ORDINE ED ESPERIENZA
LA TRADIZIONE GIURIDICA ORIENTALE: ISLAM, INDIA, CINA
di Rossella Bassanese

2. L’ISLAM

2.1 Il diritto islamico.

Islam significa totale sottomissione a Dio, e il diritto islamico non si sottrae a questa sottomissione.
Legato a un testo scritto in arabo, il diritto islamico risente dello spirito della lingua e della cultura araba . Una lingua che riproduce per iscritto le sole consonanti apre la possibilità di complesse dispute filologiche. Inoltre la mentalità araba, più algebrica che geometrica, tende ad aggregare le nozioni, ma non a sistematizzarle : i pochi principi giuridici fissati per l’eternità dal Corano costituiscono perciò la base di una casistica inestricabile per chi l’affronta con mente prettamente occidentale.
Vincolato ad un testo sacro, il diritto islamico è subordinato al rituale religioso; quindi la scienza giuridica è vincolata dalla teologia. Le categorie giuridiche sono più sfumate di quelle europee: mentre per il nostro diritto vige la logica binaria del lecito e dell’illecito, per quello islamico l’atto giuridico può essere obbligatorio, raccomandato, permesso, riprovato e vietato.
Nato da una predicazione rivolta dapprima al commerciante cittadino e poi al beduino guerriero da parte di un Profeta vissuto brevemente; subordinato a precetti religiosi e, come questi, immutabile; diffusosi in breve tempo su un territorio vastissimo , i diritto islamico porta con sé una frattura insanabile: il suo adeguamento a tempi e società nuove è incompatibile con la sua intangibilità. Esso poté tuttavia sopravvivere ed estendersi grazie alla capacità di convivere con altri diritti e grazie alla natura delle sue fonti, le quali riuscirono in larga misura a integrare le disposizioni coraniche, pur senza innovarle formalmente.
Il complesso di norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica prende il nome di Shari’a . In quest’ultima convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che noi chiameremmo norme di diritto privato, affiancate da norme fiscali, penali, processuali e di diritto bellico.
La disciplina accademica con cui gli studiosi descrivono ed esplorano la Shari’a è chiamata fiqh .
Le fonti del diritto islamico coincidono con quelle della teologia islamica. Anche il giurista in senso occidentale non esiste per il diritto islamico, che nella figura dell’ ‘alim (il cui plurale è ‘Ulama) identifica il teologo-giurista esperto di fiqh .
Le fonti teologico-giuridiche canoniche sono quattro: il Corano, la tradizione sacra (sunna), l’opinione concorde e l’interpretazione analogica .

2.2 Il Corano.

Il nome Corano deriva da Quran: "recitare ad alta voce". Il testo sacro dell’Islam è diviso in centoquattordici sure, tutte introdotte dalla formula "in nome di Dio clemente e misericordioso" .
Il testo sacro spiega la propria origine rinviando ad un modello del libro conservato in cielo. Parti di esso vennero di volta in volta rivelate a Maometto che le dettò ai seguaci. Da ciò derivano due conseguenze: il Corano contiene la parola di Dio, e non quella di Maometto, che era solo il tramite della rivelazione. In secondo luogo, il Corano non è un libro organico. Infatti la rivelazione a Maometto non seguì l’ordine della "madre del libro", del modello celeste; inoltre i passi rivelati vennero accorpati in volume, dopo la morte del Profeta, secondo criteri non solo di tempo, ma anche di argomento o di rima . Come fonte giuridica, il libro offre poco materiale. Dei 6237 versetti che lo compongono, circa il dieci per cento si riferisce a temi giuridici in senso lato .

