LA TUTELA PENALE DELLA «DIGNITÀ UMANA»: TRA ESIGENZE DI GIUSTIZIA E DI PROTEZIONE DEL BENE GIURIDICO[1]
di Giovanni Caruso
Il secondo correttivo, viceversa, molto più praticato anche nella stessa manualistica[65], fu quello di costruire – sull’abbrivio offerto da uno specifico passaggio della Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo di codice[66] – i delitti contro l’onore come reati di pericolo: “il raggiungimento del risultato ulteriore dell’effettiva lesione dell’onore non è un requisito essenziale del delitto di ingiuria e non ne rappresenta perciò l’evento offensivo ma soltanto un effetto accidentale ed ipotetico. In termini di teoria generale l’ingiuria può pertanto classificarsi come un delitto con evento di pericolo”[67]. Anche a riguardo di tale correttivo dogmatico, tuttavia, sono condivisibili le osservazioni di Musco: “più che rettificare la concezione iniziale la si risolve in qualche cosa di diverso: del sentimento o della coscienza dell’onore non rimane, in realtà, niente”[68].
La concezione normativa[69], viceversa, ruotava attorno alla considerazione dell’onore non più come «fatto», bensì come «valore», proprio perché l’onore “apparterrebbe al mondo dei valori e non a quello dei fatti”[70]. Per stabilire, tuttavia, il contenuto specifico mediante il quale riempire il concetto normativo dell’onore, si svilupparono due «versioni» della teoria: da un canto, la cd. versione «sociale»[71]; da un altro canto, la versione «morale». La prima, secondo cui sarebbe stata esclusivamente la società ad attribuire l’onore al singolo, con i conseguenti rischi di «frantumazione» del concetto d’onore a seconda degli specifici settori sociali di riferimento considerati, quando non – addirittura – di degenerazione relativistico-nazionalistica del concetto stesso d’onore[72]. La seconda, impostasi soprattutto nel secondo dopo-guerra[73], secondo cui l’onore sarebbe stato un “valore morale, cioè attributo originario dell’uomo, […] valore intrinseco ad ogni singola persona umana in quanto tale, in forza della propria dignità di uomo, e, pertanto, «eguale» in tutti gli uomini, […] indipendente da giudizi sociali di merito o di demerito e meritevole di incondizionato rispetto”[74]; in questo significato, si affermava che l’onore si sarebbe potuto assimilare “al concetto di «dignità», di cui tuttavia costituirebbe solo una parte”[75]. Pur segnando un sostanziale passo avanti rispetto ai vicoli ciechi in cui si avvitava la «versione sociale» della concezione normativa dell’onore, anche la «versione morale» incontrò vivaci dissensi.
Una prima critica, elaborata dalla dottrina tedesca[76], muoveva dalla denunciata carenza di un solido aggancio al quale ancorare l’offesa, poiché il «vero valore» di un uomo si sarebbe dovuto a priori escludere quale oggetto dell’aggressione attuata nei reati contro l’onore, perché esso non si sarebbe potuto colpire dall’esterno a mezzo di semplici dichiarazioni di terzi. In altri termini, un bene come l’onore (sempre, beninteso, nella «versione morale» della concezione normativa), di indole chiaramente immateriale, non si sarebbe potuto «violare» dall’esterno, né avrebbe potuto subire compressioni o detrimenti a causa di altrui contegni aggressivi. A tale posizione critica, merita ricordare la puntuale replica di Enzo Musco, il quale mise opportunamente in luce, per un verso, che il concetto di «violazione» può essere utilizzato “in un doppio significato e, precisamente, nel senso di una modificazione di uno stato di fatto o di un quid sostanziale, ovvero nel senso di lesione degli interessi e delle pretese che discendono da situazioni ideali”[77]; per un altro verso, che l’obiezione elaborata dalla dottrina tedesca, in realtà, “trova la sua spiegazione nel persistere di quel modo naturalistico di pensare – secondo cui il delitto non può consistere in altro che in modificazioni fisiche del mondo circostante -, al quale si continuano a pagare inaccettabili tributi sotto forma di artificiose elaborazioni che, per giustificare le lesioni inferte ai beni ideali, arrivano a modificarne il contenuto e la sostanza criminosa”[78].
Sulla seconda critica, di certo più robusta e complessa, ritengo opportuno soffermarmi con particolare attenzione: essa, infatti, assume tonalità teoriche sostanzialmente sovrapponibili a quelle che oggigiorno per lo più si utilizzano nel denotare le difficoltà e i «disagi tecnici» di tutela del bene della «dignità personale». A riguardo della «versione morale» si è infatti osservato che laddove l’onore venisse identificato con il vero o interno valore della persona – oltretutto accostato, in non altrimenti specificati àmbiti residuali, proprio alla «dignità umana» – risulterebbe “oltremodo difficile applicare nella pratica un siffatto concetto”, sì che “il limite principale della versione morale della concezione normativa resta la sue «astrattezza» e quindi la scarsa «afferrabilità» del bene giuridico onore”, con la conseguenza che l’opzione interpretativa in questione, “nell’illusione di prescindere dal dato sociale, e, sia pure nel lodevole intento di fonire all’onore un concetto valido «per tutti», ha finito per perdersi nelle astrazioni, con il risultato di costruire un bene giuridico……inutilizzabile”[79]. Ora, indipendentemente dalle soluzioni indicate dalla dottrina in esame (la rilevanza meramente civilistica delle violazioni del bene dell’onore[80]), ovvero dal riconoscimento del ruolo fondamentale ricoperto dalla Carta Fondamentale nell’individuazione del bene[81], credo che tale posizione scettica si fondi sull’inadeguata considerazione del concetto di «dignità umana» secondo i criteri che si sono in precedenza delineati.
