PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

A ben vedere, quello della fine della storia è motivo che ci giunge assai più di lontano e attraverso un processo involutivo, quale quello della "secolarizzazione", che ne ha imbrogliato il senso. Per intendere il quale bisogna collocarsi presso quelle comunità di ebrei che, nella seconda metà del Primo Secolo, si raccoglievano nel ricordo della figura terrestre di Gesù Nazareno, quello che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, e insieme nell’attesa del suo ritorno nella gloria celeste. Che cosa ricordavano e in uno che cosa attendevano? Quello che il Nazareno aveva detto loro, quando si parlava della bellezza del Tempio, rinnovato nel suo splendore da Erode il Grande. "Verranno giorni in cui tutto quello che ammirate sarà distrutto e non rimarrà pietra su pietra" (Lc, 21.6). "Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, ricordate allora che la sua desolazione è vicina" (Lc, 21.20). Ma anche: "Gli uomini verranno meno per il timore (…) le forze dei cieli saranno sconvolte (…) allora vedrete il Figlio dell’uomo venire sopra una nube con grande potenza e splendore" (Lc, 21. 26/27). Questo ricordavano e questo attendevano le piccole comunità ebraiche dei testimoni di Gesù Nazareno, irrise quando non perseguitate dai fratelli, che non avevano riconosciuto il Messia perché non aveva risollevato il suo popolo assicurandogli il dominio sul mondo. Ma anche stordite per una constatazione immediata che ne minava la fede dalle basi. Nel ’70, il Tempio era stato incendiato, Gerusalemme presa e distrutta dalle legioni di Tito, e il Nazareno ancora non tornava. Col "crollo del Tempio" la "storia era finita" ma lo splendore del "nuovo ordine della terra" era latitante.
"Non sta a voi conoscere i tempi e le circostanze che il Padre di propria autorità ha determinato. Ma lo Spirito Santo verrà su di voi e riceverete da Lui la forza per essermi testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e la Samaria e fino all’estremità della Terra". Sono queste le parole del Cristo con cui si aprono gli Atti degli Apostoli (1. 7/8). Ne è autore Luca, insieme il più storico e il più teologo degli Evangelisti. L’interprete più fedele delle emozioni di queste prime comunità, delle loro speranze ma anche dei loro timori, del loro fiducioso abbandono nelle parole del Messia ma anche del loro disorientamento di fronte agli eventi storici. Di fronte ad una storia che sembra finire senza essersi compiuta.
Luca focalizza il problema della storia che si protrae oltre le prospettive. Vuota e innocua parentesi tra l’una e l’altra venuta del Salvatore? Oppure momento decisivo in ordine alla salvezza, perché nella storia devono essere intese ed assunte le responsabilità, fatte cioè le opzioni fondamentali, da parte di tutti gli uomini e di ciascuno di essi? E Luca, da storico e da teologo, fa confluire tutto questo in quell’evento cardinale che è lo spostarsi del Cristianesimo dall’Oriente all’Occidente e la sua istituzionalizzazione nella Chiesa, il cui senso è esplicitato dalla citazione di Isaia con la quale si concludono gli Atti degli Apostoli: "Va da questo popolo e digli – comanda Javeh al suo profeta – Udrete con gli orecchi e non capirete, guarderete con gli occhi e non vedrete. Il cuore di questo popolo troppo si è indurito, gli orecchi hanno udito male, gli occhi non hanno visto, perché io lo risani. Sia dunque noto che questa salvezza di Dio è rivolta ai gentili: ed essi l’ascolteranno" (Atti, 28. 27/28). A metafora di tutto questo si può ricordare come la prima volta in cui i discepoli del Nazareno vennero chiamati Cristiani sia stato ad Antiochia di Siria da parte delle comunità dei gentili neofiti di Cristo. Nel momento in cui è divenuto il centro della vita di un singolo uomo, Cristo diviene il centro della storia del mondo a garanzia della sua salvezza.