2.3 La tradizione sacra, la Sunna .

Maometto aveva risolto casi giuridici concreti o espresso opinioni che potevano contribuire a colmare in modo autentico le lacune del Corano, dal punto di vista dell’organizzazione del diritto. In questo senso si parla di tradizione, la quale, per essere ritenuta fonte di diritto, deve essere costituita da un racconto tramandato da una catena ininterrotta di narratori attendibili e avente per oggetto un comportamento di Maometto, il cui agire è ispirato da Dio. Come è facile immaginare, nel mondo islamico non esiste un’opinione unitaria e concorde su quali hadith siano da ritenere attendibili. Nel IX secolo vennero preparate raccolte di hadith che riferivano i comportamenti, i detti e anche i silenzi del Profeta, da cui si potevano desumere regole di comportamento non espresse dal Corano. Il loro insieme costituisce la tradizione sacra o sunna ed è seguito dalla maggioranza dei musulmani, che prendono in nome di sunniti. Essi riconoscono i cinque pilastri della saggezza ; ma includono tra i comportamenti dovuti l’obbedienza a chi detiene l’autorità statale, per decisione della comunità o per scelta del predecessore. Però, per i sunniti, l’autorità statale non può interpretare il Corano o la sunna per prendere una decisione politica. In questo i sunniti si differenziano nettamente dagli sciiti (a loro volta divisi in sette), che non riconoscono la successione di Maometto dopo il quarto califfo come gli altri musulmani e sostengono che la guida dell’islam va cercata nella successione dei capi spirituali, gli imam. L’imam può avere o non avere il potere temporale, ma in ogni caso è ritenuto ispirato da Allah. Quando detiene anche il potere temporale, la sua autorità spirituale genera una gestione teocratica del potere . In linea di massima, si può affermare che, ammettendo una certa semplificazione, i sunniti non accettano invece questa concezione teocratica e distinguono il potere spirituale da quello temporale.

L’opinione concorde della comunità, l’ijma.

Corano e sunna, interpretati anche secondo tecniche minuziose, lasciavano però ancora qualche problema insoluto, né i pareri degli ‘ulama avevano forza sufficiente ad integrare la parola di Dio. Tuttavia una tradizione della sunna afferma che, se la comunità dei giuristi-teologi dà il suo consenso generale ad una teoria, questa non può essere errata. Questo consenso (ijma) non è facile da definire. Di fatto, l’ijma è intesa come il consenso dei giurisperiti più autorevoli, purché il loro numero sia ragionevolmente grande e il loro parere chiaramente formulato.

2.4 L’interpretazione analogica, la qiyas.

Questa fonte è specificamente giuridica, nel senso che l’uso dell’analogia – strumento indiscusso in teologia – fu oggetto di gravi controversie nella soluzione di casi giudiziari , perché si riteneva empio usare la ragione umana per colmare un’apparente lacuna divina.
L’analogia era un apporto esterno all’islam. Essa penetrò nel pensiero islamico attraverso le conquiste dei paesi di cultura irano-ellenistica e fiorì sotto la dinastia degli Abbàsidi (nel 700-800 d.C.) . E’ sotto questa dinastia che il diritto islamico assunse la sua forma odierna e in essa si cristallizzò con il passaggio della capitale imperiale da Damasco a Baghdad. E’ a questo punto che elementi del pensiero greco vennero inglobati nel ragionamento giuiridico-teologico dell’islam, così come norme giustinianee ed ebraiche vennero recepite nel suo diritto. Poi, con l’esaurirsi della dinastia abbàside nel 935 d.C., i regionalismi si fecero più forti; ma il diritto sacro, il fiqh, poteva dirsi ormai fissato nelle sue strutture basilari.

2.5 Le fonti non canoniche.

L’estensione delle conquiste islamiche e il perdurare di grandi stati islamici fino al secolo XIX rendeva indispensabile integrare di fatto il sistema classico delle fonti con altri strumenti, legati a una più sviluppata attività legislativa e giudiziaria, ovvero a particolari tradizioni locali. Va ricordato, però, che le fonti non canoniche non fanno parte delle fonti classiche islamiche appena sopra elencate.

2.6 La consuetudine, urf.

Bisogna distinguere i paesi islamici retti da un diritto consuetudinario non islamico, come ad esempio l’Indonesia, ed i paesi legati al diritto islamico in cui la consuetudine, urf, sembra essere esclusa dalle fonti del diritto. L’urf, tuttavia, ha una sua esistenza non ufficiale, legata a situazioni anteriori all’islamizzazione di un certo territorio, e contribuisce comunque all’integrazione del sistema di diritto islamico.

