Nuova Costituzione:
tra casa comune e dominio delle maggioranze [1]
di Francesco Gentile

“La verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale della politica”.

L’espressione “compromesso”, nel lessico oggi corrente, si è andata caricando surrettiziamente di connotazioni affaristiche, sa di calcolo, di rattoppo, di ripiego, e perciò fa arricciare il naso ai moralisti, per quella sua puzza di relativismo. Non è certo in questo senso, distorto, che ne parla il cardinale Ratzinger, il quale nell’omelia della Santa Messa pro eligendo Romano Pontifice, il 18 aprile scorso, ha con chiarezza descritto, come non è sfuggito a nessuno, i danni provocati all’uomo dal relativismo, quel “lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, denunciandone fermamente la dittatura “che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”[6]. In realtà basterebbe l’etimo a ricordare che “compromesso” deriva dal termine latino compromissum, in cui si fondono l’impegno della promessa e la reciprocità del rapporto, quanto di più distante vi possa essere dall’idea del ripiego, del rattoppo, del calcolo affaristico. Ché anzi, significando tecnicamente da un punto di vista giuridico l’impegno a rimettersi al giudizio imparziale di un arbitro, il compromesso implicitamente esige senza riserve la disposizione a dar credito alle ragioni altrui non assolutizzando, autarchicamente, le proprie, la disposizione a sacrificare i propri interessi immediati in funzione del bene di tutti, la disposizione ad aprirsi agli altri sulla base dell’intelligenza del bene comune che altro non è se non l’intelligenza in comune del Bene. Ed è puntualmente su quest’ultimo aspetto del compromesso che il cardinale Ratzinger attira l’attenzione, quando lo contrappone come “vera morale della politica” al moralismo dell’avventura per il quale l’uomo “intende realizzare da sé le cose di Dio”. In un’altra celebre omelia, tenuta il 26 novembre 1981 durante una liturgia per i deputati cattolici del parlamento tedesco nella chiesa di San Winfried a Bonn, commentando la prima lettera di Pietro, che definisce i cristiani come “dispersi” o stranieri nello stato, dell’impero di Nerone e di Domiziano si trattava allora, e denomina lo stato stesso come “Babilonia”, dall’esilio del popolo di Israele, il cardinale Ratzinger parla del “primo servizio che la fede cristiana fa alla politica” avendo “distrutto il mito dello stato divino, il mito dello stato-paradiso e della società senza dominio o potere” e collocando al suo posto “il realismo della ragione”. “Lo stato non è la totalità dell’esistenza umana – scrive – e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di stato. Lo stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale[7] – e, più avanti, precisa – ma ciò non significa che la fede abbia portato un realismo libero da valori, il realismo della statistica e della pura fisica sociale. Al vero realismo dell’uomo appartiene l’umanesimo e all’umanesimo appartiene Dio. Alla vera ragione umana appartiene la morale, che si alimenta ai comandamenti di Dio. Questa morale non è un affare privato. Ha valore e importanza pubblica. Non può esistere una buona politica senza il bene del buon essere e del buon agire. Ciò che la Chiesa perseguitata aveva prescritto ai cristiani come nucleo centrale del loro ethos politico, dev’essere anche l’essenza di un’attività politica cristiana: solo là dove il bene si fa e si riconosce come bene, può anche prosperare una buona convivenza tra gli uomini”[8].

Tornando al nostro tema, non possiamo non riconoscere come a propiziare questo nobile “compromesso”, espressione di un autentico “realismo della ragione”, nell’Assemblea Costituente dove si fronteggiavano le due principali varianti del moderno “moralismo dell’avventura”, quella individualistica e quella comunistica, abbiano contribuito in maniera determinante dei cattolici che non avevano paura di rivendicare di esserlo, cattolici, e che nell’esserlo, cattolici, fondavano la ragione della loro presenza nell’istituzione politica. Con i limiti, le debolezze, le fragilità ma anche l’energia, la forza, la nobiltà dell’umano.

Preparandomi a questo incontro del Meeting, convocato all’insegna di “uno dei doni più preziosi che i cieli abbiano concesso agli uomini”: la libertà, sono andato a rileggere un celebre discorso tenuto, nella primavera del 1946, in vista delle elezioni per l’Assemblea Costituente e allo scopo di tracciare le linee guida per la realizzazione della futura Carta, da un politico certamente cattolico: Guido Gonella. Si tratta del discorso c. d. delle 27 libertà. C’è davvero di che meditare.

Sulla riforma delle istituzioni: “O riformiamo lo stato o cadremo in una nuova esperienza dittatoriale – scrive Gonella nel ’46 – la dittatura non è una novità inventata dal fascismo, ma una malattia cronica di varie età della politica italiana”.

Sulla capacità di nobile compromesso: “La Costituzione, se vuole costituire qualche cosa di stabile, deve trovare il terreno per la riconciliazione degli italiani nella costruzione di uno stato nuovo, deve segnare la fine degli odi tra fratelli”.

Sullo specifico impegno dei cattolici: “Il Cristianesimo è lievito della civiltà politica, e la vita del cristiano, sempre contraddetta e pur sempre in-faticata, è il sostegno della società; la quale, per quanto decadente, senza Cristo non potrebbe neppure essere detta barbara perché mancherebbe il criterio e il metro necessario per misurarne la barbarie”[9].

Anche oggi, per la riforma della Costituzione, la politica ha bisogno di trasfusioni di fede; ma non dobbiamo dimenticare che oggi più che mai i politici sono esposti alla seduzione di trasformare il senso dello stato in fede, in una fede senza Dio, cedervi significherebbe lasciarsi sprofondare nella tirannia più oscura e soffocante. Ai cattolici la responsabilità di resistere a questa seduzione e l’impegno di trasfondere in politica la loro fede.

