“La gestione delle crisi nell’Unione Europea e le giurisdizioni nazionali” *
di Gaetano Marini
Mentre lo statuto di EUROFOR, fatto a Roma il 5 luglio 2000, con trattato fra Spagna, Francia, Italia e Portogallo, stabilisce la giurisdizione prioritaria dello Stato di origine sui membri della Forza per i reati dolosi e colposi commessi in servizio nel territorio dello Stato di accoglienza.
Ciò, salvo che vi sia rinuncia dell’uno nei confronti dell’altro Stato, che deve essere notificata ed accettata.[15]
Notiamo che questa regola dello statuto di EUROFOR è quasi la fotocopia di una disposizione formulata da oltre un cinquantennio nel SOFA della NATO.[16]
Si tratta dell’antico paradigma della “loi du drapeau” che fissa il principio secondo cui “le droit suit l’étendard”.
Questo principio è il simbolo più tangibile della riserva statuale di sovranità in ambito penale che lo Stato tende ad esportare con le proprie forze armate.
Ma può ancora funzionare quando le bandiere, vale a dire le sovranità, si intrecciano all’interno di una forza multinazionale?
Evidentemente, questo intreccio non risolve ma produce potenziali conflitti senza possibilità di risoluzione tra le giurisdizioni di bandiera.
A questo riguardo, è vero che negli Statuti della NATO e di EUROFOR è prevista la possibilità della rinuncia all’esercizio della giurisdizione. Ma è anche vero che il principio della “loi du drapeau” di solito è affermato nel diritto positivo degli Stati d’Europa, nelle leggi e nelle decisioni dei giudici.
Facciamo tre esempi di diritto penale militare comparato.
L’art. 10 bis del titolo preliminare del codice di procedura penale belga dispone: “toute persone soumise aux lois militaires qui aura commis une infraction quelconque sur le territoire d’un Etat étranger, pourra être poursuivie en Belgique…… ».
L’art. 59 del codice di giustizia militare francese dispone :
“Sous réserve des engagements internationaux, le tribunal aux armées connait des infractions de toute nature commises hors du territoire de la République par les membres des forces armées….”.
L’art. 9 del codice penale militare di guerra italiano dispone :
“….sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate…..”.
Si tratta apparentemente di un vicolo cieco.
Ma vediamo la cosa da un punto di vista più generale.
2. Quali giudici ?
Per fare il punto, possiamo prendere le mosse da una prima osservazione che riguarda quella che parrebbe la diversa velocità alla quale stanno marciando la macchina militare ed il presidio penalistico a proposito delle operazioni condotte nel quadro prospettico della difesa comune.
Il presidio penalistico, lo abbiamo visto, è ancorato al principio della “loi du drapeau” e questo principio, nella sua versione assoluta, appartiene senza possibilità di mediazione all’universo della sovranità.[17]
Si tratta di un paradigma autoreferenziale che di conseguenza dovrebbe trovare non poche difficoltà nel proporsi come criterio regolativo delle interferenze di tipo orizzontale tra le diverse giurisdizioni di bandiera coinvolte nelle operazioni di una forza multinazionale, quale che sia.
Ma vediamo come si presenta la difesa comune europea.
Qual è l’attuale stato dei lavori?
Ebbene, ci troviamo di fronte a un sistema in fieri che tuttavia non è solo teorico perché le indicazioni espresse a questo riguardo nella prospettiva della politica europea di sicurezza e di difesa, disegnata nel trattato UE, ricevono una concreta esplicazione nella effettività della prassi, vale a dire, nella realtà delle operazioni militari all’estero.
Da questo punto di vista, le cose stanno cambiando rapidamente perché l’urgenza drammatica di questa realtà ha già indotto a creare strutture militari di comando che delineano il futuro prossimo se non il presente dell’esercito europeo.
Alludiamo ai rapporti che non sono solo di consulenza ma anche di direzione e che, dunque, si iscrivono in un quadro gerarchico di riferimento che possiamo tracciare fra organismi di recente istituzione: il Comitato Militare dell’UE (CMUE)[18], che è composto dai capi di stato maggiore della difesa; lo Stato Maggiore dell’UE (SMUE)[19], che è il diretto supporto del Consiglio in ambito militare.
Parrebbe evidente la tendenziale struttura unitaria e piramidale di questi primi meccanismi d’impiego dell’apparato militare in cui consiste la dimensione esecutiva del sistema di difesa europeo che fa capo al Consiglio.
Notiamo invece che nel corrispondente quadro giudiziario non vi è nulla di simile a questa tipologia avanzata di modelli con vocazione all’unità sul piano operativo. Vale a dire che, oggi, non è ipotizzabile neppure come progetto un autentico sistema comune di giustizia per la tutela penale e per il controllo di legalità dell’operato dell’ Esercito europeo in fieri.