2.7 Le decisioni giudiziarie e le quattro scuole sunnite.

Dopo la morte di Maometto sorsero dissensi politici e teologici anche violenti sul modo di interpretare il Corano e di provvedere allo stato musulmano. Nel corso di lotte durate fino al IX secolo, il movimento islamico si divise in varie sette, le principali delle quali sono ancora le seguenti due: i sunniti, così chiamati perché si proclamano seguaci della sunna, sono i più numerosi; e gli sciiti, che si oppongono ai sunniti per antichi dissensi sulla successione del Profeta e, in tempi più recenti, anche per ragioni ideologiche. A queste principali sette (che subirono numerosi scismi interni), ne vanno aggiunte parecchie altre minori. Pur partendo da un nucleo comune, tutte hanno elaborato un loro fiqh, cioè un loro sistema teologico-giuridico. Limitandosi alle scuole dei sunniti si ricorda che nel corso dell’assestamento del diritto islamico sotto la dinastia ‘Abbàside nell’VIII secolo, le controversie teologiche impedirono che le estensioni analogiche del diritto sacro venissero incanalate in un’unica direzione: nacquero così quattro scuole ortodosse e numerose scuole eretiche.
Le decisioni giudiziarie hanno una funzione di integrazione del diritto. Esse possono essere riferite alle quattro maggiori scuole di diritto dell’Islam sunnita: la malakita, la hanbalita, la shafiita e la hanafita .
Abu Hanifa, nato nel 767 e fondatore della scuola hanafita, conferì maggiore importanza alle opinioni raggiunte attraverso il ragionamento individuale, Malik ibn Anas della scuola malikita, nato nel 795, pur ammettendo la validità del ragionamento alla luce dell’interesse della comunità, ritenne fonti campali, nell’amministrazione del diritto, le consuetudini di Medina. Per Muhammad ash-Shafi’i della scuola shafiita, nato nell’820, il Corano e gli hadit del Profeta avevano uguale dignità di fonte infallibile e non potevano essere in contraddizione fra loro, dal punto di vista dei precetti normativi impartiti al fedele. In via successiva si doveva considerare la sunna della comunità. La scuola hanbalita di Ibn Hanbal, nato nell’855, segue il ragionamento giuridico shafiita ma se ne differenzia per una stretta interpretazione letterale della sunna e soprattutto del Corano, in un’ottica di ritorno alla purezza delle origini.
Ancor oggi il diritto islamico dei singoli stati si richiama a queste scuole o riti, spesso presenti in varia proporzione nella medesima nazione. Il diritto islamico non è quindi unitario. Le quattro scuole islamiche ortodosse operarono l’estensione del diritto sacro con una certa libertà fino alla caduta della dinastia degli ‘Abbàsidi, avvenuta nel 1258, con la conquista mongola di Baghdad. A partire da quella data non furono più possibili interpretazioni estensive: come si soleva dire, venne chiusa la "porta dello sforzo". Per i secoli successivi il diritto islamico restò immutabile, anche se eterogeneo. Poiché queste sono tutte ortodosse e poiché il giudice musulmano era unico e non teneva registrazioni dei casi decisi, il soggetto di diritto islamico poteva passare da un rito all’altro senza alcuna formalità né definitività. Ciò non è invece possibile per le eresie e le sette. Tra queste ricordiamo il sufismo, ponte tra il monachesimo orientale e il cenobitismo occidentale, e i wahhabiti, rigidamente conservatori, la cui potenza è andata crescendo nei tempi moderni. Essi controllano oggi le città sante e ampie zone dell’Arabia.

2.8 Rigidità e flessibilità nel diritto islamico

La superiorità dell’elemento religioso su quello giuridico comporta la soggezione del credente in quanto tale al diritto islamico, indipendentemente dalla sua appartenenza ad uno Stato con un diverso sistema giuridico. E’ questa dissociazione che ha permesso alla conquista araba di affiancare il suo diritto a quello preesistente su un certo territorio, ovviando così a molte carenze del diritto islamico. Esempi di questa co-vigenza di ordinamenti sono la penisola iberica e il subcontinente indiano. La pluralità di ordinamenti non intaccava così l’unità formale del diritto islamico.
Si possono individuare, nel sistema giuridico musulmano, tre settori con differenti gradi di rigidezza: 1) le norme relative ai riti, alla famiglia e all’eredità sono le più legate ai precetti sacri; 2) le norme di diritto pubblico sono svincolate dai precetti sacri e possono essere addirittura considerate fuori dalla nozione islamica di diritto sacro; 3) le norme relative al diritto dell’economia (specie del diritto commerciale) si trovano a metà strada tra le altre due.

