Vittorio Frosini
di Francesco Gentile

“La prima condizione necessaria per rialzare le forze spirituali e morali nel seno della nazione è il riunire nell’istruzione superiore lo studio delle scienze razionali, della filosofia in generale e della sua applicazione alle scienze pratiche; per formare un contrappeso necessario alle scienze positive e per fare che la mente non perda, nella moltitudine di conoscenza che da ogni parte si accumulano e che essa deve appropriarsi, la coscienza di sé medesima, della sua intima natura, delle sue facoltà spirituali, dei grandi principi dell’ordine morale che debbono servirle di guida nella vita e nella scienza pratica”. I termini della questione sono chiaramente posti; al di là delle diverse opinioni, o ideologie diremmo noi oggi, si propone, con lucidità, il problema di distinguere la modalità, convenzionale ed operativa, del sapere scientifico, proprio di tutte le scienze positive e quindi anche delle scienze giuridiche, per la quale le conoscenze si moltiplicano in segmenti sempre più limitati, in funzione appunto della operatività, lasciando tra parentesi il problema della globalità dell’esperienza, nel caso delle scienze giuridiche il problema della globalità dell’ordinamento, dalla modalità, an-ipotetica ed essenziale, classicamente diremmo dialettica, del sapere filosofico per la quale, invece, è la totalità dell’esperienza a guadagnare il centro dell’attenzione problematica e la natura in sé, o essenza, diviene il vero soggetto del sapere. Sicché dall’autentico riconoscimento dei due modi di sapere non si può non evincere la relazione naturale, logica e organica, per la quale la molteplicità delle conoscenze scientifiche non decade a congerie caotica ed opaca di nozioni tra loro incomunicanti, e perciò inutili anche da un punto di vista meramente operativo, solo a condizione di ricomporsi in una visione globale dell’esperienza quale solo la radicale problematicità della filosofia è in grado di propiziare. E specificamente nell’ambito dell’esperienza giuridica ecco definirsi il ruolo della Filosofia del diritto, un ruolo eminentemente educativo, paidetico, anche a rischio di apparire eclettica.

Per questo “eclettismo” e questa “scolasticità” la Filosofia del diritto all’inizio del XX Secolo viene impallinata dall’idealismo. Si pensi alla sarcastica descrizione fatta, su “La Critica” nel 1907, da Benedetto Croce di “quel povero insegnante di filosofia del diritto che in una facoltà di tecnici – civilisti, romanisti, storici, economisti – ha tutta l’aria di un intruso, di un inesperto”. Segue un aneddoto napoletano.Basta conoscere un po’ la “filosofia dello spirito” di Croce per intendere, al di là della polemica, la ragione profonda dell’attacco; com’è noto, essa si articola nella distinzione dell’attività spirituale in teoretica e pratica, l’una come l’altra germinantesi in forma individuale, rispettivamente la fantastica e l’economica, e in una universale, rispettivamente il pensiero logico e l’azione morale, donde lo spazio per Estetica e Logica, per Economia ed Etica, e solo per queste. Nessuna sorpresa dunque per l’attacco immediato alla Filosofia del diritto concepita come filosofia pratica, avente funzione educativa o meglio pedagogica e quindi collocantesi sconciamente a cavallo di attività spirituali distinte e non “mescolabili”: la teoretica (filosofia) e la pratica (del diritto). Ma, sia ben chiaro, l’attacco alla Filosofia del diritto ne nascondeva in realtà uno ben più radicale, quello mosso alla Giurisprudenza, per la quale era difficile trovare un posto tra Estetica, Logica, Economica ed Etica. Sarebbe interessante analizzare l’itinerario, tortuoso e tormentato, seguito da Croce per giungere alla riduzione di essa a “forma dell’economia”, tematizzata, benché per esclusione, nella Filosofia della pratica. Economia ed etica del 1909 ma anticipata dalla memoria sulla riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia del 1907, anche questa sequenza è indicativa. Sarebbe troppo lungo nell’economia di questa “galleria”. Per definire il quadro, mi sia consentito di sostare per un istante su di un evento del 1942.

Il trentatreenne professor Norberto Bobbio, invitato a Roma per tenere una conferenza su “La filosofia del diritto in Italia nella seconda metà del Secolo XIX”, è perentorio: “In quel periodo la Filosofia del diritto (…) fu una disciplina esclusivamente scolastica, cioè sorta dalla scuola, rivolta ai fini dell’educazione”, e precisa: “La letteratura filosofico-giuridica è per gran parte di natura manualistica: dunque una filosofia per la scuola con tutti i difetti che a una filosofia scolastica sono inerenti, completezza che va a scapito della genuinità, sistematicità che soffoca la spontaneità, genericità che sa di formula e di imparaticcio, filosofia ad uso dei giovani, il che vuol dire, senza che magari si voglia confessarlo, filosofia attenuata o timorata o saggia o prudente o civile; filosofia in una parola che mi pare colga non soltanto il tono ma anche la sostanza: didascalica”. Per capire la critica del giovane Bobbio si dovrebbe ricordare come avesse di mira una comunicazione del Filomusi Guelfi al Congresso internazionale di filosofia di Bologna del 1911, ma la cosa risulta più trasparente e suggestiva se non si dimenticano la data e il nome del padron di casa nell’Istituto di Filosofia del diritto dell’allora Regia Università di Roma dove Bobbio è ospite e conclude il suo dire con un testuale richiamo “a quel rinascimento idealistico del nuovo secolo che nel nostro particolare campo di studi sarà iniziato, stimolato e, quel ch’è di più, criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio”. In tempi successivi Bobbio sarebbe stato meno prodigo di lodi per Del Vecchio, ma questo non centra ..

