LA TUTELA PENALE DELLA «DIGNITÀ UMANA»: TRA ESIGENZE DI GIUSTIZIA E DI PROTEZIONE DEL BENE GIURIDICO[1]
di Giovanni Caruso

Quali, d’altra parte, le conseguenze che tale capovolgimento determina a riguardo della conformazione strutturale dei «beni giuridici»? A mio giudizio, la giusta proporzione nel rapporto interpersonale giunge ad intriderne di senso valoriale la specifica consistenza. Quindi il bene, non distendendosi nello spazio quasi fosse un «solido» da misurare ed esperire fisicamente, non si configura come un’entità suscettibile di «afferrabilità prensile»: esso non è un quid prelevato da un’ipotetica realtà pre-positiva, come bene «utile» per l’individuo anomico dello stato di natura, e «si colora» inevitabilmente attraverso la «dominante cromatica» della «giusta relazionalità», ossia non quella, alienante, tra soggetto e oggetto dell’istinto e dell’impulso, ma quella, autenticamente «personale», della giusta proporzione nel rapporto intersoggettivo. In altri termini, quello insistente sulla dicotomica contrapposizione tra concretezza e astrattezza, afferrabilità e inafferrabilità, materialità o immaterialità, palpabilità o impalpabilità del bene si riduce, in fondo, a un problema falso e fuorviante, o comunque a un problema mal posto.

D’altra parte, a me sembra che proprio l’esperienza penalistica concreta dimostri, infatti, che qualsiasi bene personale riceva tutela solo ove venga «costitutivamente iscritto» nell’àmbito della disarmonia innescatasi nel rapporto interpersonale. Prima ancòra che sulla categoria del «bene giuridico», tale assunto si può valutare in rapporto alle elaborazioni dogmatiche ricevute dai concetti di tipicità e colpevolezza: dietro il velo della asettica analisi formalistica, se ne possono adeguatamente cogliere i fondamenti politici nella necessità che al mero «accadimento» naturalistico del fatto umano si accompagni l’ingiustizia sostanziale, contraddistinta dalla possibilità di biasimare il reo per l’abuso, «ingiusto», della propria libertà morale. A tale riguardo, merita considerare, seppur molto schematicamente, la diversa ratio fondativa che viene assegnata a detti principi[99]. Per i campioni del diritto penale dello scopo, il principio di legalità e di tipicità – non a caso alla sequela del filosofo di Malmesbury[100] -, trova fondamento nella tensione latente tra macroantropos e cittadino, tra prevaricazione statale e residue zone franche di libertà del suddito, secondo la consolidata formula dello «Stato di diritto»[101]. Per chi reclama la necessità della «retribuzione giusta», viceversa, la tipicità diviene la «prima garanzia» dell’«ingiustizia» del comportamento criminoso, tanto più ove si caratterizzi il reato, a mezzo del postulato della tipicità del fatto, quale illecito contrassegnato dalle modalità di lesione, denotative della particolare «ingiustizia», «riprovevolezza» e «odiosità» del comportamento[102]. Omologa contrapposizione si può notare in tema di disvalore di condotta e disvalore dell’evento nell’àmbito penalistico. È evidente che il diritto penale dello scopo e della protezione sussidiaria dei beni non possa non privilegiare l’ésito fenomenico della condotta umana nel suo ripercuotersi sul «bene della vita» concretamente ed efficacemente aggredito (il segmento «naturalistico» dell’evento incide in guisa essenziale sul giudizio di meritevolezza di pena, a scapito della valutazione della riprovevolezza della condotta[103]), con conseguente disinteresse per la riprovevolezza degli ingredienti soggettivi del contegno: chi ravvisa nel diritto penale uno strumento di protezione sussidiaria dei beni, fa convergere l’attenzione sul segmento del «complessivo fatto umano» che incide e pregiudica fisicamente il bene materiale, e cioè sull’evento. Laddove, a mio modo di vedere, il diritto penale della «giusta retribuzione» dovrebbe rendere avvertiti che condotta ed evento, per chi non intenda asservirsi ad una considerazione meramente fisicistica dell’esperienza punitiva, si saldino complessivamente in una corale valutazione del modo in cui chi delinque ha abusato della propria libertà, e, conseguentemente, ha insediato l’ingiusto nella relazione interpersonale. Per i sostenitori di un diritto penale preventivo e di protezione dei beni, infine, la colpevolezza, pur non scomparendo del tutto (come, a rigore, coerenza vorrebbe), assume il mero ruolo di «criterio elargitivo» della sanzione, non coinvolgendo punto il fondamento della responsabilità penale nel risvolto della riprovevolezza per l’abuso della libertà morale della persona[104]. Laddove, in una corretta considerazione etica del diritto punitivo, la colpevolezza viene a costituire l’autentico fondamento ultimo del disvalore penale e della riprovevolezza dell’ingiusto abuso di libertà.

