Cosa resta dell’istituzionalismo giuridico?
di Aristide Tanzi
Da qui l’importanza che l’istituzionalismo giuridico ha rappresentato anche per il diritto pubblico in genere, e per il diritto amministrativo in particolare; 6- fanno riferimento a discipline quali il diritto internazionale, il diritto canonico, il diritto del lavoro, che per tradizione culturale guardano a norme e fonti produttive di effetti giuridici diverse e più autonome rispetto alle fonti normative statuali; 7- sviluppano uno schema che, vedendo nelle costruzioni concettuali del diritto privato una sorta di retaggio di concezioni individualistiche, tenta di introdurre modelli alternativi dove assume rilievo il diritto pubblico. Non sono mancati comunque già in passato, come dirò, tentativi istituzionalisti che hanno cercato di superare la contrapposizione pubblico – privato (cfr. Cesarini Sforza); 8- nell’ambito della teoria del diritto hanno fatto emergere e hanno delineato i profili di concetti giuridici come istituto, istituzione, organizzazione, ordinamento, atto complesso, fatto normativo. Le dottrine istituzionaliste nel loro sviluppo si sono confrontate, anche dialetticamente, con altre concezioni del Novecento quali: il realismo americano e scandinavo, le dottrine giuridiche decisioniste, la sociologia giuridica, le teorie del rapporto giuridico e quelle cosiddette relazionali. Emerge, in un quadro tanto complesso, il tentativo non tanto di contrapporre il concetto di norma a quello di istituzione – come banalmente si potrebbe intendere – quanto l’intenzione di evidenziare il pluralismo delle fonti normative e la natura delle sempre diverse manifestazioni giuridiche che la società in trasformazione ci presenta, in confronto anche alla consolidata rigidità di alcune scelte metodologiche adottate dalla scienza giuridica più tradizionalista (penso in particolare alla concezione che ha visto nel diritto esclusivamente l’idea del comando). Ciò spinge inevitabilmente a estendere la qualificazione di giuridico anche ai momenti delle relazioni tra soggetti e gruppi sociali, dove si costituiscono, si affermano o si consolidano principi di regolamentazione, istanze di procedure, valori culturali che il diritto, nella fase di formalizzazione codificatoria, successivamente riconosce e garantisce. Del resto già Hermann Kantorowicz nell’ultimo suo saggio La definizione del diritto (pp. 56-57) si era chiaramente espresso, pur richiamandosi alla netta separazione tra fatti e valori, sulla circostanza che è difficile individuare una società che sia, per quanto primitiva, completamente priva di diritto e di alcune nozioni giuridiche e che solo un arbitrario collegamento tra diritto e Stato aveva portato spesso a escludere, dalla competenza del giurista, diritti come il diritto canonico e il diritto consuetudinario. Kantorowicz non mancava di tessere le lodi di alcune concezioni antiformaliste italiane. «È un merito del Croce e di altri filosofi italiani – aveva apertamente affermato – l’aver insistito nell’accogliere come diritto perfino le norme di una società proibita dallo Stato» [12] .In alcuni modelli delle dottrine istituzionaliste, lo ripeto, possiamo avere concezioni nel fondo diverse che possono apparire – faccio solo alcuni esempi – conservatrici [13] come quelle di Romano, giusnaturaliste come quelle di Renard, socialiste e libertarie come quelle di Gurvitch. Si può ben dire che tutte comunque intendono, con diversa sensibilità, rappresentare e descrivere l’emergere di nuovi soggetti giuridici, di nuove forme contrattuali e organizzative, di nuovi principi giuridici cui ispirarsi. 4. Un apporto filosofico alle teorie istituzionalisteSpesso è stato posto l’accento sul confronto dell’istituzionalismo giuridico con alcune delle più note teorie sociologiche. Penso in particolare al rapporto tra Hauriou e certe intuizioni di Durkheim o al conflitto dialettico di Gurvitch nei confronti di Parsons. Questo rapporto dai giuristi è stato visto come un forte limite dell’istituzionalismo, dai filosofi come un indelebile marchio da cancellare. Intendo allora accennare al ruolo e alle suggestioni che un pensatore lontano dalla sociologia e anche dalle correnti istituzionalistiche come Nicolai Hartmann ha potuto offrire alle