Il silenzio amministrativo
Tra rivoluzione e reazione delle istituzioni
di Torquato G. Tasso
Altro principio fondamentale che emerge dalla riforma e che dobbiamo necessariamente considerare è quello cosi detto partecipativo. Risulta, infatti, in un’ottica relazionale tra privato e pubblica amministrazione, necessario sviluppo dei principi appena illustrati l’introduzione dell’obbligo per la pubblica amministrazione di far partecipare, oltre che rendere partecipe, il privato al procedimento che interessa il suo diritto o interesse legittimo ([17]), obbligo che in realtà era già stato introdotto dalla di poco precedente L. 142/90 ([18]) ([19]) ([20]).
Non a caso, il capo III della legge, intitolato "Partecipazione al procedimento" ([21]), viene a regolamentare il diritto riconosciuto al privato di accedere e, conseguentemente, di seguire l’intero iter formativo per provvedimento amministrativo, giungendo addirittura ad affermare il suo pieno diritto di "presentare memorie scritte ([22]) e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento ([23])" e, quindi, contribuire alla formazione del provvedimento ([24]) ([25]).
Da quanto siamo venuti ad illustrare fin qui, comprendiamo, di conseguenza, l’importanza e il relativo significato di altre previsioni normative.
Il privato deve essere innanzi tutto messo in condizione di esercitare gli illustrati diritti. Questo avviene attraverso la comunicazione dell’inizio del procedimento, obbligo che l’Amministrazione ha nei confronti del privato. L’art. 7 infatti dispone che l’inizio del procedimento, e di tutte le relative notizie indicate nell’art. 8, deve essere comunicato "ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi" ed a quei "soggetti individuati o facilmente individuabili", qualora ad essi "possa derivare un pregiudizio" ([26]).
Interessante inoltre è l’art. 9. In esso, infatti, il principio del contraddittorio, unendosi al principio della trasparenza ma soprattutto a quello della responsabilità dell’Amministrazione nei confronti della collettività, viene ad esprimere la possibilità di soggetti portatori "di interessi pubblici o privati nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati" di intervenire nel procedimento onde impedire eventuali pregiudizi. Questa norma amplia notevolmente la portata del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, estendendolo anche a soggetti portatori di interessi non strettamente personali; inoltre viene ad ampliare notevolmente anche la sfera degli interessi legittimi tutelabili nel nostro sistema, nei confronti della Amministrazione, estendendo la tutela anche agli interessi diffusi ([27]).
Riassumendo quanto siamo venuti a dire, la riforma del settore avuta in particolare con la L 241/90 è venuta a imporre il principio partecipativo alla pubblica aministrazione che, conseguentemente, ha l’obbligo di coinvolgere i cittadini nella fase amministrativa, per farli partecipare e renderli partecipi al momento formativo dell’atto amministrativo, e tale partecipazione deve necessariamente trovare la sua naturale sede in un procedimento (per questo garante e garantito) il quale, sempre necessariamente, si deve concludere con un provvedimento espresso. Questa è la volontà che il legislatore ha nitidamente delineato nella riforma. E alla luce di questo si deve comprendere l’autentico significato del silenzio ([28]).
A questo punto, si potrebbe dire che le argomentazioni che stiamo illustrando a sostegno di questa tesi da noi condivisa, appaiono essere parallele alle argomentazioni che vengono generalmente utilizzate a sostegno della tesi diametralmente opposta, quasi a far pensare ad una necessaria ed inevitabile convergenza anche nelle conclusioni. In realtà, se ci è permesso usare una terminologia cara al linguaggio politico, la “convergenza” delle argomentazioni è soltanto “parallela”, e non porterà ad una coincidenza delle relative conclusioni, ma, forse, ad un limitato e parziale avvicinamento. E’ vero, infatti, che il legislatore con la riforma vuole favorire la partecipazione del singolo al momento amministrativo, ma questa partecipazione, anche in questo caso, deve essere valutata alla luce del contesto delle altre previsioni normative, in primis del principio del contraddittorio nel procedimento, per cui non ritengo che il principio partecipativo possa portare a concludere che viene riconosciuto al singolo, con la previsione normativa l’istituto del silenzio, una propria completa e libera autonomia, in quanto non si deve dimenticare che il legislatore, nel complesso della sua riforma, ha ritenuto che il momento partecipativo del singolo dovesse realizzarsi comunque e sempre nel contraddittorio delle parti garantito all’interno del procedimento e che questa partecipazione doveva portare, comunque e sempre a un provvedimento espresso con cui la pubblica amministrazione risponde all’istanza del privato. Riconoscimento di una maggiore dignità al singolo ma sempre garantita dal contraddittorio. Partecipazione, dunque, al momento amministrativo ma non “espropriazione” dello stesso.
III) Motivi attinenti al dettato normativo. L’articolato sul silenzio amministrativo (Art. 19 e 20 della legge anche alla luce della recente riforma).
In realtà, ad ogni modo, anche la semplice lettura degli articoli della legge 241/90 che disciplinano il silenzio amministrativo, sembrano dare conferma degli assunti illustrati in precedenza.
Art. 19 L. 241/90
Secondo parte della dottrina, la fattispecie descritta dall’articolo 19 della L. 241/90 ([29]), appare essere molto innovativa rispetto al tradizionale rapporto tra il privato e il Pubblico laddove viene ad evidenziare come un privato possa, in qualche modo, sostituirsi al Pubblico, iniziando un’attività rilevante per la comunità, senza chiedere alcun tipo di autorizzazione ed, anzi, senza interpellare il Pubblico. Tra gli autori che hanno evidenziato questo carattere innovativo, una particolare menzione spetta a Schinaia ([30]), il quale sottolinea come l’art.19 sembra porsi come elemento esemplificativo di una forma di deregulation che viene introdotta dalla L. 241/90.
