LA TUTELA PENALE DELLA «DIGNITÀ UMANA»: TRA ESIGENZE DI GIUSTIZIA E DI PROTEZIONE DEL BENE GIURIDICO[1]
di Giovanni Caruso

Sotto il secondo riguardo, una specifica attenzione a tale tematica nell’àmbito del diritto punitivo è stata dedicata da Mauro Ronco, il quale ha ripercorso le tappe fondamentali della “rivoluzione antropologica”[17] sensista e materialista condotta dall’illuminismo giuridico-penale, a propria volta costituente ispirazione e guida nell’opera di definitiva cancellazione della componente spirituale ed etica nella considerazione della personalità umana. L’itinerario dell’Autore è rigoroso: per un verso, egli congiunge, in una coerente tessitura teorica, i fondamenti gnoseologici degli albori del giusnaturalismo profano – come elaborati dal contrattualismo hobbesiano[18] – agli aneliti di «umanizzazione» dei delitti e delle pene di Cesare Beccaira[19] e di Voltaire[20], fino al consolidamento legalistico del general-prevenzionismo con l’opera di Paul Johann Anselm von Feuerbach[21]; per altro verso, riannoda gli stessi al mutato clima illuministico di riduzione materialista dell’uomo a mero reticolato di sensi ed impulsi, con radicale annichilimento della componente etica e spirituale[22]. Sì che, da un canto, proprio la “negazione della libertà, come fondamento della condotta umana […] costituisce l’orizzonte filosofico e culturale del nuovo diritto penale dello scopo e dell’utilità sociale”[23]; da un altro canto, gli stessi principi umanitari assunti – mediante una critica “dissacrante e spregiudicata”[24] – a paradigma di legittimazione del processo riformistico dagli Autori illuministi, lungi dal riposare sulla pur ostinatamente conclamata valorizzazione della «dignità umana», ne costituiscono in realtà la più rigorosa e radicale negazione già sul piano della fondazione del magistero punitivo dello Stato. A tale riguardo, come rammenta l’Autore, la radice funzionalistica del diritto penale, in quanto volto alla prevenzione del danno sociale attraverso la minaccia esercitata sulla volontà e sui sensi, “è contraria alla dignità della persona: […] una siffatta fondazione della pena presuppone un modello di uomo la cui essenza sarebbe un fascio indeterminato di impulsi, e comporta una operatività concreta che considera e tratta il reo come un mero fattore di insicurezza, e non come un ente capace di autodeterminazione giuridica”[25].

Quanto tale capovolta considerazione del «modello di uomo» abbia pesato sull’edificazione del diritto penale di impostazione cd. liberale, lo si può verificare non solo in relazione alla fondazione giustificativa della pena come rimedio funzionale al conseguimento di finalità utilitaristiche di carattere «estrinseco» rispetto alla giustizia del rapporto interpersonale, ma anche considerando come, alla sequela della medesima, il liberalismo penale sia giunto ad assegnare al diritto punitivo “lo scopo […] della protezione dei beni e degli interessi sociali”[26]. Il principio di «utilità penale», quale fu formulato da Grozio, da Hobbes, da Pufendorf, da Thomasius, da Beccaria e, più diffusamente, da Bentham[27], avrebbe infatti giustificato la delimitazione della sfera delle proibizioni penali – coerentemente alla funzione preventiva della pena come “precautio lesionum et injuriarum”, non dettata da passione di vendetta ma diretta soltanto “acerbitate sua homines a peccatis deter reri”[28] – alle sole azioni riprovevoli per i loro “esterni e fisici effetti”[29] per i terzi. Sì che, edificato quasi alla sequela di una mera comparazione «costi-benefici», nel diritto penale sono solo i “maggiori costi individuali e sociali rappresentati da questi effetti lesivi che la legge […] ha il compito di prevenire e che soli possono giustificare i costi sia delle punizioni che delle proibizioni”[30].