Il “rinascimento idealistico”, antitetico alla “scolastica didascalica” di prima, veniva salutato come benvenuto perché grazie ad esso “la filosofia del diritto, rinascendo, ebbe modo di comprendere quello che non le apparteneva e di rigettarlo (…): la teoria generale del diritto, somma enciclopedica dei concetti generali d’ogni ordinamento giuridico” da affidare ai giuristi e da farsi “con mentalità positiva e con rigore scientifico”, e poté affermarsi “come ricerca dell’unico problema che è suo, il problema della giustizia”. Gli elementi per definire il quadro, semplificando, ci sono tutti. All’insegna della rinascita filosofica, quasi una rivendicazione corporativa stando ai tempi, l’idealismo, e rimaniamo sul generico, senza per questo voler contraddire il Piovani, considerato che ad esso viene ricondotto anche un Del Vecchio, che è più noto come neo-kantiano se non come giusnaturalista, ma tant’è, in un certo momento storico idealismo era sinonimo di filosofia e per essere presi in considerazione come filosofi bisognava in qualche modo collegarsi ad esso, insomma, all’insegna della pura e incontaminata filosofia, l’idealismo bolla la filosofia di stampo ottocentesco, “scolastica e didascalica” e insieme, sebbene in modo più sommesso e implicito, riduce la giurisprudenza a scienza sociale, dalla struttura convenzionale e dal valore puramente operativo o strumentale che dir si voglia. Strumentale e servente le forze di fatto dominanti la società. D’altra parte, ridotta la teoria generale del diritto ad “enciclopedia” delle convenzioni generali operanti nel sistema normativo, da trattarsi da parte delle scienze del diritto in termini rigorosamente ed esclusivamente filologici, l’idealismo promuove il rinascimento della filosofia del diritto come pura teoria della giustizia, ineluttabilmente destinata a tradursi in ideologia.

L’itinerario prospettato da Norberto Bobbio è significativo, per quello che dice e per come si contraddice. Le premesse per il divorzio tra filosofia e giurisprudenza ci sono tutte. Come ci sono le premesse per la riduzione della giurisprudenza a mera tecnica del controllo sociale e della filosofia del diritto a ideologia politica. E in questo quadro sono possibili, come in realtà poi si sono prodotte, le ibridazioni più diverse e sconcertanti. Tra idealismo giuridico e marxismo. Tra marxismo e positivismo giuridico. Tra positivismo giuridico e idealismo. Per quanto mi sia interrogato non sono riuscito mai a sciogliere il nodo, con tutto quanto di drammatico, ma forse sarebbe più giusto dire di tragico, vi è connesso, dell’affermazione gentiliana, da Giovanni Gentile, che “la legge veramente ingiusta è quella che si abroga e non è più legge”. Ma anche altre ibridazioni sconcertanti, su quella scia, si sarebbe manifestate. Tra storicisti e giusnaturalisti. Tra giusnaturalisti ed analisti. Tra analisti ed ermeneutici. Tra ermeneutici e fenomenologi. E in questa multiforme proliferazione di incerte varianti, derivate dal divorzio di filosofia e giurisprudenza, dalla riduzione della giurisprudenza a mera tecnica del controllo sociale e della filosofia a ideologia politica, come scrive Vittorio Frosini nel suo saggio del ’94, “la dottrina giuridica italiana continua a segnare il passo”!

Già, non mi sono dimenticato del libro dedicato a La lettera e lo spirito della legge da cui si può ricostruire il percorso attraverso il quale Vittorio Frosini è passato attraverso il fuoco dell’idealismo, senza rimanerne scottato, e attraverso le nebbie o i vapori che allo spegnimento di quel fuoco sono succeduti, senza venirne intossicato. A differenza di altri. E la cosa è particolarmente interessante, perché non si deve dimenticare che Frosini si è formato nella cittadella dell’idealismo italiano, frequentando La Sapienza pisana e quindi subendo il fascino di un ambiente che aveva avuto Giovanni Gentile e Santi Romano come capostipiti di una lunga serie di maestri, anche nell’ambito della filosofia del diritto. Se si può dire che Frosini ha definitivamente stabilito i suoi rapporti con l’idealismo nella relazione su “L’idealismo giuridico italiano nel Novecento”, tenuta a Napoli nel 1976 all’ XI Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, nella quale dichiarava, francamente di aver “percorso un certo itinerario mentale, tenendo fermo il principio che l’idealismo giuridico italiano, sull’esempio indicato sia pure in forme diverse da Croce e da Gentile, è consistito in un’opera di dissoluzione del diritto come categoria filosofica e come esperienza del concreto”, con il saggio su “la lettera e lo spirito della legge” del 1994, indica nella concreta esperienza giuridica, quella di cui parlava Capograssi?, il “luogo” radicandosi nel quale quell’itinerario mentale è riuscito a compiersi, dove altri si sono persi in ibride variazioni. La concreta esperienza del rapporto tra giudice e avvocato nel “gioco” del processo. La concreta esperienza delle “operazioni intellettuali ermeneutiche” prescritte per il giudice nell’art. 12 delle Preleggi. La concreta esperienza della “preordinazione dell’azione amministrativa alla realizzazione dell’interesse pubblico” nell’opera del funzionario. La concreta esperienza del procedimento di tutela degli “interessi legittimi” del contribuente nel giudizio presso le Commissioni tributarie. La concreta esperienza dell’incontro delle volontà individuali nel negozio. Ma anche la concreta esperienza della formazione delle leggi, o come preferisce dire del “messaggio legislativo, che non segue uno schema unitario ma incontra, quale che sia lo schema seguito, i medesimi problemi di chiarezza, di coerenza, di ragionevolezza, in una parola di fattibilità.

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