TEMI E PROBLEMI DI SCIENZA GIURIDICA
Il dibattito in Italia prima della nascita della scuola analitica di Torino
di Federico Casa

Oppure ancora del neo-kantismo della Scuola di Marburgo, la cui metodologia, almeno astrattamente, avrebbe dovuto consentire di finalmente fondare una soddisfacente scienza giuridica, che avrebbe consentito il superamento di quella proposta dal positivismo [115] e dal neo-idealismo crociano [116] . Non è certo questo il momento di affrontare la complessa e articolata questione risalente alle diverse interpretazioni che avrebbe assunto il tentativo di applicare al campo del diritto il metodo della Critica della ragion pura e di apprestare quindi una logica giuridica nel senso della Logica trascendentale di Kant, cioè rivolta a determinare le forme pure, le categorie a-priori che condizionano l’esperienza del diritto ma nel contempo in grado “di conoscere le origini storiche del diritto e valutare questo, secondo l’ideale di giustizia desunto dalla pura ragione” [117] . Ma sia sufficiente evidenziare che in Italia aveva trovato particolare diffusione quella tendenza nata con Igino Petrone e giunta fino a Giorgio Del Vecchio passando attraverso Rudolf Stammler, in virtù della quale la definizione di concetto di diritto viveva attraverso le note distinzioni kantiane di forma e materia, concetto ed idea [118] , per rappresentare una forma pura esprimente l’insieme dei caratteri incondizionatamente universali del diritto che lo avrebbero reso differente dalla morale, dal costume, dall’arbitrio [119] . Si registra una netta separazione tra l’ideale del diritto, a cui corrisponde il fine deontologico della filosofia del diritto, e il concetto di diritto [120] al quale corrisponde il criterio logico, “forma trascendentale” [121] dell’esperienza, il quale dovrà essere ricercato eliminando il materiale empirico, per poi porsi prima dell’esperienza concreta e costituendone la condizione di esistenza. Se il diritto era la forma a priori della realtà sociale e contemporaneamente il parametro che imprimeva il carattere della giuridicità all’esperienza concreta, l’obiettivo della scienza giuridica diventava allora quello dell’individuazione “di una forma a priori della giuridicità sottratta ad ogni condizionamento ideologico ed empirico” [122] . Ne risultava una scienza del diritto che, pur avendo abolito la distinzione tra scienze naturali e storia fondata sull’oggetto per sostituirvi una basata sul metodo, pretendendo di essere pura, prestava il fianco ad almeno due ordini di possibili critiche. Infatti, se effettivamente fosse una scienza giuridica pura, il che significherebbe aver fatto della validità giuridica l’unico vero problema della giurisprudenza, rimarrebbe quantomeno la questione di comprendere come potesse questa scienza ritrovare l’universale logico del diritto, condizione essenziale dell’esperienza giuridica e nel contempo immanente ad ogni aspetto empirico del diritto. Ma, a ben vedere, era una giurisprudenza che non era nemmeno pura e cioè scevra da implicazioni metafisiche. Quella proposta era infatti una scienza giuridica che potrebbe essere definita trascendentale [123] , dato che “se la definizione del diritto riesce a sollevarsi ben oltre un’astratta generalizzazione delle norme giuridiche”, ciò è possibile solo perché la relazione formale dell’universale logico poggia su un principio etico, il che fa sì che il diritto non sia più indifferente al suo contenuto”, come avrebbero preteso la Scuola di Marburgo e Giorgio Del Vecchio [124] .

E non è probabilmente un caso, se uno dei più attenti studiosi del diritto positivo del secolo scorso, in ogni caso il più noto avvocato del dopoguerra, Francesco Carnelutti, accortosi dell’ormai irreversibile crisi del positivismo giuridico, quando aveva voluto recuperare un ruolo alla filosofia del diritto ed alla scienza giuridica, aveva riproposto nei suoi scritti filosofici tutte le più diffuse tesi sui rapporti tra filosofia e scienza, del positivismo filosofico prima, del neo-kantismo dopo, via via fino al giusnaturalismo, senza mai effettivamente cogliere la reale problematicità di tale rapporto. Dall’actio finium regundorum del 1923, alla concezione della filosofia del diritto intesa come scientia altior [125] , in cui non era chiaro se fosse maggiore l’influsso del positivismo oppure quello del neo-kantismo della Scuola di Marburgo, la quale consentiva di rispondere “all’aspirazione istintiva del giurista di vedere nella filosofia un campionario di concetti, cui ricorrere per conoscere esattamente il significato di nozioni generalissime, che per lo più, sono sfuggenti […]”, anche se egli “ha bisogno di conoscere esattamente l’almeno l’uso di alcune nozioni generali che frequentemente maneggia: per esempio persona, fatto, tempo, giudizio”, rispetto ai quali egli “vorrebbe sbrigarsene, chiedendo al filosofo la definizione dei concetti di questo tipo”, il quale fornisca al giurista “le nozioni che servono alla pratica e alla scienza del diritto e mostri, in tal modo, la sua utilità” [126] . Fino alla costruzione della filosofia giuridica come esigenza metalogica o deontologica [127] , in cui il giurista friulano faceva sue le tesi del giusnaturalismo per un verso, e del neo-kantismo della Scuola sud.occidentale per un altro.