Merita aggiungere, a tale riguardo, che la contrapposizione tra la «corretta» e la «scorretta raffigurazione» della persona – evocante la dicotomia platonica tra l’«icona» e il «fantasma»[31] -, in uno al fenomeno della «spersonalizzazione» operata dal positivismo giuridico, non può certo relegarsi nell’àmbito della codificazione del 1930, quasi fosse esclusivo retaggio dell’impostazione «ideologica» autoritaria del codice Rocco, secondo la quale, come noto, il principio «utilitaristico» ha prevalso su quello «personalistico» nel forgiare il concetto di «persona» giuridicamente rilevante[32]. Essa – giusta quanto testé osservato – coinvolge, invece, in modo ben più radicale, gli stessi cardini politico-scientifici di matrice illuministica che hanno ispirato, in uno con il principio codificatorio in sé e per sé considerato, anche la (dis)attenzione «convenzionale» per lo statuto «antropologico» della persona.

A riguardo del principio codificatorio, infatti, va ricordato che la pretesa di «modellare» ad libitum la natura – ivi compresa quella dell’uomo – caratterizzò già il Còde Napoleòn, edificato sull’assunto del Portalis secondo il quale “la legge è onnipotenza umana”[33], capace, come il precettore dell’Emile, di «forgiare» l’essenza della persona, poiché, come ammoniva l’Autore del contrat social, colui “che osa impegnarsi nell’istituzione di un popolo deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana; di trasformare ogni individuo, che per sé è un tutto perfetto e solitario, in parte di un più gran tutto da cui esso riceve in qualche modo la vita e il suo stesso essere”[34]. Sempre lungo tale itinerario, a riguardo specifico della codificazione penale in particolare, merita ricordare l’assunto sostenuto da Mario Romano nell’intervento tenuto il 10 dicembre del 1988 a Roma, in occasione del Convegno celebrativo del quarantesimo anno dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani. L’Autore, indicando alcune prospettive di riforma in tema di delitti «contro la persona», auspicava di assegnare alla medesima “la posizione e il rango che le competono, portando i delitti contro la persona dal titolo XII attuale al titolo I, di apertura della parte speciale del codice”[35], rammentando il passaggio «ideologico» dal codice liberale del 1889 al codice autoritario del 1930, e ponendo in luce come, tra gli stessi, non fosse certamente “nuova […] la collocazione dei delitti contro lo Stato al vertice della parte speciale, […] elemento di continuità non soltanto rispetto al codice Zanardelli ma anche rispetto ad altre coeve importanti codificazioni continentali”[36]. Nella condivisione integrale di questa posizione, ritengo che la mutevolezza delle opzioni ideologiche di fondo – liberale o illiberale[37] – non assuma rilievo dirimente in ordine al comune fondamento teorico delle varie esperienze codificatorie: l’istituzione statale come “bene di per sé evidente per tutti gli uomini”[38], sorta di trasmigrazione secolarizzata della divinità[39], trova la sua origine, e affonda le proprie radici, sul terreno culturale della modernità giuridica, nello stretto connubio da essa istituito tra diritto e potere. Sì che, col codice Rocco, si assiste solo alla “perpetuazione di un’istanza già largamente accolta nelle codificazioni europee dell’epoca della restaurazione, ma che sin dal periodo dell’illuminismo, con l’affermazione delle teorie del contratto sociale, aveva portato ad attribuire ai delitti contro lo Stato la posizione più elevata, trattandosi dei delitti tendenzialmente più gravi immaginabili, poiché tali da porre in pericolo la libertà civile e da far ripiombare la società nell’originario stato di natura”[40]. Per queste ragioni, a me sembra corretto concludere come l’illustre Autore, e cioè che il codice del 1930, lungi dal presentarsi audacemente originale, “si pone nel solco di una tradizione coltivata nel corso di quasi due secoli, da quando il processo di secolarizzazione aveva cominciato ad accentuare la «terrestrità» del mondo e la sua «mondanità», e a far concentrare l’attenzione sulla «patria», sul «principe», sul «sovrano» e sul massimo bisogno di protezione dell’organizzazione statuale”[41]. I riferimenti al soggetto del potere d’imperio e al concetto di «sovranità» evocano chiaramente, ancòra una volta, l’ascendente teorico di tipo gius-positivistico contro il quale si indirizza la critica dianzi richiamata.