Non può sorprendere, quindi, se tale sbilanciamento «oggettivistico» abbia pesato anche sul concetto di «bene giuridico». Contro tali posizioni occorre reagire, anzitutto affermando che “in tanto è fondata la decisione politica intorno alla protezione di un bene giuridico, in quanto sia giusta la pena irrogabile in relazione alla sua violazione”[105]. Sul piano dogmatico, poi, credo che tale affermazione si possa sviluppare mediante la traduzione della necessità che il giudizio di tipicità e di raffigurazione del bene non decampi dal previo accertamento dell’instaurasi della disarmonia interpersonale, con conseguente insinuarsi dell’ingiustizia: la «giusta misura» del rapporto interpersonale intride, secondo una cifra valorativa umana – e non, quindi, in guisa meramente estrinseca ed adiàfora rispetto agli ingredienti personali della relazione -, i beni materiali alla cui protezione aspirano i singoli appartenenti al contesto comunitario, financo divenendone, a mio giudizio, un autentico costitutivo ontologico sub specie iuris.

Come può, tuttavia, tale prospettiva incidere sul concetto di «bene giuridico»? A mio giudizio, il penalista ha davanti agli occhi una possibile via d’uscita. Già la considerazione problematica e complessiva dell’esperienza penale nella sua quotidiana concretezza, infatti, contribuisce a demistificare, qualora profondamente notomizzata, l’affermazione secondo cui la funzione della norma incriminatrice consiste nella «tutela» del bene giuridico. Al modo della riflessione filosofica, la medesima affermazione si riduce, né più né meno, ad una mera semplificazione concettuale, la quale viene avvalorata assumendo indebitamente – per utilizzare le categorie aristoteliche – la prevalenza significativa dell’‘accidente’ causato sulla ‘sostanza’ causante: qualunque bene, ove riguardato nel complesso della dinamica sociale e interpersonale, diviene un «bene relazionale». Si rifletta sul delitto di omicidio, terreno d’elezione dell’«oggettivismo naturalistico»: si può veramente credere che la funzione del diritto penale, con la previsione della norma incriminatrice dell’art. 575 c.p., sia quella di proteggere la vita umana? Se si considera con rigore speculativo la questione, va riconosciuto che il diritto penale non si cura di proteggere direttamente la vita; così come, d’altra parte, non assicura direttamente i cittadini contro la morte (còmpito, per vero, che assume la medicina come scienza naturale). Il diritto penale, in realtà, si occupa del bene relazionale costituito dal riconoscimento interpersonale dialettico (ovviamente traducentesi in comportamenti rilevanti nel mondo della prassi), vietando l’uccisione dell’uomo da parte di un altro uomo. Laddove si assuma l’evento senza considerarne il coefficiente genetico umano, si trascurano le differenze che sussistono tra identici accadimenti fenomenici: la perdita della vita provocata da una disgrazia (o, per ipotesi dall’azione violenta di un animale) è un «fatto» diverso dalla perdita della vita conseguente ad un omicidio proprio perché, nel secondo caso, il diritto si occupa di un diverso «bene», risaltante indelebilmente come realtà relazionale. Da tale angolazione, è evidente che l’importanza assegnata alla realtà relazionale nella conformazione dell’illecito, implica, sotto il riguardo deontico-normativo, la constatazione che qualsiasi «lesione» naturalistica del bene materiale o immateriale si accompagna (rectius, deve accompagnarsi per assurgere a fatto penalmente rilevante) alla violazione della pretesa al rispetto legittimamente vantata da parte del soggetto passivo, violazione la quale, vera e unica fomite dell’«ingiustizia», si traduce specularmente, dalla parte del soggetto attivo del reato, nella manifestazione del disprezzo per il bene tutelato.