Eppure i giuristi erano perfettamente consapevoli che in crisi era non solo l’idea che tutto il diritto dovesse coincidere con il diritto legale e che quest’ultimo era indipendente ed autonomo rispetto a qualsiasi realtà sostanziale, così sancendo, in nome della certezza del diritto, il prevalere di una concezione assolutamente formale delle legge giuridica, totalmente slegata da ogni riferimento al contenuto delle realtà, ma anche soprattutto la metodologia giuridica del positivismo giuridico, la quale, a ben vedere, rappresentava la conseguenza dell’aspirazione di dare vita ad un sistema dotato della precisione del sistema matematico, ove concetti e definizioni dovevano essere perfettamente coerenti l’uno con l’altro, e “tali da non patire eccezioni, insomma veri e propri dogmi, sulla cui esattezza si voleva credere fermamente” [128] . E’ pur vero che anche recentemente è stato osservato in modo particolarmente acuto, come il positivismo giuridico non sarebbe stato un particolare modo d’intendere l’esperienza giuridica, ma il naturale effetto di una puntuale opzione epistemologica: “si fa la scienza come scienza del diritto positivo perché interessa fare la scienza del diritto, e [si trova] nel diritto positivo l’oggetto che la rende possibile, e le si assegna appunto questo oggetto” [129] ; ma è altrettanto vero che la scelta di questo o di quel metodo giuridico era comunque strettamente correlata ai diversi modi d’intendere la realtà giuridica, rispetto alla quale appunto la metodologia giuridica costituiva uno strumento per comprenderla.

Occorre, infatti, riflettere sul fatto che, come si è cercato di suggerire finora, le più diffuse dottrine filosofico-giuridiche dei primi decenni del secolo scorso, se da un lato, avevano fornito dei modelli di scienza giuridica non solo intrinsecamente contraddittori ma operativamente del tutto inefficaci, anche se ciò risulterà molto più chiaro nel proseguo della trattazione quando la disamina degli stessi sarà svolta analiticamente, e spesso del tutto incoerenti rispetto al sistema filosofico del quale erano emanazione, dall’altro, avevano finito per concordare, più o meno consapevolmente, con i dogmi del positivismo giuridico, dal quale, e qui sta il nocciolo del problema, tutte programmaticamente avevano inteso prendere le distanze.

Basti pensare alla filosofia sociale “positivista” di Comte, oppure a quella di Bentham e J. St. Mill, oppure ancora alla “dottrina dell’evoluzione” di Darwin, nelle quali l’empirismo diventava aspirazione a bandire ogni istanza “metafisica” dalla scienza ed “a limitare quest’ultima ai “fatti” ed alla loro conformità a leggi”, le quali devono essere esaminati empiricamente. D’altro canto, la trasposizione all’esperienza giuridica dell’istanza del positivismo significava “occuparsi esclusivamente del diritto positivo”, dato che occorreva limitarsi ai “fatti, a quanto è realmente esistente” [130] : “solo ciò che funziona come diritto è diritto, e nient’altro; e tutto questo è diritto senza eccezione” [131] , non interessando “quale contenuto di pensiero si dia al preteso diritto non positivo, e quale posto si assegni a questo contenuto, da un qualsiasi punto di vista”, considerato che “ogni diritto al di fuori di quello positivo è, come diritto, un non senso” [132] . Poco rileva, poi, che siano i fatti psicologici di Bieling, i quali “si trova[no] nella coscienza degli uomini”, oppure che coincidano con i fatti della vita sociale del primo Jhering, visto che “si riferiscono al comportamento sociale degli uomini”, oppure ancora, “nel tentativo di rivendicare alla scienza giuridica un oggetto puramente ideale”, e per coloro i quali vogliono ancora considerare il filosofo di Praga un positivista e non un neo-kantiano, con i comandi che risultano conformi alla Grundnorm. Infatti, ciò che conta è che tutte le teorie giuridiche positiviste erano perfettamente concordi “nell’intendere il diritto esclusivamente come “diritto positivo” e nel rifiutare, invece, come “non scientifica”, la ricerca di qualunque principi o giuridico “soprapositivo”, di un “diritto naturale” o dell’idea del diritto come sostanziale a priori logico di ogni diritto”, anche se dalle predette teorie “derivano conseguenze molto diverse anche per la metodologia giuridica” [133] .

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