Ciò che si presenta alla nostra riflessione è un insieme disarticolato di microsistemi penali che si intrecciano nelle situazioni di comune coinvolgimento senza tuttavia comunicare.
Paradossalmente, l’opzione unilaterale degli Stati per il principio della legge di bandiera è l’unico punto di riferimento certo nella incertezza data dalla complessità di fonti che inevitabilmente tendono a sovrapporsi. Ma, lo abbiamo già visto, si tratta solo della certezza che per questa via si potrebbe aprire una serie infinita di conflitti senza soluzione tra giurisdizioni di bandiera che si pretendono egualmente competenti.
Bisogna prenderne atto ma in modo non acritico perché altrimenti questa relazione rischierebbe di restare senza oggetto ovvero di ridursi ad una pura rassegna di dati ripetitivi o di tentativi inconclusi dedotti dalla storia del lungo itinerario percorso verso una identità europea, anche giuridica, nel settore della difesa.
Tra questi esperimenti non riusciti quello che appare più emblematico è il progetto, rimasto sulla carta, di una Comunità europea di difesa.
In particolare, il protocollo giurisdizionale al trattato CED del 1952 configurava, sul piano astratto, un primo nucleo comune di norme penali sostantive e processuali concernenti i membri delle forze armate di difesa ed assegnava anche ai tribunali nazionali un certo ruolo nell’applicazione di norme penali sovranazionali.[20]
Si tratta di un discorso dal quale forse sarebbe utile ripartire considerando le sottili analogie che questa soluzione flessibile ed anticipatrice presenta rispetto alle più recenti opzioni in materia di riparto della giurisdizione fra giudici nazionali ed internazionali.
Alludiamo al criterio di complementarità[21] al quale lo Statuto della Corte penale internazionale affida il compito di regolare le interferenze di tipo verticale tra giurisdizioni, stabilendo il principio secondo cui la giurisdizione internazionale interviene solo nel caso di indisponibilità o impossibilità della giurisdizione nazionale competente.
Incidentalmente, dobbiamo precisare che nella scelta di questo principio non vediamo una sorta di rivincita degli Stati nei confronti della giurisdizione internazionale o, specularmente, un passo indietro della Corte.
In altri termini, non vi è qui la riedizione del concetto di sovranità teorizzato nel seicento da Hobbes e Bodin[22], con l’immagine icastica di un potere assoluto dipendente solo dalla spada; non vi è il recupero della prospettiva hegeliana che nell’ ottocento divinizza lo Stato come realizzazione dello spirito nel mondo.[23]
Certo, sarebbe difficile negare che questo dogma statualistico sia stato realmente messo in causa nel novecento solo dalla effettiva esistenza di una giurisdizione internazionale penale basata sul riconoscimento della responsabilità internazionale degli individui. Ciò che, ad esempio, non è accaduto con le costruzioni dottrinarie di Kelsen, il quale ha vanamente cercato di sbarazzarsi del problema della sovranità ricorrendo alle immediate ma astratte identificazioni fra diritto nazionale ed internazionale.[24]
Tuttavia, a nostro parere, non occorre disconoscere i meriti acquisiti sul campo dalla giurisdizione internazionale per credere che il paradigma della complementarità lasci emergere e valorizzi il duplice ruolo nazionale-internazionale esercitato per questa via dal giudice penale competente. Potremmo dire, dal giudice naturale precostituito per legge, usando le parole scritte nell’art. 25 della Costituzione italiana.
Specifichiamo meglio. Grazie alla opzione per la complementarità, non si rischia di cadere nella ottica onnicomprensiva del monismo kelseniano ma neppure di assolutizzare lo Stato, come accade ad Hegel ed al veteropositivismo che raccoglie questa eredità hegeliana.[25]
Si tratta di un autentico paradigma intermedio che permette di uscire dalla logica apparente che attraversa il dibattito delle Scuole, finendo per identificare astrattamente ovvero per separare radicalmente diritto internazionale e diritto nazionale.
Si tratta dunque di un modo realistico per dare una risposta fondata sulla condivisione di responsabilità alle domande poste dalle ragioni di una dimensione penale complessa. Con una formula di sintesi, potremmo dire che nella prospettiva complementare o sussidiaria disegnata dallo Statuto della Corte penale internazionale, diventa possibile che un popolo offeso dai crimini più gravi celebri il processo se lo vuole e se può. Altrimenti, può contare sull’ausilio, non sulla primazia della giurisdizione internazionale.
Possiamo ora rielaborare molto rapidamente questi dati per trarne una indicazione consequenziale da cui emergeranno nuove domande.
Abbiamo esaminato sia il paradigma antico della “loi du drapeau”, che nella sua espressione pura utilizza il linguaggio del Sovrano, sia il recente paradigma intermedio della complementarità, che appare omogeneo al quadro normativo complesso nel quale sta prendendo progressivamente corpo la difesa comune europea.