È chiaro che tali assunti impongano una radicale revisione delle posizioni «oggettivistiche» nel diritto penale, intendendo per «oggettivismo» non il pur sempre necessario rapporto tra la mera interiorità del soggetto e il mondo esterno[106] – premessa resa incontestabile dal ditterio cogitationis poenam nemo patitur -, quanto, piuttosto, la pretesa «razionalistico-positivistica» di espungere i momenti personali dalla considerazione della struttura della fattispecie di reato, dal Tatbestand oggettivo di derivazione positivistica[107], e di edificare conseguentemente il concetto di bene giuridico in modo adiàforo rispetto alla relazionalità giuridica tra soggetti dotati di «dignità personale». Non si deve dimenticare infatti che, secondo la cifra positivistica, il fatto tipico assumerebbe una fisionomia del tutto inadeguata a rappresentare un accadimento umano: Beling, addirittura, poteva sostenere che “il vero Tatbestand non include in sé il momento dell’azione. Esso è di per sé, non contiene alcuna indicazione ad un’azione voluta”, giungendo a domandarsi: “chi potrebbe dubitare, ad esempio, che ‘uccisione di un uomo’ vi sia anche se un toro abbia infilato un uomo e lo abbia ammazzato?”[108] Ma sull’importanza rivestita dal tratto d’umanità che deve possedere la condotta, e sull’incidenza che la medesima esplica sulla fisionomia del bene giuridico, occorre ricordare le parole utilizzate da Giuseppe Bettiol in uno scritto del 1959, inteso a contrastare la dogmatica marxista sul tema: “Soggettivismo non significa sradicamento delle nozioni penalistiche e quindi del reato dal mondo delle realtà sociali, perché il reato è e rimane nella sua oggettività un quid che esprime un disvalore tra un fatto accaduto nella realtà sociale e le esigenze di tutela della norma giuridica”, ma sottende piuttosto “l’esigenza che questo giudizio sia legato alla presenza di un’azione umana la quale può essere intesa ed affermata solo quando essa venga tolta dal mondo cieco della natura e interpretata «veggentemente» come comportamento diretto ad un fine […] L’azione umana è tale solo quando sia intenzionale, cioè dolosa. Ogni altro comportamento soggiace a una mera constatazione naturalistica. È un fatto umano, non è un fatto dell’uomo!”[109]. Tuttavia, tale considerazione non comporta affatto “la negazione del bene giuridico che rimane pur sempre il presupposto di tutto il sistema, anche se l’antigiuridicità si colora in parte «soggettivisticamente»”[110].

Sì che, a riguardo della conformazione del bene tutelato, il diritto penale, se inteso come sistema di precetti orientativi della condotta prima ancòra che come sistema istituente meri ingranaggi sanzionatori, tutela la vita umana nella sua complessità metafisica sottratta alla concreta e misurabile esperibilità dei sensi, come bene relazionale interpersonale, imponendo il «dovere» di rispettare la vita altrui[111]. E se il bene «materiale» per eccellenza, la vita umana, è già di per sé un bene relazionale, a fortiori ciò va affermato per un bene immateriale come la «dignità personale»[112].

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