“La gestione delle crisi nell’Unione Europea e le giurisdizioni nazionali” *
di Gaetano Marini
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1. Quali norme? Quali paradigmi?
Che cosa significa tematizzare la materia della gestione delle crisi nel quadro europeo e, più in generale, delle nuove strategie d’intervento comune per la pace, che oggi e da più di un decennio coinvolgono una pluralità di Stati, uniti da un progetto di cooperazione?
Significa anzitutto accostarsi ad un terreno fecondo per una riflessione penalistica in qualche modo al confine con una sorta di epistemologia della complessità. 1
Significa tuttavia porre e porsi una serie di problemi aperti che difficilmente parrebbero definibili con gli strumenti della logica tradizionale binaria.2
Vale a dire che alla logica secondo cui “tertium non datur” tra due identità contrapposte o, più sinteticamente, alla logica del “terzo escluso” non appaiono davvero congeniali terminologie che ci parlano di interazioni e implicazioni tra fonti sovrapposte e frammentate.3
Sono queste le definizioni utilizzate più frequentemente per descrivere lo scenario ambiguo nel quale si iscrive quella sorta di “entre-deux” normativo che caratterizza le diverse forme di cooperazione delle armi per la pace nel mondo.
Sono le definizioni che abbiamo sentito sovente nel corso del seminario organizzato in ottobre a San Remo dal prof. Manacorda per il Consiglio della Magistratura Militare Italiana nell’ambito del progetto Grotius II della Commissione Europea su “Peace Keeping” e cooperazione penale.4
Si tratta di uno scenario che potrebbe non apparire del tutto rassicurante per i soggetti che, a qualunque titolo, partecipano a queste missioni, perché provoca l’emersione di un diritto penale incerto che non rende sempre le cose facili da un punto di vista operativo.
Si può fare un esempio che riguarda le possibili intersezioni tra fonti eterogenee dell’ordinamento e nell’ordinamento italiano. Notiamo che attualmente il nostro personale militare partecipante alle missioni “Enduring Freedom” in Afghanistan ed” Isaf” in Iraq è soggetto al codice penale militare di guerra, mentre lo stesso personale impegnato in tutte le altre operazioni internazionali nelle quali l’Italia esercita un ruolo attivo, è soggetto al codice penale militare di pace.5
Ma focalizziamo l’esempio dell’Iraq che più degli altri é denso di spessori problematici. L’ufficiale di polizia giudiziaria italiano, che svolge in questo territorio compiti polivalenti d’istituto in ambito militare e comune, dovrebbe egualmente riferirsi, secondo i casi: alle norme sostanziali del codice militare di guerra e del codice penale; 6 alle norme ordinamentali e processuali del codice penale militare di pace e della legislazione ordinaria7 ; e, finalmente, alle norme del codice iracheno del 1971, ripristinato al venir meno del regime totalitario, almeno nell’esercizio della funzione servente di collaborazione con la polizia locale.
A complicare questo quadro d’insieme, se mai ve ne fosse bisogno, si deve sottolineare che valgono per lo stesso ufficiale di polizia giudiziaria le regole d’ingaggio (ROE) della forza multinazionale8. Queste disposizioni prevedono ad esempio la consegna obbligatoria alle forze inglesi, in vista del cosiddetto interrogatorio tattico -non si sa con quali garanzie- di soggetti non belligeranti come gli iracheni, che siano stati catturati per avere commesso reati, beninteso, anche nei confronti delle forze armate italiane.
Abbiamo tracciato in modo molto approssimativo ma concreto, pensando alle ragioni della prassi, i primi profili di un “entre-deux” normativo tra diritto di guerra e diritto di pace, tra diritto penale comune e diritto penale militare. Ciò senza ignorare, incidentalmente, qualche elemento dissonante rispetto ai consueti modelli penalistici di garanzie.
Che dire di questa bozza di micro-sistema penale per le operazioni internazionali i cui punti di riferimento sono così variabili?
Bisognerà andare più a fondo ma per ora, in attesa di una sistematizzazione più avanzata e organica di questa materia, basta dire che si tratta di una delle possibili risposte, forse della risposta in qualche modo necessaria, per la sua flessibilità, alle domande non univoche di tutela penale poste da una realtà militare in continua trasformazione. Ciò, segnatamente in seguito a quella che appare una autentica rivoluzione copernicana, consacrata nel sangue dell’11 settembre ma risalente agli anni novanta.