2.9 Il diritto pubblico

Quello che nel diritto europeo si chiama diritto pubblico non fa parte del diritto islamico in senso stretto, cioè del fiqh. Anche se i primi contrasti tra musulmani furono di natura politica e generarono la grande divisione tra sunniti e sciiti, i problemi teorici dello Stato e della politica vennero affrontati quando lo Stato era già consolidato. Anche il diritto pubblico islamico è ramificato, ricco di contrastanti opinioni. L’apparizione di trattati di diritto pubblico è tarda e coincide con la decadenza del califfato nel V secolo dell’hijra. Infatti Maometto morì prima di poter codificare le norme per la gestione dello Stato islamico, che poté essere così amministrato con la massima flessibilità. Questo era indispensabile ad uno Stato che conosceva una continua espansione fondata sulla guerra.
Il valore della guerra domina il Corano, che però vieta lo spargimento del sangue di un altro musulmano. La guerra, harb, è lecita soltanto per espandere l’Islam. L’intero mondo viene così diviso in due parti: le terre dell’Islam, Dar al Islam, e le terre della guerra, Dar al Harb, cioè quelle ancora governate dagli infedeli. E’ dovere del buon musulmano partecipare alla guerra santa, la jihad per ricondurre le terre della guerra sotto il governo dei musulmani. Il diffondersi del radicalismo islamico ha finito per far attribuire al termine jihad un unico e sinistro significato, mentre nella cangiante realtà islamica il termine jihad può assumere tre significati diversi: 1) quello della guerra contro gli infedeli; 2) quello di scontro o polemica verso i musulmani tiepidi oppure traviati dalle mode occidentali; 3) quello di lotta o sforzo personale per adempiere al meglio i precetti coranici, nonostante le difficoltà materiali e ambientali.
Il governo dei musulmani fa capo al califfo, monarca assoluto rappresentante di Dio sulla terra, cui sono sottoposti tutti i musulmani, indipendentemente dalla nazionalità. La natura personale del diritto islamico spiega eventi incompatibili coi diritti occidentali: ad esempio, il perseguimento dei nemici dello Stato islamico anche entro i confini di un altro Stato. Ciò tuttavia non va visto solo come giustificazione dell’assassinio politico. Infatti, solo la personalità del diritto rese possibile una rapidissima espansione territoriale senza scontri con le popolazioni sottomesse. Un esempio concreto si è avuto nelle terre di al-Andalus, quando nella penisola iberica convivevano arabi, ebrei e cristiani usando norme romane, germaniche e islamiche.
Nello stato islamico i credenti convivono con gli infedeli, tollerati se seguono una delle religioni che Maometto considera rivelate, le cosiddette religioni del libro perché fondate, come l’Islam, su una Sacra Scrittura: gli ebrei, i cristiani, gli zoroastriani e gli induisti. L’idea del proselitismo pacifico è estranea all’Islam, che infatti non ha missionari così come li conosce il cristianesimo. La conversione avviene con la spada, nel senso che le popolazioni sottomesse tendono a convertirsi soprattutto per sfuggire all’inferiorità giuridica e materiale in cui vengono a trovarsi nello Stato islamico. Si spiega così perché venga detta "santa" la guerra di conquista: essa è lo strumento del proselitismo islamico. Questa distinzione in base alla fede tra i cittadini del medesimo stato islamico perdurò sino al XIX secolo, poi cedette il passo a una concezione più vicina a quella occidentale. Nel 1839 l’impero ottomano riconobbe l’uguaglianza dei propri cittadini in tutti i campi, meno quello militare. Le concezioni parlamentari, più tardi, minarono la supremazia esclusiva della legge coranica. Nelle loro grandi linee, tuttavia, le strutture dello stato islamico erano rimaste in vita per circa un millennio e oggi rivivono in un numero crescente di stati. L’uguaglianza laica tra i cittadini viene sempre più spesso sostituita da una legislazione che traccia una linea di separazione tra credenti e non credenti: negli Stati dove è stato ripristinato il diritto penale islamico, ad esempio, il non musulmano non può testimoniare in un processo contro un musulmano.