teorie giuridiche istituzionaliste. Malgrado che queste, ad eccezione di Gurvitch, abbiano ignorato del tutto Hartmann si forma, come è noto, all’interno del neokantismo della scuola di Marburgo. Studia con Cohen e con Natorp cui succede nella cattedra nel 1922. Oltre che amico di Kelsen, ne sarà collega all’Università di Colonia; studierà con attenzione i risvolti filosofici della dottrina pura del diritto e sarà, per così dire, un critico interno del concetto di validità kelseniana.A distanza di più di mezzo secolo dalla sua scomparsa, la figura di Hartmann, dopo qualche decennio di leggero appannamento, è tornata in realtà ad essere uno degli snodi fondamentali per capire la nascita e lo sviluppo di molte correnti del pensiero contemporaneo: il neokantismo, l’ontologia critica, la fenomenologia, l’esistenzialismo [14] .L’Etica può essere considerata una delle voci più alte della cultura filosofica del Novecento. Alterna pagine di difficile o complessa lettura ad altre in cui il discorso acquista un tono e una dignità sapienziale. Soprattutto nel secondo volume dedicato alla Assiologia dei costumi, i temi del diritto e della società organizzata giuridicamente sono percepiti nella loro complessità, sono visti all’interno del processo di individuazione e qualificazione dei valori. Il discorso di Hartmann cerca comunque di spazzare antichi e consolidati luoghi comuni, soprattutto quelle tradizioni filosofiche ridotte a schemi e a preconcetti.Contro l’esaltazione del valore globalizzante della totalità (ampiamente applicato anche nel linguaggio del diritto, si pensi ad esempio al significato di ordinamento, di persona giuridica, di organo, di istituzione, ecc.), egli si richiama al significato che spesso si assegna alla presunta opposizione tra due concetti come totalità e individuo. Prima di procedere ad un loro esame analitico, Hartmann vuole individuare il rapporto che li lega a concetti consimili. «L’universalità è l’intera uguaglianza dei casi, la totalità è invece il loro essere congiunti in una più grande unità» [15] . Mentre la prima è una coincidenza qualitativa, la seconda assume il significato di unione quantitativo numerica di casi nel loro concreto rapporto ontico, senza che si badi all’uguaglianza o alla diseguaglianza. La totalità è soprattutto «abbracciamento concreto», unità non comparativa ma comprensiva. Analogamente, solo in apparenza possono essere confusi individualità e individuo; «l’individualità è la unicità del caso; l’individuo al contrario è il caso stesso, indipendentemente dal fatto se esso sia simile o dissimile rispetto ad altri casi» [16] . Un individuo resta tale anche se posso inserirlo in un ambito universale; ma è del tutto indifferente all’uniformità e allo schematismo dell’universale. In questa chiara distinzione, Hartmann vuole però spingerci quasi al paradosso; infatti se noi consideriamo il rapporto che lega un individuo con gli altri individui, possiamo avvederci di un fatto, cioè che gli altri «individui non sono appunto ripetizioni dell’uno, ma egualmente originari essere singoli, singolarità ontologicamente altrettanto essenziali» [17] . L’essere individuo non indica quindi individualità, ossia unicità; ma è comune a tutti, rappresenta il segno di una uguaglianza di principio e di universalità. È allora la totalità ad apparire come unica e individuale, mentre l’individuo è in qualche modo «universale e indifferente a ogni individuazione contenutiva».Secondo consolidate concezioni, i grandi compiti morali – argomenta Hartmann – sono spesso riconosciuti solo in relazione all’idea di totalità (l’essere comune giuridico, le conquiste delle civiltà, il sistema sociale, ecc.). In essa si respira l’idea di una vita più ampia e complessa rispetto a quella degli individui. È alla comunità che si attribuisce, o si tenta in vario modo di riconoscere, il supremo valore etico che va dall’ordine giuridico sino ai più alti ideali della cultura. La totalità diviene allora come la portatrice morale di valori, è la «sostanza nella quale si perseguono i fini lontani e i compiti di maggior respiro dell’uomo». Il singolo collabora a tali compiti, subordina se stesso, riconoscendo la loro superiorità e facendo di sé un mezzo “cosciente” per la loro