DIRITTO E DIRITTI NELLA SOCIETÀ TRANSNAZIONALE
di Paolo Silvestri
Vengono riprese poi e sviluppate altre intuizioni dello Schumpeter al fine di enucleare il rapporto tra la "tendenza del mercato all’innovazione tramite concorrenza e la sua evoluzione giuridica". Riecheggia l’idea Schumpeteriana di quel processo – la "distruzione creatrice" – che finisce con il coinvolgere anche le istituzioni. "Forse, proprio per sottolinearne la precarietà, Schumpeter parlava delle istituzioni giuridiche non come di una solida struttura, ma piuttosto usando termini quali "forme", "impalcatura", "intelaiatura". Ed osservava che, in questo continuo processo di distruzione e di rinnovamento istituzionale, si crea un "vuoto" destinato a essere riempito da "una vegetazione tropicale di nuove strutture giuridiche"". Sviluppando quest’idea l’Autrice ritiene che "se si guarda le nuove forme di giuridicità disegnate dalla globalizzazione, si vede facilmente la loro tendenza a essere contrassegnate dalla presenza di vuoti: la giuridicità non è una terra compatta, come appariva quando era asserragliata nei confini statali; somiglia piuttosto a un arcipelago dove, come nelle Key West, le varie isole sono collegate da ponti, ma restano separate da un vuoto". Ci sarebbero tutti gli elementi per credere che la sociologa-giurista stia facendo riferimento alla metafora della rete, ormai ampiamente diffusa. Invece, ritiene che quel vuoto vada interpretato come vuoto di potere, come assenza di una istituzione che ""eserciti la leadership nel comune interesse" (S. Strange)". Tuttavia, come preciserà successivamente, quest’idea di vuoto, confligge solo con la tradizione di diritto Euro-continentale, mentre è certamente più consona al common law. Di qui che si può convenire con l’affermazione dell’Autrice per cui "l’immagine Schumpeteriana di un diritto che cresce come la "vegetazione tropicale" occupando il vuoto istituzionale che si crea nel processo capitalistico allude a caratteri di imprevedibilità, di disordine, di casualità e di abbondanza che mal si conciliano con la costruzione giuspositivista di tipo Kelseniano o con l’idea di diritto come "sistema"". E ciò perché quell’immagine non solo "fa pensare a un diritto guidato da un vitalismo organico, che nasce dal basso, piuttosto che da un dio-legislatore che predispone e programma dall’alto", ma contrasta anche "con l’idea che il diritto garantisca ordine e "calcolabilità"".
Il risultato di tutto questo è un mondo globalizzato in cui, come recita il titolo del paragrafo, sono "deboli [le] frontiere della legalità", si tratta cioè di "una legalità precaria e artificiale che si fa spazio tra il pubblico e il privato". Inoltre, "questa giuridicità camaleontica, dal carattere spiccatamente adattivo e teleologico è chiamata a servire i mutevoli bisogni del mercato". Ancora una volta, sembrerebbe che la produzione giuridica trovi l’unica fonte di legittimazione nel mercato. Per di più, questa "giuridicità", come la chiama la Ferrarese, è "in gran parte affidata a un sistema incrociato di saperi professionali che conducono alla legittimazione delle scelte delle imprese, rimpiazzando forme di legalità che si sono dissolte con i confini statali: ""gli assicuratori e gli avvocati aumentano i propri profitti, i contabili proseguono ad ampliare la propria attività, e tutti quanti ricevono una fetta della torta dei profitti. Il sistema sembra costituire una sorta di legittimazione liberale, da parte dei contabili, di tutto quanto venga fatto o non fatto dal management, permettendo a quest’ultimo di spostare liberamente i confini stabiliti come e quando desidera" (S. Strange)".
Alla luce di tutto questo si comprende perché alla domanda insita nel titolo dell’ultimo paragrafo – "Il diritto americano: metafora del diritto globale?" – l’Autrice prospetta una risposta affermativa. Infatti, i "vuoti" di cui si è parlato in precedenza "sono stati a lungo parte strutturante della vita giuridica [degli Stati Uniti], nel senso che l’intervento del legislatore era puramente residuale. Il diritto è dunque sempre cresciuto in modo disordinato e spontaneo, senza darsi troppe preoccupazioni di ordine e coerenza, e ispirandosi piuttosto a un "paradigma fattuale" (Legrand)". Inoltre, se a ciò si aggiungono altre successive constatazioni – "sono gli interessi privati a muovere il sistema giuridico attraverso il judge-made law"; negli Stati Uniti a) il diritto del mercato rinvia ad una "legalità che, trovando nelle corti il più importante canale di scorrimento, ha fatto sempre ampio ricorso alle competenze professionali private: si pensi al ruolo rilevantissimo svolto dagli avvocati o a da [sic] altre figure di "esperti" nel judge-made law", b) "l’idea che la competizione attraversi il sistema giuridico è stata sempre presente, in primo luogo nella competizione tra diversi attori, pubblici e privati, che possono produrre diritto" – si comprendono le ragioni di una risposta sostanzialmente affermativa.
Problema: a questo punto, se si pensa a quella caratteristica del diritto americano di essere ispirato a un "paradigma fattuale", si fa evidente più che mai il problema del potere: se la "forza dei fatti" si impone con tutta la sua potenza (in questo caso, economica), come possiamo distinguere la "forza del fatto" dal "fatto della forza"? O, per usare le categorie di U. Pagallo come distinguere il "potere di fatto" dal "fatto del potere"? Dunque, ciò di cui si ha bisogno è non tanto un "paradigma fattuale", bensì di un "criterio contro-fattuale di giudizio" di cui il giurista deve dotarsi per andare al di là di una mera descrizione che, in quanto tale, non può non condurre ad una celebrazione sociologica del fatto compiuto .
Certo, la Ferrarese sembra voler affrontare questo problema nel terzo capitolo – "Attori, temi e problemi del diritto globale" – soprattutto con riferimento ai "problemi" e a quello che chiama "diritto della necessità", ma, come vedremo, la trattazione sembra andare più in estensione che in profondità.
In prima istanza ricostruisce il ruolo dei nuovi "attori" e delle "istituzioni fattuali" del diritto globale. Si sofferma in particolar modo sulle nongovernmental international organization (NGOs), delle quali sottolinea la "capacità di dar voce ad un nuovo tipo di "pubblico interesse" della cosiddetta "società civile globale""; e sulle corporations, ricordando Galbraith che, già più di vent’anni fa, sosteneva "che la corporation era, negli Stati Uniti, l’istituzione "che più cambia la [nostra] vita": "una settimana via l’altra, un anno dopo l’altro, essa va esercitando sul nostro tenore di vita e sul nostro modo di vivere una influenza maggiore di quella dei sindacati, delle università, degli uomini politici, del governo"". In buona sostanza, il problema, come viene sintetizzato più in là, sarebbe sia quello di "assicurare uno statuto giuridico più definito ai soggetti non statali", sia quello dell’assenza di "schemi procedurali più rigorosi per la produzione del diritto globale".