Vittorio Frosini
di Francesco Gentile
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È sorprendente quante cose si possono trovare in un piccolo libro, com’è quello di Vittorio Frosini intitolato La lettera e lo spirito della legge [1], elegante e discreto, che si lascia contenere nella tasca della giacca e che quindi può accompagnare anche fuori dai luoghi deputati istituzionalmente allo studio, “in viaggio” o, per dirla con Cicerone, “in otium veniens”.
Quante suggestioni ma anche quante provocazioni! In questa “galleria” vorrei attirare l’attenzione e rilevare quelle che riguardano specificamente la filosofia del diritto nel duplice senso di momento della ricerca e di disciplina accademica. Non per una particolare e ossessiva mania professionale, che peraltro non si può escludere in un “vecchio professore” come sono io, e neppure per una particolare malizia di lettore, che peraltro non si può escludere in un “vecchio lettore” come io sono, ma perché è lo stesso Frosini a presentare il suo lavoro del 1994 in continuità con un suo fortunato saggio del 1953, intitolato Lo Spirito e la lettera della legge[2]. Dove sviluppava una “vivace polemica” nei confronti della filosofia analitica della cosiddetta scuola oxoniense. Essendo stato, come ricorda nel libro del ’93, sodale di alcuni fra i più rappresentativi pensatori di quella Scuola, ospite del Magdalen College, per studiare sotto la guida di John D. Mabbot, la filosofia politica dei neo-hegeliani di Oxford. E, appunto in continuità con la polemica del ‘53, Frosini presenta il suo lavoro di quarant’anni dopo come “una riflessione critica sulla metodologia ermeneutica nella odierna filosofia e teoria generale del diritto in Italia”, formulando sin dall’inizio, in termini garbati ma critici, un giudizio composto ma sostanzialmente severo nei confronti della dottrina giuridica italiana che, sono parole sue, “continua a segnare il passo”.
Secondo Frosini, la dottrina del diritto italiana continua a segnare il passo, da un lato, per “la riduzione della filosofia del diritto all’analisi linguistica”, per lo più ripetitivamente dopo Tarello e Scarpelli, e, dall’altro, per il rimpanucciamento nelle vesti di “un eclettismo composito” del vecchio giusnaturalismo. Quanto al resto della produzione, piuttosto “sfuocato”, molta cautela nel prendere posizione “ideologica e metodologica”, commenti al pensiero altrui, “scarso impegno ad affrontare nel vivo i problemi giuridici”. In realtà quello che sta a cuore a Frosini, nel ’53 come nel ’94, è il rapporto tra filosofia e giurisprudenza. E, d’altronde, com’era intitolato il volumetto nel quale apparve il primo saggio sullo spirito e la lettera della legge se non proprio Filosofia e giurisprudenza[3]? La polemicità e l’irruenza del giovane Frosini possono illuminare la composta severità del Frosini maturo: “Il dialogo, che da sì lungo tempo nella storia dell’umanità si conduce tra i filosofi che, meditando sul mondo civile, si soffermano a considerarne quell’aspetto precipuo che è il diritto, ed i giuristi che, dalle formole delle loro leggi, vogliono innalzarsi ad intenderne la ragione, quel dialogo è dunque stavolta, a metà del nostro secolo (il Secolo XX), sul punto di cessare, e per sempre? Percorso insieme un lungo itinerario metale, a volta interrotto a causa di litigi, ma altre volte anche ameno in grazia alla compagnia, sembra che filosofi e giuristi stiano ora per separarsi in concorde discordia, essendosi infine trovati d’accordo nel riconoscere, come ultima verità della filosofia del diritto, l’inutilità della stessa”.
È superfluo notare come dietro a questa affermazione vi sia tutta la polemica delle “tendenze antifilosofiche della giurisprudenza moderna in Italia”, come diremmo per comodità col titolo di un saggio di Cammarata del 1922, apparso sulla Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto con altri di Carnelutti e di Bonfante, di Levi e di Maggiore. Ma anche un bilancio della filosofia del diritto d’impronta idealistica. Bilancio che saremmo tentati di definire con la formula usata da Croce per stigmatizzare il tentativo di “innalzare a filosofia” il ragionamento della giurisprudenza, “fatto di convenzioni e finzioni”, uno “spasmo di acume vuoto”. Ma andiamo con ordine.
