Cosa resta dell’istituzionalismo giuridico?
di Aristide Tanzi
Ma c’è un senso più profondo di adesione emotiva e simpatetica al ruolo che la tradizione, l’appartenenza, il legame culturale e genetico ricopre per l’individuo, anche il più oscuro e solitario; il che fa pensare alla influenza di elementi esistenziali che, con il passare degli anni, troveranno nel suo pensiero un più compiuto e definitivo posto, sovrapponendosi alle primitive istanze neokantiane e ontologiche. Ho in precedenza accennato al fatto che Hartmann considera la forza del diritto non solo ancorata al rapporto norma, violazione, destinatario; ma soprattutto come elemento di difesa e sicurezza sociale. In tal senso si avvicina a quanto è presente anche nel pensiero di molti istituzionalisti. Significative al riguardo possono essere considerate le affermazioni che si possono rinvenire in autori come Gurvitch, Renard e Romano; di quest’ultimo anticipo un’osservazione che segnalo per la sua esemplare chiarezza ed espressività:«Il diritto non consacra soltanto il principio della coesistenza degli individui, ma si propone di vincere la debolezza e la limitazione delle loro forze, di sorpassare la loro caducità, di perpetuare certi fini al di là della loro vita naturale, creando degli enti sociali più poderosi e più duraturi dei singoli. Tali enti vengono a stabilire quella sintesi, quel sincretismo in cui l’individuo rimane chiuso; è regolata non soltanto la sua attività, ma la sua stessa posizione, ora sopraordinata ora subordinata a quella di altri, cose ed energie sono adibite a fini permanenti e generali, e ciò con un insieme di garanzie, di poteri, di assoggettamenti [25] ».C’è indubbiamente in Romano la presenza tangibile di una concezione del diritto proiettata a riconoscere anche gli aspetti etico sociali oltre che quelli tecnici. Sembra quasi che la ferma presenza del diritto, la sua rilevanza, si estenda ai margini dell’orizzonte del dover essere, a soccorrere la finitezza umana attraverso l’apporto dell’organizzato e del consolidato [26] . A Romano, in momenti diversi ma ricorrenti, è stato rimproverato di voler dilatare oltre ogni misura il diritto (l’accusa di pangiuridicismo era stata formulata anche nei confronti di Kelsen). A me sembra che nelle sue opere, anche se sporadicamente, si può scorgere una visione che vuole far emergere anche il ruolo di supporto che il diritto gioca dinanzi alle solitudini e incertezze dell’uomo. 5. Universalità e singolaritàDi fronte a un’antinomia che sembra irresolubile – non perché storicamente realizzatasi ma in quanto ontologicamente presente nell’uomo – Hartmann non tenta un suo superamento appagante, come in qualche modo hanno tentato alcuni esponenti dell’idealismo storicista [27] . Proprio il reciproco condizionamento teleologico tra individuo e totalità dimostra come questi siano connessi da un punto di vista ontologico e, nella concreta esperienza, pur nella opposizione, «il vincolo degli elementi è sempre più forte del loro divergere». Ma non si tratta qui di giungere alla soluzione dell’antinomia, quanto di prenderne atto; il rapporto antinomico viene a realizzarsi nelle materie stesse, è tutto interno a quella continuità di valori che «si estende tra gli estremi». Il gioco sembra affidato solo «all’orientamento concreto dei compiti vitali, di fronte ai quali questa antinomia pone l’uomo» [28] . La vita precipita l’uomo spesso dinanzi a decisioni continuamente nuove, data l’infinita molteplicità delle situazioni. Ed è questo – afferma Hartmann – che fornisce valore al dispiegarsi della vita morale. La tensione tra valori in conflitto diventa allora «il più forte stimolo interiore dell’umano produrre, dell’impegno, dell’umana capacità di responsabilità» [29] .Le considerazioni di Hartmann credo che possano rappresentare un aiuto prezioso anche nell’ambito della scienza giuridica, dinanzi ai dubbi che quotidianamente qui si presentano sul problema del metodo e sulla natura stessa del diritto, su