LA TUTELA PENALE DELLA «DIGNITÀ UMANA»: TRA ESIGENZE DI GIUSTIZIA E DI PROTEZIONE DEL BENE GIURIDICO[1]
di Giovanni Caruso

Ove tutto quanto dianzi espresso venga adeguatamente tenuto in conto, ritengo che la disputa sull’asserita necessaria «afferrabilità» del bene e della sua lesione si traduca, giocoforza, in quella relativa all’esistenza di un requisito di «fisicità» degli stessi, e cioè in quella afferente la necessità che il bene, per poter essere tutelato, debba cadere sotto la percezione dei sensi. D’altra parte, che tale ésito non costituisca un’impropria banalizzazione del tema è dimostrato da Franz Von Liszt, il quale giunse a definire la diffamazione come “una serie di movimenti della laringe, di ondulazioni sonore, di eccitazione del senso dell’udito e di messa in movimento di processi cerebrali”[113]. Ma tale disputa, alla luce della cifra teorica che condivido, è destinata a perdere tutto il proprio significato: nel diritto penale della giusta retribuzione, la tutela del bene non realizza la funzione preventiva del conflitto interindividuale, quanto, piuttosto, contribuisce alla realizzazione della giusta proporzione nel rapporto intersoggettivo. In questa prospettiva si colloca, precisamente, il ruolo svolto dal concetto di «bene giuridico» nell’esperienza penale: esso, pur sempre essenziale nell’orizzonte della mondanità, è logicamente secondario e indiretto, poiché i “beni giuridici non sono realtà materiali che si distendono nel mondo fisico in modo autonomo e staccato dalle relazioni interpersonali nel cui ambito sono sperimentati, sì che il legislatore possa deciderne la tutela penale indipendentemente dall’apprezzamento in termini di disvalore del contegno che li offende, ché, anzi, è proprio la cifra di disvalore di siffatto contegno che decide, ultimamente, della ragionevolezza inerente alla decisione circa la punibilità”[114].

In definitiva, per trarre coerenti conclusioni a riguardo della tutela penalistica della «dignità», appare improprio affaticarsi nell’identificare nella riprovevole manifestazione di disprezzo dell’altrui dignità un qualcosa di fisico, quantitativamente apprezzabile alla luce del deterioramento o deperimento fisico del bene: la dignità di chiunque, in sé e per sé, non diminuisce quantitativamente in ragione dell’altrui aggressione. Ciononostante viene «offesa» attraverso manifestazioni di disprezzo, in quanto «bene relazionale» che esige, per necessità di giustizia mondana, di essere positivamente riconosciuto nell’orizzonte comunitario: la dignità umana è un «bene relazionale» (come tutti i beni del diritto penale) «immateriale», costituito dal riconoscimento reciproco e dialettico del primato razionale ed etico dell’essere umano rispetto alle altre realtà mondane (o dal riconoscimento delle altre qualità spirituali o fisiche che, singolarmente, contraddistinguono la singola persona rispetto agli altri), il quale viene offeso mediante «manifestazioni di disprezzo» che la vita comunitaria non può tollerare secondo giustizia, a loro volta estrinsecatesi (in aderenza alla concezione del reato come illecito valutato per le modalità di lesione) o attraverso l’espressione di contenuti ideologici di oltraggio (come nei delitti contro l’onore), ovvero attraverso un trattamento personale di oltraggio (come nei delitti di schiavitù).

Ma tutto questo non è facilmente «percepibile» per chi ravvisi nel diritto penale il più potente strumento di controllo sociale al riparo del principio di sovranità.

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[1] Relazione tenuta presso la Pontificia Universidad Catòlica Argentina “Santa Marìa de los Buenos Aires” – VII Jornadas abiertas de profundizaciòn y discusiòn – 30 agosto/2 settembre 2004

[2] Trattasi della L. 11 agosto 2003, n. 228, in G.U. 23 agosto 2003, n. 195.

[3] FIORAVANTI L., La tutela penale della persona: nuove frontiere, difficili equilibri, in La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, pp. 7-8.

[4] MANNA A., Tutela penale della personalità, Bologna, 1993, p. 7.