2.10 Il diritto penale islamico

Il diritto penale islamico non presenta una distinzione netta tra peccato e reato, dato il carattere religioso dell’intero sistema giuridico. Di conseguenza, il diritto penale fa la sua apparizione come disciplina relativamente autonoma solo verso il XII secolo dell’hijra.
I reati penali si possono distinguere in tre grandi categorie. Alla prima appartengono i reati espressamente puniti dal Corano e dalla sunna. Prendono il nome di reati hudud, sono i più gravi e il giudice ha nei loro riguardi un potere discrezionale molto limitato. Contro questi reati la religione nascente viene difesa con durezza: la flagellazione e la pena di morte colpiscono i reati contro Allah, quali l’apostasia, la bestemmia o l’adulterio. Pene corporali severe vengono applicate a reati gravi come il furto o il brigantaggio. Questi reati vengono sempre perseguiti d’ufficio, perché rivolti contro Dio e lo stato è il vicario di Dio sulla terra.
Alla seconda categoria appartengono i delitti di sangue (reati qisas). Anche qui le pene sono determinate dal Corano e dalla sunna, quindi la discrezionalità del giudice è limitata. Essi sono puniti con la legge del taglione, la quale – a discrezione della vittima o della sua famiglia – può essere sostituita dal prezzo del sangue o dl perdono. Nel ricorso al taglione si può osservare come il giudice islamico (ma questo è tipico dei diritti primitivi) non tiene conto della volontarietà dell’atto, ma si limita a impedire la vendetta sorvegliando l’equa applicazione della pena del taglione o, se la parte accetta, del pagamento del prezzo del sangue.
Il giurista occidentale tende a trovare eccessiva una discrezionalità che oscilla tra una pena grave come il taglione e il perdono. Quest’ultima alternativa risulta più comprensibile ricordando che il diritTo islamico classico non teneva conto della volontarietà dell’atto.
In caso di incidente, per esempio, il perdono è una soluzione equa.
La terza categoria di reati – detti tazir – comprende infine quei comportamenti che, di epoca in epoca, sono stati considerati nocivi alla buona convivenza sociale, ma per i quali né il Corano, né la sunna prevedono pene specifiche. La loro punizione ricade quindi nell’ambito della discrezionalità del giudice. Risulta perciò difficile fissarne con precisione la fattispecie, perché variano di luogo in luogo e di epoca in epoca. Le si può individuare soprattutto ex negativo: i reati che non sono né hudud né qisas sono tazir.
Nei reati tazir la pena è applicata discrezionalmente dal giudice, secondo un principio di individualizzazione cui i diritti occidentali giungeranno solo più tardi. Le sanzioni sono ancora però ancora quelle tipiche di uno Stato non strutturato amministrativamente: prigione, fustigazione, confisca dei beni, ammonimento del giudice e così via, fino alla sanzione sociale consistente nel togliere in modo ignominioso il turbante (il quale rappresentava un simbolo esterno dello status sociale di chi lo portava) al colpevole. Discrezionalità non significa necessariamente arbitrarietà. Un tempo essa era indispensabile a causa della vaghezza dei confino che definivano il reato: in questo vasto ambito, il giudice – che doveva essere dotto e pio – valutava caso per caso come decidere. E’ chiaro che se il giudice non è né dotto né pio, ma lo strumento di una dittatura, l’elemento deterrente insito nelle pene coraniche diviene uno strumento di repressione politica. La parte tecnico-giuridica dell’originario diritto islamico è carente di molte nozioni che vengono ritenute essenziali per un diritto penale occidentale: esso ignora infatti le nozioni di tentativo, di recidiva, di cumulo delle pene e di circostanze attenuanti o aggravanti. L’elemento che più differenzia il diritto penale islamico dagli altri è l’assenza di considerazioni dell’elemento soggettivo: ai fini dell’applicazione della pena è sufficiente il risultato materiale, sia esso voluto o non. Non sono considerati punibili il minore che nel diritto islamico è l’impubere, e di conseguenza la donna diviene punibile prima dell’uomo e gli incapaci d’intendere e di volere o per follia o per intossicazione .

Pages 1 2 3 4 5