TEMI E PROBLEMI DI SCIENZA GIURIDICA
Il dibattito in Italia prima della nascita della scuola analitica di Torino
di Federico Casa

In altri termini, se nel 1909 con la Logica come scienza del concetto puro, la sfera pratica si sarebbe finalmente saldata con quella teoretica, entrambe forme dello spirito, dando vita a quello che sarebbe stato definito lo “storicismo assoluto” di Benedetto Croce [307] , dato che anche le scienze naturali venivano ora accolte nell’ambito dello spirito, sia pure nella sfera “pratica”, conducendo il filosofo “a rifiutare ogni loro ipostatizzazione ed a sottolinearne il carattere empirico, limitato, contingente, cioè in una parola “storico” [308] ma rimaneva una conoscenza di “pseudoconcetti”, e, se di lì a qualche anno, con Teoria e storia della storiografia, l’identificazione della filosofia con la storia sarebbe divenuta definitiva coincidenza della filosofia con la storiografia [309] , sarebbe risultato chiaro che la rivalutazione della giurisprudenza dall’interno del neoidealismo crociano non poteva avvenire tramite un ri-pensamento della teoria dei “pseudoconcetti”, ma solo a partire dall’idea che conoscere la realtà significa anche riflettere sulle modalità con le quali tale realtà sia stata conosciuta.

Lungo questa via, chi avesse voluto riscoprire il ruolo della giurisprudenza senza dimenticare le imprescindibili ascendenze crociane, non avrebbe potuto che concludere il diritto poteva essere conosciuto attraverso lo studio di quella scienza che si sarebbe occupata del diritto, la giurisprudenza. Ne derivava l’idea che la scienza fosse la coscienza che l’esperienza giuridica ha di sé, cosicché lo studio della stessa avrebbe rappresentato una via particolarmente significativa, al fine di cogliere l’intima essenza della realtà giuridica. E’ pur vero che attraverso questo percorso l’interesse per la scienza del diritto diventava mediato dalla necessità di meglio conoscere filosoficamente il concetto del diritto, ma è altrettanto vero che in tal modo la scienza giuridica non rappresentava solo un privilegiato osservatorio dell’esperienza giuridica, ma essa stessa diveniva partecipe del concetto stesso del diritto [310] .

Infatti, se correttamente decodificata, la gnoseologia crociana, che pure non aveva lasciato spazio alcuno alla scienza giuridica, diventava la via per recuperare il concetto del diritto a partire da ciò che era implicito nelle ricerche rivolte a studiare l’esperienza giuridica; non bastava, come insegnavano le scuole, che avevano interpretato e diffuso il pensiero di Kant, fissare la liceità logica [311] o deontologica e valutativa di tale concetto [312] , ma occorreva anche approfondire “come concretamente esso si specifichi nella vita dell’azione” [313] . Come esso si sviluppi nell’ambito di quella esperienza giuridica, rispetto alla quale, avevano ragione i neokantiani, occorreva dotarla di un senso, valutarla [314] , che non poteva però essere fatto attraverso quella categoria della relazionalità, che, finché non fosse divenuta una mera ipotesi, la Grundnorm di Kelsen, sarebbe rimasta comunque una vuota forma, potendo contenere indifferentemente materiale empirico o idealità metafisiche. Ma non poteva nemmeno coincidere con quegli esiti volontaristici dello storicismo immanente, che pure percorrevano quasi per intero il pensiero di Croce [315] e, ancor più, quello di Giovanni Gentile, dal quale, d’altro canto, non si poteva nemmeno prescindere, se si fosse voluto veramente intendere l’essenza della realtà giuridica, e non abbandonarsi alla pura trascendenza metafisica.

A ben guardare, poi, per i giuristi, tale importante problema filosofico comportava, specularmente, alcuni gravi dilemmi scientifici. Infatti, come, dal punto di vista filosofico, si poneva la questione, che era poi il problema cruciale delle scuole neokantiane, di fondare un concetto del diritto che non coincidesse con il materiale empirico dell’esperienza ma che potesse però essere conosciuto attraverso l’esperienza, rispetto al quale non poteva nemmeno dirsi soddisfacente la soluzione proposta da quel neoidealismo che rischiava di risolvere l’intera esperienza in soggettivismo [316] , così, dal punto di vista scientifico, si ponevano almeno due quesiti, intimamente correlati l’uno all’altro. Da una parte, infatti, si doveva affrontare il problema di comprendere come potessero le classificazioni della dogmatica avere una capacità conoscitiva superiore rispetto a ciò di cui esse erano una generalizzazione (il diritto positivo), il tema cioè del valore euristico dei concetti giuridici connesso a quello dell’induttivismo; dall’altra, si doveva affrontare la questione di capire come potessero i concetti della scienza giuridica assumere quella fissità e assolutezza che non avrebbe avuto senso se essi fossero stati semplici generalizzazioni del mutevole e contraddittorio dato positivo, in questo secondo caso, il tema del valore conoscitivo dei concetti giuridici risultava connesso a quello della logica e del metodo deduttivo.