A me sembra, viceversa, che la disciplina dei delitti contro l’onore sia rapportabile proprio alla tutela della «dignità umana», in una delle quattro radici che Joseph Seifert ha saputo cogliere nel suo sforzo analitico, le quali sono state riguardate: come mera vitalità biologica, come attuazione consapevole della persona cosciente; come spessore assiologico e qualitativo delle concrete realizzazioni esistenziali; come «dono» individuale e fondante le differenze soggettive tra gli esseri umani[82].
Se si collegano gli ingredienti sostanziali del concetto «dignità» alle esigenze di disciplina penale nei delitti contro l’onore, vanno tratte tre conclusioni interlocutorie: a) in primo luogo, va affermato con decisione che qualsiasi espressione che contraddica il primato razionale e finalistico, etico e giuridico insieme, dell’essere umano, deve considerarsi in sé oltraggiosa dell’onore personale; b) in secondo luogo, va chiarificato come qualsiasi altra affermazione la quale, pur non negando la libertà e razionalità della persona, ne oscuri o deprezzi il concreto valore esistenziale, costituiscono espressioni di per se stesse disonoranti e, quindi, penalmente rilevanti; c) in terzo luogo, così inquadrato il tema interpretativo, l’unica differenza tra ingiuria e diffamazione sarà di tipo, per così dire, «situazionale» – presenza o assenza del soggetto passivo -, avendo i due titoli di reato ad oggetto il medesimo bene tutelato.
Per ragioni di completezza, ritengo opportuno concludere l’indagine «fenomenologica» con due esempi colti nella concretezza dei rapporti interpersonali. Quale esempio sub a), si pensi al fatto di colui che definisca una persona già condannata per un reato contro il patrimonio come «cosa immonda, lurido straccio». È evidente l’assoluta illegittimità, giuridica e teoretica insieme, insita nell’utilizzazione di simili espressioni all’indirizzo di terzi, considerando proprio che nessun uomo, quale che possa essere il peccato, il comportamento o il crimine del quale siasi macchiato, può perdere la radice esistenziale della dignità, e cioè quella del primato razionale e finalistico della persona: nessuna persona abdica alla propria dignità personale tramutandosi in «cosa», in «straccio», ovvero in «entità inanimata». È sufficiente ricordare, d’altronde, la prima parte dell’art. 27, comma 3, della Carta Fondamentale: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, tradotto, al livello della normativa ordinaria, dall’art. 1, comma 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante la disciplina del nostro ordinamento penitenziario: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Eppure, il Tribunale di Roma, con sentenza del 21 febbraio 1957[83], mandò assolto l’imputato dal delitto di diffamazione, pur avendo egli ‘gratificato’ un soggetto terzo, già condannato per delitti contro il patrimonio, delle seguenti espressioni: «cosa immonda, lurido straccio, sporca spia e delatore per danaro». Quali esempi sub b), la stessa manualistica è prodiga di utili riferimenti, come quelli di utilizzati da Francesco Antolisei: “Nessuno dubita, poi, che il valore offensivo di una espressione dipende anche dallo stato o grado sociale della persona a cui è rivolta. Per tal modo l’attribuire l’ignoranza di una determinata disciplina costituisce ingiuria nei confronti di chi la deve conoscere a cagione della sua professione, non per gli altri. Colui che scrive, ad es., non si sentirebbe punto offeso se gli dicessero che non sa neppure l’ a b c del calcolo infinitesimale”[84].
In definitiva, la critica all’«astrattezza» del bene e all’«infferrabilità» della lesione sembra limitarsi, né più, né meno, all’incapacità di scorgere un ingrediente materiale e sensibile dal quale desumere la violazione della dignità. La quale, nel caso dei delitti contro l’onore, si attua – senza, ovviamente, che se ne possa «misurare» il detrimento in chiave «ponderale» – attraverso l’espressione e comunicazione di «contenuti ideologici» di disprezzo. Proprio lo schema comportamentale del disprezzo espressivamente manifestato con la comunicazione di contenuti ideologici costituisce, a mio giudizio, la specifica modalità di condotta e di lesione in cui si radica il momento discretivo tra i delitti contro l’onore e gli altri delitti contro la dignità personale: non differenza di «bene tutelato», quindi, ma di «modalità di lesione». Prima di esplicitare il senso specifico dell’assunto, tuttavia, occorre svolgere l’indagine «filosofico-dogmatica».
3. L’indagine «filosofico-dogmatica»: la tutela della dignità umana tra esigenza di «giustizia» e di protezione del «bene giuridico»
Questa complessa esperienza dottrinale mi conduce a riflettere sulle dianzi esplorate difficoltà interpretative da una diversa posizione prospettica, in certo senso più arretrata e comprensiva. Ritengo che, allo scopo di lumeggiare meglio alcuni pregiudizi teorici, possa essere utile un’analisi comparativa tra due modi opposti di considerare l’esperienza punitiva nel suo complesso: da un lato, la considerazione del diritto penale dello scopo e del controllo sociale; dall’altro, la considerazione dell’esperienza punitiva quale fenomeno umano di irrogazione della «giusta retribuzione» – malum psico-fisico, ma bonum etico – per comportamenti disgreganti l’armonico dispiegarsi della vita sociale, forieri dell’insediarsi dell’ingiustizia nei rapporti interpersonali e nel contesto comunitario[85].