Sono anni nei quali siamo stati sollecitati dalla forza delle cose che sono avvenute ed avvengono nel mondo a considerare inappagante la tradizionale concezione statica di difesa strettamente connessa ad un concetto di sovranità radicata nel territorio.
E’così che si è affermata una concezione dinamica di intervento comune da parte di una pluralità di Stati interessati a perseguire l’obiettivo della sicurezza collettiva dovunque si presenti l’esigenza di un controllo delle conflittualità. Vale a dire, in ogni possibile area di crisi, anche la più lontana dai rispettivi confini nazionali.
Questa immagine dinamica di una militarità condivisa al servizio della pace si è sostituita all’immagine classica del militare di sentinella ai confini nazionali ed ha provocato l’emersione di un’area normativa di interferenze tra ordinamenti disomogenei. Tra gli ordinamenti e negli ordinamenti.
Quale è il ruolo giocato dall’ Unione Europea in questa area complessa?
Parrebbe sempre più rilevante. Nel 2003 sono iniziate tre missioni di polizia internazionale del II° pilastro. La prima in Bosnia Erzegovina, con obiettivi non militari di aiuto alla polizia locale9; la seconda, in Macedonia,10 e la terza, nella Repubblica del Congo, con una qualificazione espressamente militare11
Grazie al concreto esplicarsi di questa dimensione operativa condivisa, stiamo attribuendo senso e dando un traguardo al tormentato cammino che porta progressivamente verso la realizzazione della difesa comune.12
Si tratta di una prospettiva già immaginata poco dopo la seconda guerra mondiale ma uscita dalla fase delle astratte formulazioni di principio soltanto negli ultimi anni con la creazione di EUROFOR e degli EUROCORPS.13
Notiamo a questo riguardo che lo scorso ottobre il Consiglio della UE ha fissato i criteri che dovranno ispirare la costituzione delle forze armate europee. Vale a dire, in sintesi: la previsione di cooperazioni strutturate tra avanguardie di Stati, tuttavia aperte all’adesione di altri, secondo meccanismi analoghi a quelli pensati per la moneta unica; la complementarità rispetto alla NATO ; la ratifica delle decisioni operative da parte del Consiglio. Si vedrà se all’unanimità ovvero a maggioranza, come è auspicabile se si vuole veramente che questa difesa comune sia effettiva e non paralizzata già alla sua nascita.
Questo significa che stiamo procedendo velocemente verso la realizzazione di un contesto nel quale potrà risultare ancora più sottolineata la complessità data dalle interferenze normative tra ordinamenti diversi.
Che cosa cambia per i cittadini militari di una pluralità di paesi che in passato hanno operato nell’ambito di un’organizzazione precaria determinata dalle decisioni del momento?
Nel quadro di una difesa comune che sia effettiva e non solo sulla carta essi saranno partecipi di una organizzazione militare, almeno embrionalmente predeterminata al modo di un esercito, ma rimarranno portatori delle originali diversità di costume anche giuridico.
Dunque, questi cittadini degli Stati e dell’Europa avranno più frequenti occasioni per adempiere ai doveri propri dello status militare, ma anche per commettere reati, ad esempio, in concorso tra loro ovvero gli uni nei confronti degli altri.
Vale a dire che si moltiplicheranno le potenzialità di episodi penalmente rilevanti concernenti militari di nazionalità diverse che già oggi sono ipotizzabili in uno dei qualsiasi teatri operativi nei quali è impegnata una forza multinazionale.
Di conseguenza, saranno moltiplicate le ipotesi di conflitto di giurisdizioni che d’altra parte già oggi possono realizzarsi nel caso di reati commessi in servizio da soggetti che appartengono a comunità politiche distinte dell’Unione ma, nello stesso tempo, alla Forza multinazionale europea (EUROFOR).
Siamo preparati a raccogliere questa sfida? Vale a dire, possiamo trovare gli strumenti per la risoluzione di questi conflitti nel materiale normativo del diritto dell’ Unione europea?
Ebbene, non troviamo alcuna prescrizione a questo proposito tra le più recenti norme di diritto derivato concernenti le operazioni militari dell’Unione in materia di politica europea di sicurezza e di difesa: azioni comuni, posizioni comuni e decisioni del Consiglio.
Non vi sono indicazioni nelle Draft guidelines che peraltro sono regole vaghe ed incerte alle quali si può derogare.[14]