Senza soffermarmi sul punto, la semplice lettura dell’articolato ci fa comprendere come non possa essere riconosciuto come addentellato normativo a fondamento della riconoscimento della c.d. autoamministrazione del singolo. L’articolo 19, ricordiamolo, anche nella sua formulazione attuale ([31]), disciplina i casi in cui “l’esercizio di un’attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, abilitazione, nulla-osta, permesso o altro atto di consenso comunque denominato, (…) il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e requisiti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale”, – dico io – senza ricorso alla discrezionalità quindi; in questi casi “l’atto di consenso si intende sostituito da una denuncia di inizio di attività da parte dell’interessato alla pubblica amministrazione competente, attestante l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge” ([32]).
Ci soffermerei, in particolare, ad evidenziare come questa ipotesi di silenzio sia limitata ai casi in cui il “rilascio (di quello che avrebbe dovuto essere l’emanando provvedimento espresso che viene sostituito dalla denuncia) dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge o (ora anche) di atti amministrativi a contenuto generale”.
Il possibile ricorso al silenzio, quindi, non si estende ad ipotesi nelle quali sia invece necessaria una valutazione discrezionale che spetta e continua a spettare all’ente pubblico. Come si vede, quindi, quest’ipotesi, in realtà, non configura un’ipotesi in cui il cittadino “viene chiamato a dare e predisporre una propria regolamentazione degli interessi che risultano interessati dal provvedimento amministrativo” ([33]).
Il cittadino, infatti, non è chiamato a svolgere delle valutazioni discrezionali ed autonome su l’equilibrio di interessi, sostituendosi, in tal modo, con la propria autonomia al potere statale, ma viene semplicemente chiamato a dare esecuzione a un provvedimento che, nei suoi connotati e nei suoi aspetti principali ed essenziali, è già stato predeterminato dal legislatore, nel contenuto del quale neppure la pubblica amministrazione potrebbe interferire e prevedere una regolamentazione diversa. Ma questo, ripeto, non è autonomia. Per poter parlare di autonomia, ci deve essere un margine di discrezionalità. Non ci può essere autonomia laddove vi è un atto normativamente dovuto e predeterminato nel contenuto.
In realtà, proprio un’attenta lettura del dettato normativo ci conferma la visione negativa del singolo, avuta in mente dal legislatore, laddove precisa che tale figura di silenzio può ricorre solo laddove “non sia previsto alcun limite o contingente complessivo (…) per il rilascio degli atti stessi”. Dove vi è la previsione di un limite (numerico) deve intervenire la pubblica amministrazione a fissare e stabilire quel limite, dove questo limite non è previsto ed imposto, allora è lasciato spazio al singolo. Ma anche questo, quindi, non è autonomia. Anzi, questo passo ci conferma la visione propria di uno stato giacobino, della naturale incapacità del singolo di darsi delle regole, in primis, di darsi un limite alla propria azione, e quindi comprendere autonomamente il contingente complessivo di autorizzazioni che la comunità può sopportare e di cui ha effettivo bisogno ([34]).
L’art. 20 L 241/90. Contenuto e ampiezza.
L’articolo in esame ([35]) è sicuramente quello che riveste l’importanza maggiore all’interno della tematica affrontata nella presente indagine ([36])([37]).
L’articolo 20 prende – infatti – in esame tutti i casi in cui il procedimento, attivato dal soggetto interessato, viene a concludersi con il silenzio-assenso, ove l’amministrazione non provveda nel termine prefissato.
La disposizione, si distingue dalle ipotesi previste e regolate dall’art. 19 in quanto, nel primo caso vi è una richiesta di procedimento, a cui non segue alcun provvedimento ma un silenzio che viene qualificato dalla legge come assenso, mentre nel secondo non esiste una domanda di procedimento, e l’utilità che ne ricava il privato, quindi, non è connessa alla norma che disciplina il silenzio, ma direttamente alla norma che prevede il singolo vantaggio che il privato si autoattribuisce, iniziando l’attività esecutiva sulla base di una semplice denuncia di inizio attività.
Già ad una prima analisi, ciò che appare evidente del dettato dell’art. 20 è il fatto che questo sembra collocarsi in una posizione contraddittoria rispetto alla logica che sorregge l’intera normativa. Basti pensare ai già citati artt. 2 e 3 della legge nei quali si enunciano i principi ispiratori della stessa, quale quello dell’obbligo di emanare un provvedimento a conclusione di una procedura, e in ogni caso di motivarlo. E proprio questa è la caratteristica principale del silenzio. Ci troviamo di fronte ad una fattispecie a formazione progressiva di tipo provvedimentale che, però, viene a contraddire tutti i principi che avevamo visto essere alla base della possibile comunicazione dialettica tra privato e pubblico. Come già evidenziato, innanzi tutto il silenzio assenso non è il frutto di un procedimento amministrativo. Nel caso dell’art. 20, vi è sì un’istanza iniziale, ma a questa non segue nessuna fase intermedia di tipo istruttorio o prodromico. Soprattutto all’istanza non segue quel confronto tra i vari interessi coinvolti nel caso di specie che il procedimento amministrativo garantisce, al fine dell’individuazione del provvedimento che nel miglior modo possibile realizzi l’interesse del singolo e quello della collettività alla buona amministrazione. Il silenzio, conseguentemente non dà quelle garanzie che il procedimento dà, ma soprattutto non rispetta quei principi, che sono corollario e presupposto del procedimento, che la stessa legge 241/90 enuncia.