realizzazione. L’organizzazione sociale, di qualunque genere e grado, acquista un suo valore autonomo e ideale, quasi estraneo alle figure che le hanno dato vita; è forse definibile come«qualcosa la cui realizzazione, pur nel più unilaterale degli sfiguramenti, è ancora fornita di valore, perché la sua negazione è lo scatenamento del privato egoismo» [18] .Tutt’altro problema è in realtà vedere quali siano effettivamente i valori più elevati e quali siano i limiti della loro realizzabilità.Contro le filosofie che esaltano la comunità come valore esclusivo e assoluto, contro il loro significato totalizzante, il pensiero di Hartmann si muove con circospezione ma con fermezza alla ricerca di antinomie e di correlazioni. Nei confronti del valore dell’individuo spesso – egli osserva – si è mossa l’antica morale della totalità; eppure la totalità non può essere considerata come fornita di personalità nel pieno senso della parola. «Essere persona significa essere soggetto, essere consapevole, con tutti gli atti e i contenuti più diversi che gli sono propri» [19] . Solo l’individuo li possiede; ne discende che i valori più elevati che possono essere realizzati nella comunità non sono della comunità ma degli individui. Certi tipi di valore, come l’idea dell’ordinamento giuridico e dell’ordinamento statale, riguardano certamente l’essere comune e non l’individuo che vi prende parte; ma i valori morali, com’è il valore che spinge verso la comunità, è proprio dell’essere singolo.Non viene qui contestato il diritto della morale della comunità, viene solo riaffermato un «diritto profondamente fondato dell’etica individuale contro l’orientamento unilaterale della pura etica della comunità» [20] . Nella concreta esperienza, ambedue le concezioni appaiono ad Hartmann, a loro modo, tiranniche ed esclusive: 1. L’individuo, dal punto di vista della totalità, sembra avere natura «fugace ed effimera»; appare e scompare nella vita della totalità, è nella sua ombra, e perviene a grandezza storica solo se ne asseconda, promuove, o al limite ostacola il processo storico. Si viene così a realizzare il fatto che la comunità mostra di tollerare solo gli individui che possano corrispondere ai suoi scopi; al contrario «respinge gli inservibili, li bolla come delinquenti, li annienta nella sua giurisdizione orientata alla vita della totalità, o ne neutralizza la pericolosità» [21] . 2. A questa etica sociale si contrappone una visione che concepisce l’individuo come colui che riesce a perseguire fini e scopi propri; la comunità deve essere il mezzo per il raggiungimento di questi scopi, è in funzione di essi, assicurando un ordine e una struttura associata solo in relazione alla vita privata e individuale. Se la totalità tollera gli individui che si adattano ad essa, l’individuo rifiuta una totalità di cui non possa servirsi, quasi persuaso che la grandezza umana non risiede nella massa [22] ma solo nel pervenire a «una misura di valore più elevata di quella comune».Le due teorie cadono nell’errore pericoloso dell’astrazione e della unilateralità. «La supremazia dell’uno come dell’altro valore fondamentale è usurpazione» [23] . La totalità esiste solo in astratto e deve quindi lasciare all’individuo i valori che gli sono propri; in caso contrario annulla se stessa. Il tutto (la totalità) non può infatti considerarsi come scopo primario e unico, sino a quando non si avveda di essere nello stesso istante anche un mezzo della parte (individuo). L’individualismo assoluto è anch’esso manifestazione di astrazione: vi si nasconde la falsa pretesa di essere considerato come un unico isolato. È facile vedere come l’uomo, al contrario, sia parte della più complessa e articolata vita comunitaria. «Egli è nato dentro di essa, attinge da essa i beni comuni; attraverso l’eredità, l’impercettibile adattamento, l’educazione, si inserisce sempre più nelle già approntate forme di vita, che egli non creò, partecipa dell’essere comune, della formazione e della cultura, della concezione della vita e del mondo» [24] . C’è in Hartmann un ripetuto e costante richiamo al significato della vita comunitaria, che in alcune sue opere, l’ho accennato, è analizzata alla luce di molteplici aspetti: l’arte, il diritto, la politica, anche i modi di vita.