) … alio modo quantum ad affectionem: et sic fines agibilium sunt in nobis per virtutes morales … . Ad prudentiam requiruntur et intellectus finium et virtutes morales, quibus affectus recte collocatur in fine; et proter hoc oportet omnem prudentem virtuosum esse”[52]. San Tommaso introduce così nel discorso sulla virtù della prudenza un fattore nuovo e cardinale: l’affectus. Solo chi è prudente può agire bene ma prudente può essere solo colui il quale sia disposto ad “amare e volere il bene”. Se è incontestabile che la volontà non è di per sé in grado di determinare e di produrre la verità della conoscenza, infatti, non è perché io voglio il bene che la mia decisione è prudente bensì perché io riconosco realmente la situazione concreta dell’azione, è altresì incontestabile che la volontà del bene è la condizione alla quale è legato l’esserci e il quod della risoluzione prudente: la volontà del bene rende possibile che la risoluzione prudente riceva effettivamente il suo quid dalla vera conoscenza della realtà. La rettitudine della volontà del fine dà via libera alla verità affinché essa possa imprimere al volere e all’operare il sigillo dell’adeguazione all’essere. Ora, volontà del bene è amore. Amore del Principio e del Fine dell’Essere. Amore di Dio. Per chi tenta d’essere cristiano, Amore del Dio che è Amore. L’agire prudente dunque oltre che della Verità ha bisogno dell’Amore.

Che l’attuale oblio della prudenza debba farsi risalire alla pretesa di trattare dell’ordinamento giuridico “..etiamsi Deus non daretur”?

E. A questo punto abbiamo gli elementi sufficienti per qualche conclusione specifica sulla prudentia iuris .

1. “L’ufficio del diritto o del giurista – scrive suggestivamente Michel Villey risalendo alle origini romane del diritto attraverso l’esperienza filosofica delle quaestiones tomistiche[53]– dev’essere concepito essenzialmente come un lavoro di conoscenza: conoscenza del giusto nelle cose. La giusta proporzione dei benefici e dei carichi in un gruppo sociale (mediante cui si determina la parte che spetta a ciascun litigante) è cosa che è, che il giurista per la sua funzione specifica dovrà accertare e dire all’indicativo. (..) Quanto alle prescrizioni espresse all’imperativo, esse intervengono all’esterno del discorso giuridico, dopo (o prima) del discorso giuridico. La loro natura è affatto differente. (..) Gli imperativi non sono prodotto di scienza, ma di autorità”[54]. L’affermazione del filosofo sembrerebbe perentoria nell’escludere dall’orizzonte del discorso giuridico, prodotto all’indicativo dalla scienza, le prescrizioni, prodotte all’imperativo dall’autorità, tanto che, a prima vista, si potrebbe aver l’impressione d’essere ricaduti nei lacci del brocardo hobbesiano “auctoritas non veritas facit legem” da cui il nostro discorso ha preso le mosse. In realtà non è così per l’altra e altrettanto perentoria affermazione che il giusto va ricercato e perseguito “nelle cose”, in cui riecheggia il monito ciceroniano, dal De legibus, di non pensare il diritto come “costituito sulla base dei decreti del popolo, degli editti dei principi, delle sentenze dei giudici, poiché se così fosse potrebbe essere un diritto rubare, commettere adulterio, falsificare testamenti, ove tali azioni venissero approvate dal voto e dal decreto della folla”[55], bensì “derivato dalla natura delle cose, stimolo ad agire onestamente e a tenersi lontano dal mal fare”[56]. In realtà ci si trova qui di fronte al nodo problematico radicale dell’esperienza giuridica, posto dal rapporto tra intelligenza e volontà, tra concetto e precetto, tra indicativo e imperativo, tutti necessari e tra di loro connessi in termini di reciprocità, poiché non si può dare a ciascuno il suo senza sapere quale sia il suo di ciascuno, né evitare di offendere gli altri se non si sa che cosa li offenda o vivere onestamente senza sapere che cosa sia onesto ma, nel medesimo tempo, non basta sapere che cosa è onesto per vivere onestamente, né avvertire ciò che offende gli altri per non offenderli o avere nozione di ciò che è suo di ciascuno per attribuirglielo. Per all’ordinamento delle relazioni tra i membri di una comunità l’imperativo non può crescere se non nel terreno nutrito dall’indicativo. Per ristabilire la relazione tra i litiganti l’imperativo non può che uscire da un indicativo. Ma come? Non per deduzione logica né per induzione ideologica. Il genio dei giuristi romani ha rivelato all’umanità la via della Iuris prudentia, quale autentica fonte da cui il diritto fluere coepit[57].

Su questo nodo problematico radicale un florilegio di citazioni dal Digesto e più in generale dalle massime che i giuristi romani ci hanno tramandato potrebbe essere raccolto. Per sottolineare il radicamento del giuridico nella natura delle cose: del diritto naturale com’è evidente (Ulpiano, D.1,1,4) ma anche del diritto delle genti, stabilito tra gli uomini dalla ragione naturale (Gaio, D.1,1,9) e dello stesso diritto civile che, pur caratterizzandosi per essere proprio di una particolare comunità, non si discosta in tutto dal diritto naturale (Ulpiano, D.1,1,6). Per rimarcare con forza la centralità della ragione e dell’onestà nell’ordinamento delle relazioni intersoggettive per cui, laddove sia stato stabilito alcunché contra rationem, neppure la norma giuridica può essere seguita (Giuliano, D.1,3,15) poiché “non omne quod licet honestum est” (Paolo, D. 50,17,144) e perché nessuno può arricchirsi a scapito e in pregiudizio di altri (Pomponio, D.50,17,206, cfr. altresì D. 12,6,14 e D. 23,3,6,2). Per affermare come anche il diritto legale debba essere “secundum natura, quae norma legis est” (Cicerone, De leg. 1,5,17).