[5] Mi riferisco all’interpretazione – per dirla con Vittorio Frosini (FROSINI V., Prolegomeni all’interpretazione giuridica, in Nomos, 1998, p. 43) – concepita come “attività di conversione dal linguaggio «normativo» all’azione pratica, come integrazione della conoscenza con la decisione (o volontà) del giudicare, come inserimento dell’interprete nel contesto della prassi sociale, che è ben più vasto di quello linguistico coincidente con l’insieme normativo della legislazione”.

[6] Tra la quasi inesauribile bibliografia in materia, quivi ci si limita a rinviare a BOBBIO N., Il positivismo giuridico, Torino, 1979, Id., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1965, spec. pp. 81-83 e 116 ; SCARPELLI U., Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965; CATTANEO M.A., Il positivismo giuridico inglese. Hobbes, Bentham e Austin, Milano, 1962, specc. pp. 106-119; nonché, per ulteriori riferimenti bibliografici, si veda FERRAJOLI L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, p. 226, nt. 14.

[7] GENTILE F., Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, in PAGALLO U., Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, Padova, 1998, pp. 226-227.

[8] RONCO M., Persona (delitti contro la), in Enc. Giur., vol. XXIII, Roma, 1990, p. 1.

[9] Per gli strettissimi collegamenti tra positivismo giuridico, normativismo e formalismo giuridico, si veda BOBBIO N., Il positivismo giuridico, cit., pp. 167 e ss..

[10] KELSEN H., La dottrina pura del diritto, Torino, 1966, trad. it. Mario G. Losano, p. 198.

[11] BOBBIO N., Introduzione, in Opere politiche di Thomas Hobbes, a cura di Norberto Bobbio, Torino, 1959, p. 9: volendo “racchiudere in una formula il significato della filosofia politica di Tommaso Hobbes, potremmo dire che essa esprime la prima moderna teoria dello Stato moderno”; anche PAGALLO U., Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, cit., p. 11, il quale ribadisce come Hobbes sia “mitologicamente ritenuto […] il «padre fondatore» del pensiero giuridico e politico moderno”.

[12] Ugo Pagallo sottolinea che il carattere della modernità – così come inteso dalla storiografia dell’ultimo secolo – si delinea proprio nella fase moderna della storia dell’Europa occidentale (secoli XVI-XVII), col definitivo disgregarsi dell’ideale unitario cristiano e l’affermarsi delle singole sovranità nazionali, cui si accompagna l’avvio della cosiddetta rivoluzione scientifica e tecnologica. È proprio in questo preciso momento storico, infatti, che “è dato ritrovare sia il progressivo costituirsi della differentia specifica, e cioè della «forma» che consente di parlare per l’appunto di modernità; sia anche il permanere di un saldo genus proximus, rappresentato dalla tradizione “, PAGALLO U., Testi e contesti cit., p. 11.

[13] GENTILE F., La norma fondamentale e le leggi nella sistemazione geometrica della esperienza giuridica: Hobbes e Kelsen a confronto, in Politica e diritto in Hobbes, a cura di G. Sorgi, Milano, 1995, p. 38.

[14] Va ricordato, infatti, che lo stesso Galileo, ne Il Saggiatore [GALILEO GALILEI, Il Saggiatore, in Opere di Galileo Galilei (Franz Brunetti, a cura di) Torino, 1980, vol. I], mentre consigliava l’impiego del metodo matematico e geometrico per capire le leggi della natura, scritte nel Libro della Natura, escludeva di estenderlo allo studio delle leggi umane, che andavano invece lette nel Libro della Rivelazione. E anche Cartesio, grandissimo filosofo e matematico dell’epoca, distingueva tra res extensa, ossia tutte le cose, conoscibile scientificamente, e res cogitans, ossia l’attività intellettuale dell’uomo, non definibile in termini matematici.