L’origine teorica del mutato atteggiamento nei riguardi del concetto di «persona» ha prodotto quindi ésiti rilevanti anche per la dogmatica penalistica, in rapporto alla quale a me sembra se ne debbano lumeggiare due specifiche, e non trascurabili, conseguenze. Esse sono, da un canto, la sostanziale corrosione dei tratti etico-spirituali nella «descrizione antropologica» della persona-vittima del reato; da un altro canto, l’invalicabile scoglio operativo, a quest’ultima strettamente intrecciato, che il penalista incontra nell’«afferrare» concettualmente i beni spirituali della persona medesima. Su tali aspetti merita soffermarsi adeguatamente.

«More geometrico», la prima conseguenza è affatto obbligata, poiché la contrapposizione tra «persona reale» e «diritto» – già messa in «aporia» da Mauro Ronco sul versante del soggetto «autore» del reato[42] – non può non estendersi specularmente – pena la patente e irriducibile contraddizione dell’intero sistema – fino a sagomare le sembianze specifiche del soggetto «vittima» dell’illecito penale. Questa radicale «rimozione» della tematica dell’essere personale violato dal contegno penalmente rilevante appare graniticamente scolpita sia nelle elaborazioni dogmatiche di uno tra i più illustri padri spirituali della codificazione del 1930, sia nelle intenzioni dello stesso legislatore, a riguardo delle quali due esemplificazioni costituiranno asseverazione della fondatezza dell’assunto.

La prima si riferisce alle parole sferzanti e perentorie utilizzate da Guido Gonella, nel 1938, contro l’opera fondamentale – il Trattato – di uno tra i più autorevoli padri spirituali della codificazione del 1930, le quali credo esimano da ogni commento: “Casi tipici della mancanza d’ogni interesse per l’approfondimento concettuale delle nozioni tanto correnti quanto imprecise, si hanno nella vasta letteratura del cosiddetto tecnicismo-giuridico che fa consistere la tecnica nella rigorosità delle deduzioni da principii i quali – con assai scarsa avvedutezza critica – si considerano postulati, mentre – molto spesso – non sono che comodi artifici verbali […] Il Manzini, per esempio, dedica un volume di quasi novecento pagine per classificare, distinguere e suddistinguere i delitti contro la persona […], senza minimamente interessarsi, neppure introduttivamente, di precisare che cosa egli intenda per persona. Nelle «Generalità» l’Autore avverte solo che è interesse dello Stato «la sicurezza della persona, cioè la vita e l’incolumità fisica e morale delle singole persone. Il «cioè» sviluppa il concetto di sicurezza ma non quello di persona. Questa tipica imprecisazione di nozioni mantiene sospeso nel vuoto il sistema teorico delle pene per i delitti contro la persona”[43].

La seconda si rapporta al disarmante candore col quale, nella Relazione introduttiva agli Atti della commissione ministeriale incaricata di dare un parere sul progetto preliminare del codice Rocco, il Presidente, S.E. Giovanni Appiani, nelle «Considerazioni di sistema» in tema di delitti contro la «personalità individuale», sgombra il terreno del confronto legislativo sull’accezione di «libertà» rilevante per il diritto penale: essa, “intesa come condizione preesistente al diritto, come stato favorevole all’esplicazione della volontà individuale ed alle manifestazioni di tale volontà, non può costituire, in senso proprio, l’oggetto del diritto penale, perché di per sé non è un diritto soggettivo, né un interesse protetto”, mentre “oggetto della tutela penale sono gl’interessi che, entro i limiti dell’ordine giuridico, competono alla persona nei riguardi degli altri individui e degli organi dello Stato”[44]. Sconcertante è la radicalità dell’affermazione: «persona» e «libertà» del soggetto passivo del reato sono concetti inesistenti in rerum natura, ma, per dirla con il Lord Chancellor, aleggiano tra le maglie del legalismo come semplici phantasmata sensus et imaginationis[45]! E, d’altra parte, bisogna prendere atto della coerenza logica dell’intentio legislatoris ove si consideri che i concetti di «persona» e «libertà», delle quali si interessa il penalista, non sono quelle reali, ma quelle virtuali, la cui esatta fisionomia costituisce il semplice precipitato esegetico dei disposti normativi al modo indicato dal formalismo giuridico[46].

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