Ma è soprattutto per evidenziare un aspetto, diciamo così, metodologico che, a proposito della “origine prudenziale” del diritto, il riferimento alla giurisprudenza romana è di cardinale importanza, anche nella temperie attuale della crisi del formalismo giuridico. L’argomentare del giurista romano non è mai caratterizzato da una procedura astrattamente deduttiva ma sempre da una procedura dialettica a partire dall’esperienza dei casi concreti. Procedura dettata, prima che da un interesse operativo, da un autentico amore del sapere (filosofia); non possiamo dimenticare il richiamo rivolto da Ulpiano ai giuristi affinché non dimentichino che la comunità li chiama sacerdoti della giustizia per molte ragioni, perché professano l’arte del buono e dell’equo, separano l’equo dall’iniquo, distinguono il lecito dall’illecito, mirano a rendere migliori gli uomini con il timore della pena ed anche con lo stimolo del premio, ma finalmente perché sono “veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes”[58]. Ed è proprio questa via, ad avere il coraggio di percorrela compiutamente, che conduce a riconoscere che la ragione, derivata dalla natura delle cose e stimolante l’uomo ad agire in modo onesto, è legge. Legge “che non comincia già ad essere tale quando è scritta ma al momento in cui ha origine ed è nata insieme con la mente divina. Per la qual cosa – concludeva il giurista/filosofo – la vera e propria legge fondamentale è la retta ragione del sommo dio Giove che ha autorità di comandare e vietare”[59]. Ed è in questa prospettiva che dobbiamo intendere l’altra celebre ma non immediatamente trasparente massima di Ulpiano: “iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notizia, iusti atque iniusti scientia”[60], la cui sequenza, non casuale, mette in luce in modo inequivocabile come il discernimento (scientia) del giusto dall’ingiusto, che nella concreta esperienza della vita si presentano sempre confusi come il grano e la zizzania, possa per autorità operarsi solo sulla base della reale conoscenza (notitia) delle cose divine e delle umane.

A dimostrare quanto infondato sia il luogo comune che vuole la giurisprudenza romana priva di sostrato filosofico potrebbe bastare la citazione di Crisippo[61] nello stasso Digesto, illuminante proprio la concezione giuridica della prudenza. Quello che a giusto titolo può essere considerato il fondatore dello Stoicismo, infatti, accostava tramite il termine di epistéme la sophía, quale “scienza delle cose divine e umane”[62], e la phrónesis, quale “scienza delle azioni da compiersi e da evitarsi. Da compiersi, le azioni rette; da evitarsi, gli errori”[63]. Più interessante sarebbe chiedersi, a questo proposito, perché i giuristi romani fossero attratti dallo Stoicismo piuttosto che da altre scuole filosofiche, come ad esempio l’Epicureismo, e forse apparirebbe più chiaro perché non sia congeniale alla giurisprudenza una razionalizzazione astratta dell’esperienza, fatta per deduzione muovendo da a priori assunti convenzionalmente, ma la ricerca caso per caso della razionalità implicita nella “situazione”[64] sebbene nascosta dalla tortuosità dell’esistenza umana. Nell’esperienza del popolo romano alla iuris prudentia non si è pervenuti per applicazione di una dottrina, elaborata sistematicamente in via teorica e poi calata nei fatti al fine di ristabilire operativamente l’ordine sociale turbato dalle liti dei singoli individui, quanto piuttosto per continua e progressiva ricerca e scoperta delle condizioni che caso per caso consentono la convivenza umana, “vitae quasi communitas”. Nel rispetto per la verità della natura delle cose e nella scrupolosa osservanza dei patti sanciti chiamando Dio a teste e garante della buona fede[65]. Sicché si potrebbe dire, con Juan Iglesias[66], che prima di designare la competenza di specialisti la iuris prudentia rappresenta la virtù di cittadini, ma forse più ancora la loro umanità: la qualità di ogni uomo degno del nome il quale, “disprezzando le cose terrene, si volge soltanto a ciò che è eterno e divino e tutto pospone all’amore della spienza”[67]. Una straordinaria testimonianza di tutto questo troviamo in una celebre confessione di Francesco Carnelutti, che così ricorda la sua conversione dal giovanile entusiasmo per le geometrie legali alla matura consapevolezza della carità[68] come misura del diritto. “Il giovane aveva fede nella scienza; il vecchio l’ha perduta. Il giovane credeva di sapere; il vecchio sa di non sapere. (..) Il giovane si accontentava del concetto scientifico del diritto; il vecchio sente che in questo concetto si perde (..) la sua verità. (..) Il giovane non credeva che in quello che si vede; il vecchio non crede più se non in quello che non può vedere”[69]

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