[15] HOBBES T., De Cive, in Opere politiche, a cura di Norberto Bobbio, vol. I, Torino, 19592, pp. 59-60: “gli studiosi della Geometria hanno molto ben coltivato il loro campo, difatti […] tutto quel che distingue i tempi moderni dall’antica barbarie, è quasi completamente benefico effetto della Geometria; poiché quello che dobbiamo alla Fisica, la Fisica stessa lo deve alla Geometria. Se i filosofi morali avessero compiuto i loro studi con esito altrettanto felice, non vedo come l’ingegno umano avrebbe potuto contribuire meglio alla propria felicità in questa vita. Se si conoscessero con uguale certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellate l’ambizione e l’avidità, il cui potere s’appoggia sulle false opinioni del volgo, intorno al giusto e all’ingiusto; e la razza umana godrebbe una pace così costante, che non sembrerebbe di dover mai più combattere”. Sulla finalizzazione operativa della teorica hobbesiana alla giustificazione del potere sovrano, si veda CATTANEO M.A., Hobbes e il fondamento del diritto di punire, in Politica e diritto in Hobbes, cit., p. 140: “Hobbes […] non voleva fondare lo Stato di diritto (come gli illuministi), ma voleva dare un fondamento razionale allo Stato assoluto”.

[16] La bibliografia sul pensiero del filosofo inglese è vastissima. In questo contesto mi limito a ricordare, oltre quelle già citate, solo le seguenti trattazioni: HOBBES T., Leviatano, I, XIV^, traduzione italiana di Gianni Micheli, Firenze, 1976; BARBA V., «Opinione», «consenso» e tecnica della costruzione dei soggetti in Thomas Hobbes, in BOBBIO – BODEI – MARRAMAO – RELLA – ROVATTI – SCHIERA – STAME, Soggetti e potere – un dibattito su società civile e crisi della politica, a cura di Vittorio Dini, Napoli, 1983.

[17] RONCO M., Il problema della pena, Torino, 1996, p. 6.

[18] RONCO M., ibidem: “La considerazione illuministica della pena […], che associa per la prima volta il tema della critica della pena concretamente esistente al tema della riforma del sistema penale, costituisce, per un verso, sotto il profilo della politica criminale e del modello di sistema giuridico, il punto di partenza di un processo ancora oggi non terminato. Per un altro verso, tuttavia, esprime la conclusione matura di una rivoluzione antropologica che conosce in Thomas Hobbes il suo più illustre e spregiudicato rappresentante”.

[19] Per il rilievo circa la reciproca congruenza teorica e cronologica delle opere dell’Autore lombardo con l’elaborazione del «contrattualismo» di Jean Jacques Rousseau, si veda RONCO M., Il problema della pena, cit., p. 22: “Sennonché, se moltissimo è stato detto a proposito degli effetti positivi che la critica di Beccaria (e di coloro che, nei vari paesi europei ne dilatarono e arricchirono la denuncia) avrebbe recato nell’avviare la riforma dei sistemi penali tradizionali, più in ombra tra i penalisti è rimasta la tematica concernente i presupposti concettuali del riformismo dell’Autore italiano. Mi sembra che il punto di partenza fondamentale sia costituito dall’erezione contrattualistica, alla sequela di Jean Jacques Rousseau, di una entità sociale in grado di trasformare la volontà di tutti (‘volonté de tous’) in una volontà generale (‘volonté générale’), in una volontà, cioè, che garantirebbe la libertà dei cittadini e la sintesi sociale”.

[20] L’Autore si riferisce al Commentaire sur le livre des délits et des peines, par un avocat de province, pubblicato nel 1766, il quale “nasce non soltanto come testimonianza di gratitudine a Beccaria”, ma “nell’intrecciare la denuncia contro i sistemi dei delitti (soprattutto quelli aventi un fondamento religioso) e delle pene praticate nell’antico regime con l’idea circa lo scopo preventivo della sanzione, secondo la massima, espressa nel primo paragrafo dell’opera, per cui «La véritable jurisprudence est d’empêcher les délits», nella prospettiva, già delineata da Beccaria, ed espressamente richiamata nel secondo paragrafo del Commentaire, secondo cui la pena, per essere spesso troppo al di sopra del delitto, rischia di nuocere, invece che di giovare agli interessi dello Stato, per la cui tutela è prevista”: RONCO M., Il problema della pena, cit., pp. 28-29.

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