E non poteva essere un caso che anche Lopez de Onate in quei medesimi anni si fosse posto il problema “di determinare quale fosse la natura della scienza del diritto, cioè di quello che comunemente s’intende per sapere sistematico intorno ai fenomeni della vita del diritto” [317] , risultando immediatamente evidente che il suo intento, rispetto al quale non dovrà essere sottovaluta la preoccupazione di oltrepassare quell’idealismo che negava la possibilità di attribuire una qualche valenza conoscitiva al sapere scientifico, di poter fondare una scienza del diritto a partire dalla possibilità stessa di pensare la scienza. In altri termini, l’intento era quello di costruire la scienza giuridica a partire dalla possibilità di ammettere un valido sapere scientifico, rispetto al quale la giurisprudenza si sarebbe differenziata, poiché non ha come oggetto “una propria realtà di fatti da indagare”, ma “il suo oggetto appare invece ad una prima osservazione costituito dalle norme giuridiche vigenti in una data epoca e in un determinato luogo”, rispetto alle quali il giurista, differentemente dallo studioso di scienze naturali, non avrebbe dovuto ”ricavare leggi naturali che siano le costanti dell’accadere”, ma doveva semplicemente “preoccuparsi di ridurle a logica unità, cioè a sistema” [318] . Anche per Lopez, come sarà per Capograssi, sebbene l’analisi fosse proceduta da una prospettiva parzialmente diversa, se per Aristotele la scienza è scienza dell’universale, non potendovi essere “scienza dell’accidentale o del particolare”, la giurisprudenza avrà allo “il compito di cogliere l’essenza, e quindi l’universale; ma quell’universale non è tale in astratto, bensì è l’universale del particolare” [319] . Ora, riteniamo che nessuno ci potrà accusare di frettolosità se ci permettiamo di affermare che la scienza giuridica di Lopez probabilmente evidenzia tutti i limiti della costruzione di Bobbio e le perplessità che vedremo suggerite dalla gnoseologia capograssiana, ma tale critica, per certi versi anche del tutto abbastanza scontata, ai fini della nostra disamina, pare sembra dubbio poco rilevante. Infatti, quello che piuttosto interessa sottolineare è che anche nell’Autore de La certezza del diritto in quei medesimi anni Trenta si sarebbe avvertita l’esigenza non solo di delineare una pur rudimentale scienza giuridica, ma anche di distinguere la giurisprudenza dalla filosofia e di attribuire a quest’ultima due compiti puntualmente determinati: “il primo, quello di delimitare i confini di validità del sapere contenuto in ognuno dei sistemi [scientifici]”, mentre il secondo doveva “essere realizzato mediante una penetrazione nell’intimo di ogni singolo sapere che ogni determinata scienza costituiva, fino a cogliere quelle profonde intuizioni che la scienza, senza di proposito trascendere se stessa, realizza con tutto il suo potente sforzo di intendere la realtà” [320] .

Se in Renato Treves il rapporto filosofia/scienza aveva probabilmente ben poco al dibattito di fine secolo sull’oggetto della conoscenza scientifica e sul metodo della giurisprudenza, ma aveva piuttosto sancito una particolare contiguità tra filosofia e scienza, quantomeno rispetto all’oggetto, dato che, in ultima analisi, la giurisprudenza rappresentava l’ambito di verifica della bontà e della coerenza di alcune tesi filosofiche, la via seguita da Giuseppe Capograssi nel suo Il problema della scienza del diritto del 1937, al quale sarebbe ben presto seguito Leggendo la Metodologia di Carnelutti del 1940, L’ultimo libro di Santi Romano, le Impressioni su Kelsen tradotto e Il problema di Vittorio Emanuele Orlando, dei primi anni Cinquanta [321] , e comunque tutti dedicati al problema della scienza giuridica [322] sarebbe stata sicuramente diversa, e probabilmente nemmeno parallela. Essa avrebbe, infatti, portato ad una sorta di identificazione della filosofia con la scienza: essa “vede in ogni dato che elabora la profonda unità di tutta l’esperienza, che nasce dal segreto principio che la costituisce nella sua specifica e umana originalità: anch’essa ricerca le fibre dell’esperienza, gli originari insostituibili aspetti e le insostituibili posizioni che sono le vere leggi a cui ogni esperienza giuridica deve obbedire”, scoprendo essa quei “principi nascosti nella realtà, supposti da tutto il lavoro della scienza” [323] , lungo quell’itinerario che, secondo la cifra critica di Pietro Piovani, avrebbe caratterizzato la filosofia del diritto quale “presa di coscienza della consapevolezza della scienza giuridica nel suo progredire”, sulla base dell’idea che “solo la scienza del diritto, per la sua intrinsichezza con l’azione, potesse conoscere tutto il mondo umano dell’azione, che è il vero oggetto che il sapere filosofico deve possedere come suo” [324] .

Quanto all’obiettivo della scienza giuridica, la posizione di Giuseppe Capograssi risultava essere chiarissima: “la realtà che essa si trova di fronte e che segue in tutte le sue posizioni è una realtà infinitamente mutevole nelle sue posizioni”, è tale mutamento che “la scienza deve seguire” e così essa coglie si può dire, al suo puntuale realizzarsi, al suo rapido apparire nella storia concreta dell’azione il diritto e lo ferma nei suoi concetti e lo garantisce anche di fronte a se stesso, dal suo troppo rapido e fugace apparire, nel continuo scorrere del flusso dell’azione” [325] . E la tesi è così definitiva, che verrà ripresa anche in Leggendo la “Metodologia” di Carnelutti, dato che è pur vero che i concetti della scienza giuridica “sono legati al contenuto del diritto positivo”, “lo raggruppano, ne scoprono la struttura, le somiglianze e le dissomiglianze, e in sostanza vengono a farci conoscere in modo determinato la effettiva e puntuale le conoscenza hic e nunc dell’esperienza giuridica, ma è anche vero che “rimane il sistema di permanenze che la scienza vede nell’esperienza, che essa imprime nei concetti fondamentali nei quali essa svolge la sua concezione unitaria dell’esperienza e che è gloria della dogmatica moderna avere sceverato e disposto in modo gerarchico” [326] .

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