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[1] Intervento all’incontro “Nuova Costituzione: tra casa comune e dominio delle maggioranze” organizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà al XXVI Meeting di Rimini, martedì 23 agosto 2005, con la partecipazione di Salvo Andò, Augusto Barbera, Mario Bertolissi, Francesco Gentile e con l’introduzione di Luca Antonini.

[2] Costituzione criticata, Scritti di Ferrari, Capograssi, Calamandrei, Basso, Lussu, Croce, Cajumi, Ranelletti, Messineo, Virga, Zanzucchi, Giannini, D’Agostino, Orlando, Bon Valsassina, Tesauro, Costamagna, De Valles, Balladore Pallieri, Sturzo, Baget Bozzo, Nitti, Jemolo, Salvemini, Vinciguerra, Maranini, Spirito, Ruini, Gonella, Corradini, Crisafulli, Miglio, Rebuffa, Quadrio Curzio, Padoa Schioppa e Lami, a cura di F. Gentile e P.G. Grasso, Napoli 1999, pp.485.

[3] Dalla Relazione finale del Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali (nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 luglio 1994, ai sensi dell’articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400), Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995, pp. 11-12.

[4] Che vi siano anche degli elementi di novità e di autentico progresso non si può negare, come nota opportunamente Luca Antonini. “La riforma costituzionale approvata in prima deliberazione dal Senato (AC 4862) contiene, infatti, un’importante evoluzione. Il nuovo articolo 118 prevede ora: ‘Stato, Regioni, Città metropolitane, Provincie e Comuni riconoscono e favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Essi riconoscono e favoriscono altresì l’autonoma iniziativa degli enti di autonomia funzionale per la medesima attività e sulla base del medesimo principio’. (..) La riforma del titolo V aveva introdotto la sussidiarietà orizzontale; ed è stato un passo importante con ricadute concrete: la sussidiarietà, ad esempio, è stata alla base della sentenza n. 301/2003 della Consulta sulle fondazioni bancarie, valorizzate come soggetti espressivi delle ‘libertà sociali’. (..) Nella nuova formulazione quella ‘larva’ di sussidiarietà diventa ‘farfalla’ perché utilizza il verbo ‘riconoscere’ che la Costituzione dispone anche per i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.)” (L. ANTONINI, Sussidiarietà fiscale, la frontiera della democrazia, Ed. Guerini e associati, Milano 2005, pp. 80-81)

[5] L‘accusa di essere frutto d’un compromesso è quella più ricorrente tra le critiche raccolte nel volumetto Costituzione criticata, più sopra citato: appare anche testualmente in quelle di Calamandrei, di Lussu, di Cajumi, di Costamagna, di Nitti, di Spirito, di Crisafulli e di Lami. A non considerare un errore il compromesso sono, testualmente, il gesuita Padre Antonio Messineo (cfr. Costituzione criticata, cit., pp. 50 ss.), lo storico Giuseppe Maranini (cfr. Op. cit., pp. 262 ss.) e il giurista Massimo Severo Giannini (cfr. Op. cit., pp. 385 ss,). Un’interessante annotazione sul “clima di conciliazione” in cui la Costituzione sarebbe maturata è avanzata da Arturo Carlo Jemolo (cfr. Op. cit., pp. 313 ss.).

[6] Da “L’Osservatore Romano” del 19 aprile 2005.

[7] A questo proposito, il cardinale Ratzinger, con straordinaria efficacia, illustra l’assunto anche a contrario: “Quando la fede cristiana, la fede in una speranza superiore dell’uomo, decade, insorge allora di nuovo il mito dello stato divino, perché l’uomo non può rinunciare alla totalità della speranza. Anche se simili promesse si atteggiano a progresso e rivendocano per sé in assoluto il concetto di progresso, esse sono, storicamente considerate, una retrocessione a prima della Novità cristiana, una svolta a rovescio della scala della storia. Ed anche se esse vanno propagandando come proprio scopo la perfetta liberazione dell’uomo, l’eliminazione di qualsiasi dominio sull’uomo, sono tuttavia in contraddizione con la verità dell’uomo e in contraddizione con la sua libertà, perché costringono l’uomo a ciò che può fare egli stesso. Una simile politica, che fa del regno di Dio un prodotto della politica e piega la fede sotto il primato universale della politica, è per sua natura politica della schiavitù: è politica mitologica. La fede oppone a questa politica lo sguardo e la misura della ragione cristiana, la quale riconosce ciò che realmente l’uomo è in grado di creare come ordine di libertà e può così trovare un criterio di discrezione, ben sapendo che l’aspettativa superiore dell’uomo sta nelle mani di Dio. Il rifiuto della speranza che è nella fede è, al tempo stesso, un rifiuto al senso di misura della ragione politica. La rinuncia alle speranze mitiche propria della società non tirannica non è rassegnazione, ma lealtà che mantiene l’uomo nella speranza. La speranza mitica del paradiso immanente autarchico può solo condurre l’uomo allo smarrimento: lo smarrimento davati al fallimento delle sue promesse e davanti al grande vuoto che è in agguato; lo smarrimento angoscioso per la propria potenza e crudeltà” (cit. da J. RATZINGER, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Ed. Paoline, Torino 1987, p. 143).

[8] Op. cit., pp. 142-146.

[9] Cfr. G. GONELLA, Il discorso delle 27 libertà, commentato da Mario Bertolissi e Francesco Gentile, Gemma Editco, Verona 2003, pp. 120.

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