quella idea cardine della norma come un dover essere generale e sulla consapevolezza, sempre più avvertita, che ogni giudizio ha in sé i caratteri dell’individualizzante e dell’irripetibile [30] . L’etica del Novecento, di cui Hartmann è stato uno dei protagonisti più sensibili, ha ben colto i rischi e le aporie delle complesse costruzioni ottocentesche, sia metafisiche sia idealistiche, apparentemente inattaccabili e granitiche ma impotenti a dare risposte giuste a quesiti nuovi. La posizione di Hartmann evidenzia, d’altra parte, un atteggiamento che richiama alcuni modelli, come quelli istituzionalisti, che almeno apparentemente si pongono in contrapposizione con quelli kelseniani. Hartmann infatti, pur non essendosene occupato direttamente, accenna a un rapporto diverso tra diritto e organizzazione soggiacente; il che fa pensare, pur essendo egli lontano da ogni simpatia sociologica o empirista, a quanto verrà valorizzato soprattutto dalle teorie giuridiche istituzionaliste.Prima di descrivere e commentare i metodi, le argomentazioni, le finalità di queste teorie, occorre eliminare un grosso luogo comune che ancora sopravvive nei loro confronti. Si continua a ripetere che esse si occupano in prevalenza del rapporto tra diritto e società. Ora credo che non ci sia mai stato, dal pensiero greco in poi, nessun giurista che, pur con sensibilità e metodologie diverse, non si sia interessato in qualche modo alle implicazioni, ai rapporti, e anche alle differenze tra diritto e società.Si percepisce come le bipolarità, gli estremi, i valori antinomici che la scienza giuridica, e soprattutto la teoria del diritto, trova sul suo cammino, non appartengano solo ad essa, ma siano correlati – più di quanto lo stesso giurista immagini – sia con il mondo della conoscenza sia con quello della riflessione etica. Incontrare valori e quindi interessi, giuridicamente rilevanti – che a quei valori appunto si richiamano – significa approfondire le ragioni che legano diritto e mondo dell’etica, e nello stesso tempo percepire in profondità i legami tra formulazioni giuridiche e socialità. Singolare in tal senso appare l’esperienza istituzionalista di un raffinato autore come Cesarini Sforza, di cui più avanti si esaminerà in dettaglio lo svolgimento di pensiero; in un gruppo di frammenti e note di lettura alla traduzione italiana della Teoria dell’istituzione e della fondazione di Maurice Hauriou, egli così si esprime: «La teoria dell’istituzione prende il suo senso dal conflitto tra individuo e Stato-società, indicandone il superamento. Ma il suo senso profondo consiste nella relazione necessaria (di cui il suddetto conflitto è solo un aspetto empirico e superficiale) tra soggettivismo e oggettivismo, due forme di vita che non si possono contrapporre perché si convertono continuamente l’una nell’altra – e appunto in ciò consiste il ritmo vitale della realtà giuridica» [31] . 6. Usi diversi dell’istituzionalismoHo appena accennato al significato che l’istituzionalismo può avere in discipline diverse dal diritto. Un uso interessante è stato realizzato nell’ambito sia della linguistica sia dell’economia, nel senso che in tali contesti non solo si è fatto un parallelo con il diritto – cosa non nuova nella cultura occidentale – ma è stato apertamente richiamato il riferimento al concetto di istituzione. 6.1 Lingua e istituzioneDi “istituzionalismo linguistico” hanno scritto, subito dopo la seconda guerra mondiale, due illustri studiosi come Giovanni Nencioni e Giacomo Devoto (Ius. Di là dalla grammatica, 1948) che hanno anche operato a Pisa, nel contesto culturale della locale Università e della Scuola Normale. Non credo che tale tentativo sia maturato per caso nella stessa città che nel 1917-18 aveva visto nascere L’ordinamento giuridico di Santi Romano e sul finire degli anni trenta, da parte di Spirito, Cesarini Sforza, Calogero, Cantimori, e molti altri, una sorta di revisionismo di sinistra dell’allora trionfante filosofia idealistica