Che cosa avrebbe condotto filosofi e giuristi, in “concorde discordia”, ad affermare l’inutilità della filosofia del diritto? Continua, testualmente, il giovane Frosini: “Ci si sarebbe dunque finalmente accorti che giuristi e filosofi, dialogando fra loro, facevano uso non dello stesso linguaggio, ma di due linguaggi diversi, o meglio d’un linguaggio (i giuristi) e d’un superlinguaggio (i filosofi), che si mescolavano ibridamente insieme: onde tutte le più strambe o addirittura ridicole conseguenze”. Tornano alla mente altre formule crociane: “strano miscuglio”, “sconcia combinazione”, “groviglio di difficoltà”.
Il giovane Frosini, però, affonda ben più profondamente il “rasoio critico” e la cosa diventa estremamente interessante. Scrive: “Il primo punto fermo, che si sarebbe stabilito, secondo i nuovi teorici, sarebbe proprio questo: che al di là del linguaggio (…) non ci sarebbe proprio nulla. Non più il pensiero che si fa linguaggio, e il linguaggio che si fa, di nuovo pensiero: l’idea che si riflette nella espressione, e, come il raggio di luce che si rifrange, torna a se stessa. Ma il pensiero che tutt’uno col linguaggio, il linguaggio che definisce se stesso con un altro nome”. Che i filosofi si compiacciano di questo “nulla” che è il “nome di un nome”, passi. Già ne ha parlato Platone nel Sofista. Dal tempo di Aristofane, poi, i comici si sono divertiti con un soggetto tanto ameno. Meno edificante per quanti si professano “filosofi”, ossia amanti del sapere, verificare che dei colleghi dicano “seriamente” ciò che i comici sostengono “scherzando” alle loro spalle. Ma la cosa più grave è che, in virtù di quella “concorde discordia” circa l’inutilità della filosofia del diritto, anche per i giuristi vi sono delle conseguenze sconcertanti. Scrive sempre il giovane Fosini: “Poiché il diritto, col suo apparato verbale di rights, duties, e di torts, è semplicemente una particolare applicazione del linguaggio come mezzo di controllo sociale (G. Williams), anche il giurista avrebbe un compito simile: l’analisi del linguaggio, lo scarto della moneta-linguaggio che non sia quella riconosciuta e che gli è stata fornita dalle proposizioni normative attraverso cui si esprime il legislatore (N. Bobbio). Bando perciò al corso forzoso della moneta adulterata, come sarebbe il c. d. diritto naturale. Allora, ecco la giurisprudenza ridursi, o piuttosto definirsi, come filologia del diritto; e alla pari della filologia pura, anch’essa trattare il suo proprio oggetto – le parole di una norma di legge – con scientifico distacco e scientifico scrupolo. E come il fisiologo ed il medico si occupano del corpo, senza curarsi della anima; e l’astronomo studia il cielo, senza che gli occorra fingersi l’ipotesi di Dio; così. Ecco la nuova giurisprudenza compiere anch’essa l’esorcismo del fantasma, e scacciarlo: ecco cioè la tentata riduzione dello spirito alla lettera della legge”. La metafora del fantasma, per designare lo spirito, è tratta da Ryle: “A gost in the machine”[4]. E qui il giovane Frosini spara brutalmente una citazione, di cui lascerò al lettore immaginare o ricercare la fonte: “In effetti, anche la cosiddetta interpretazione della mens è una interpretazione di verba … In sostanza, anche l’interpretazione dell’intenzione che ormai abitualmente si chiama logica, è un’interpretazione grammaticale … il giurista non fa che fissare la grammatica di quel particolare linguaggio che è il linguaggio di quel particolare legislatore”. Grammatica, attenzione, neppure sintassi!
Epitaffio più elegante non poteva essere confezionato per la tomba della filosofia del diritto, e per i filosofi del diritto dell’accademia si sarebbe potuto pensare ad un riciclaggio, magari ope legis, in sociologi o informatici, ma di epitaffio si tratta anche, e soprattutto, per la giurisprudenza, almeno per quella di cui abbiamo appreso i connotati dal Digesto (1, 1, 1), dove dalle parole di Ulpiano siamo stati edotti del fatto che i giuristi, per loro natura, sono “veram, nisi fallor, non simulatam philosophiam affectantes”. Già, veram, non simulatam, philosophiam … Ma andiamo avanti.
A questo punto il lettore protesterà che tra il ’53 e il ’94 sono trascorsi quarant’anni, un’eternità nel Secolo XX. Ma è proprio questo che il Frosini maturo vuol dire, che in questa “eternità” la dottrina giuridica italiana ha continuato a “segnare il passo”, per la riduzione della filosofia del diritto all’analisi linguistica e per la pavidità di quanti, tra i filosofi del diritto, pur non essendosi ridotti ad analisti non hanno tuttavia saputo farsi carico di rinnovare la “grandiosa funzione esercitata dalla dottrina del diritto naturale, poi chiamato anche diritto razionale. (…) Giacché il giusnaturalismo, che pure è stato inteso come criterio di giustificazione, morale e religiosa, delle leggi positive, è stato anche un esercizio di continua, costante e coerente interpretazione delle leggi, di ricerca dello spirito della legge considerato come l’insieme dei valori supremi della convivenza civile”. Ecco perché il saggio su La lettera e lo spirito della legge può essere considerato cardinale nella produzione di Frosini, perché colloca l’ Autore nel disegno della filosofia del diritto italiana dell’ultimo secolo di cui, paradossalmente, non tratta in maniera tematica, e nel medesimo tempo fornisce senza esplicitamente definirla la chiave interpretativa del suo, di Frosini, itinerario speculativo. Ed è quanto mi propongo qui di mettere in evidenza, per rapidissimi tratti, per impressioni fugaci piuttosto che per dimostrazioni puntuali.
È intorno alla metà dell’Ottocento che la Filosofia del diritto comincia a trovare un posto nell’ambito degli studi legali, non solo “come un lusso accademico estraneo ad un corso regolare” ma perché riconosciuta “come la madre di tutte le altre discipline giuridiche”. Così scrive, nel 1858, Pasquale Stanislao Mancini. E questo è accaduto per le vie e nei modi più diversi: dalla Filosofia teoretica e pratica con Baroli a Pavia, ma anche dal Diritto e processo penale, filosofico e positivo con Nova sempre a Pavia, o dalle Pandette con Del Rosso a Pisa.
Appena affacciatasi sulla scena degli studi legali, la Filosofia del diritto si trova in un ginepraio, dovendosi “fare largo” ma anche “misurarsi”, stabilendo comunanze e diversità, con gli insegnamenti di Diritto naturale e di Enciclopedia del diritto, tra naturalischer ed antropologischer Grundlage nonché in rapporto all’Etica, auf dem Grunde des ethiscen Zusammenhanges. Uso le formule tedesche che si trovano, successivamente, nei sottotitoli di alcune tra le 22 edizioni, di cui quattro in italiano, di un libro famoso: il Corso di Diritto naturale o di filosofia del diritto di Henri Ahrens, perché si tratta di un libro la cui storia, dalla prima all’ultima edizione (1837-1892) si confonde con la storia della filosofia del diritto ai suoi albori, sollecitata dalla stessa esperienza giuridica, fluttuante tra ordine morale e vita economica. Ma anche perché, come risulta dall’ultima edizione curata personalmente dall’Autore prima della morte (1868), mettono in chiaro come l’identità della disciplina, nel ginepraio in cui si trovava tra spiritualismo e utilitarismo, appare essenzialmente dalla sua “funzione educativa”.
“La grave situazione politica in cui stanno quasi tutti i paesi civili (…), la perturbazione di tutte le idee morali che tanto chiaramente si manifesta nelle deplorevoli tendenze più o meno materialistiche (…), mi hanno spinto – scrive Ahrens – a determinare ancor meglio il principio del diritto nel suo carattere razionale (…) ed a mostrare, mediante cenni storici, che tutto l’ordine del diritto, come anche tutte le istituzioni e forme dello Stato, sono un riflesso di tutte le forze e di tutte le tendenze che agiscono nell’ordine intellettuale della società e che le condizioni essenziali alla libertà privata e pubblica non si trovano che in una azione potente delle idee e delle convinzioni morali nel seno di una società”. Ma Ahrens si spinge anche più innanzi, indicando le modalità di esplicazione di questa paideia cui è chiamata la Filosofia del diritto nell’ambito di un Corso di Giurisprudenza.