di Giovanni Gentile e di critica interna del regime fascista. Non dimentichiamo che Gentile a lungo è stato direttore proprio della Scuola Normale e influente professore di varie materie filosofiche, oltre che di filosofia del diritto, all’università di Pisa, prima di essere chiamato a importanti incarichi politici e culturali [32] .Per Nencioni ( Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, 1946) l’oggettività della lingua è in particolare la oggettività della realtà istituzionale e sistematica. Se nel diritto c’è un corpo di regole e di volontà, nella lingua c’è un complesso di mezzi espressivi e comunicativi [33] . Riprendendo una tradizione culturale consolidata, quella sul rapporto tra diritto e lingua, che già alcuni grandi studiosi come Vico, nel ’700, e Savigny nel primo ‘800 avevano così ampiamente analizzato, Nencioni la ribalta in quanto non accosta solo il diritto alla lingua, ma paragona addirittura alcune tecniche della linguistica ad alcune concezioni e metodiche, come quelle istituzionaliste, presenti nel mondo giuridico.L’argomento è talmente ampio che richiederebbe un adeguato e autonomo approfondimento. Voglio solo ricordare che alcuni studiosi, come Mario Jori, hanno richiamato l’attenzione sul fatto che il linguaggio e il discorso giuridico moderno non possono essere ricompresi né nel modello della lingua naturale, né nel modello del linguaggio totalmente artificiale, ma in quello intermedio del linguaggio cosiddetto amministrato, caratterizzante proprio il diritto. Il parallelismo tra diritto e lingua naturale, osserva Jori, non deve farci perdere di vista le differenze di funzionamento tra i due ambiti né che in quel parallelismo spesso si cela un «elemento surrettizio di metodologia giuridica prescrittiva»; si cerca, forse anche inconsapevolmente, di accreditare l’ipotesi di una scelta metodologica in cui vanno acquistando un particolare e sempre più influente ruolo, non solo il complesso del sistema delle regole giuridiche, ma la consuetudine, la dottrina e la pratica giurisprudenziale [34] .Anche Salvatore Pugliatti (1903-1976) si è ampiamente occupato del ruolo e del rapporto diritto linguaggio, visto soprattutto all’interno della dogmatica giuridica. Contro alcuni aspetti delle teorie istituzionali, Pugliatti guarda al concetto di ordinamento in chiave molto tradizionale. Affinché si possa parlare di ordinamento giuridico è necessario per lui che «al centro della organizzazione sia collocata una volontà superiore capace di imporsi per mezzo del proprio potere d’imperio [35] ». Ciò si realizza particolarmente nell’organizzazione statuale, dotata di potere sovrano; qui Stato e diritto appaiono come termini tra loro inseparabili. Eppure, all’interno di un sistema normativo fortemente strutturato, acquista rilievo il ruolo del linguaggio, anche attraverso i suoi elementi simbolici o metaforici. Per mezzo della metafora si assiste, infatti, ad una specie di sopraffazione dell’elemento percettivo su quello logico, in quanto l’efficacia espressiva si basa sulla forza suggestiva dell’immagine.Il linguaggio, legato all’esperienza, la riflette e la realizza nell’espressione, per cui non può essere considerato un semplice sistema simbolico, come quello matematico; spesso «il linguaggio esprime il contenuto della nostra attività spirituale: idee e sentimenti» [36] . Il linguaggio scientifico è, al contrario, composto da espressioni che hanno un solo e determinato significato ed è quindi, a suo modo, un linguaggio artificiale basato sulla duplice condizione di essere perfetto e non suscettibile di modificazioni. Si tende così a costruire dei sistemi linguistici rigorosi che, partendo da alcune fondamentali proposizioni, tentano di definire, con l’uso di procedimenti analitici, ogni termine utilizzato, per evitare dubbi ed ambiguità. Partendo da tali posizioni, si è tentato di giustificare la cosiddetta scientificità della giurisprudenza, ma il compito si è rivelato estremamente difficoltoso.