Così si discuteva appassionatamente tra i banchi di scuola all’inizio degli Anni Novanta, sospesi tra il "non più" e il "non ancora", e sommessa ma imprescindibile maturava la consapevolezza che era nella storia che si sarebbe maturata la salvezza e che nostra, personale di ciascuno, era la responsabilità. Nulla è "irrimediabile", per usare l’espressione più sopra citata dal De Ruggiero. Nessuna rassegnazione sarebbe stata giustificata. In quel frangente ebbi l’impressione che fossero proprio gli allievi a costringermi, chiamandomi a mantenere fede a quanto letto/scritto in Intelligenza politica e ragion di stato. E, così, m’incamminai "sulla strada di Siracusa".
Il 14 luglio 1994, per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, mi sono trovato a far parte del Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali, ai sensi dell’art. 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400, chiamato ad elaborare delle proposte di revisione costituzionale al fine di, testualmente, "a) rafforzare il potere di decisione diretta dei cittadini sul Governo, in sintonia con il sistema elettorale maggioritario, pur nei limiti di una democrazia rappresentativa; b) favorire una migliore articolazione dello Stato, con un deciso stimolo a forme di autogoverno e con un’attenta considerazione dell’odierno dibattito sul federalismo; c) adeguare al nuovo sistema elettorale le procedure di decisione e di controllo politico; d) salvaguardare e rafforzare il sistema di garanzie a tutela dei cittadini nei diversi settori". Con il compito, testuale, di "presentare entro il 31 dicembre 1994 le conclusioni al Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale promuoverà, d’intesa con il Ministro per le Riforme Istituzionali, la redazione dei conseguenti disegni di legge da sottoporre all’esame del Parlamento". Il Comitato lavorò alacremente nell’estate e il testo definitivo delle proposte venne trasmesso al Presidente del Consiglio, con lettera del Ministro per le Riforme Istituzionali (Prot. n. 988/M/21/12), il 21 dicembre 1994, prima della scadenza del termine fissato.
Benché due fossero i nodi problematici intorno ai quali si sono organizzati, operativamente, i lavori del Comitato, per usare il gergo in voga tra i cultori del diritto pubblico, quello della "forma di stato" e quello della "forma di governo", il disegno della proposta che ne uscì fu assolutamente unitario, nel senso che si ritenne di dover concepire la riforma istituzionale in senso federalistico, o comunque di forte accentuazione delle autonomie territoriali, come parte inscindibile di una riforma costituzionale incentrata sulla investitura popolare diretta del vertice di governo. Tanto che si potrebbe dire che l’unico, specifico ed autentico, contributo dato al Governo dal Comitato, non si deve dimenticare che il compito del Comitato era quello, per così dire, di consulenza al fine dello sviluppo di un progetto politico già definito dal Governo nelle sue linee portanti, fissate appunto nelle quattro lettere del Decreto, sia consistito nell’affermazione perentoria della necessità di procedere alla revisione della forma di stato e alla revisione della forma di governo in un tutto unitario ed organico.
Ricordo che le discussioni più vivaci e più approfondite non riguardarono mai aspetti particolari della riforma, pur essendo spesso assai diversi e distanti i pareri, ma si accesero sulla connessione e meglio si dovrebbe dire sulla compenetrazione dei due corpi del progetto, quello dell’elezione popolare diretta del vertice di governo, volgarmente si direbbe del "presidenzialismo", e quella dell’articolazione dello stato mediante l’istituzionalizzazione delle forme di autogoverno, volgarmente si direbbe del "federalismo". A guardare le cose dall’esterno si sarebbe tentati di dire che non poteva essere altrimenti, considerato che parrebbe contraddittorio voler mettere insieme l’accentuazione del potere decisionale del vertice di governo, mediante la sua investitura popolare diretta, e l’allargamento della base politica, mediante l’accreditamento di poteri sempre più ampi alle comunità naturali minori. Ma la cosa è contraddittoria solo se ci si pone nella prospettiva astratta dell’ingegneria costituzionale. E non era un libro che, in quella circostanza, eravamo chiamati a scrivere ma una legge. Anche se, proprio in quella circostanza, mi apparve in tutta trasparenza come il vero problema dello scrivere fosse lo stesso, tanto che si scriva un libro quanto che si scriva una legge.
Sento i mugugni, oltretutto perché già li ho sentiti durante i lavori del Comitato, degli analisti del linguaggio e del linguaggio giuridico in particolare, dei teorici del "performativo", con cui le cose non "si rappresentano" ma "si fanno". Sento il sogghigno sufficiente di quanti hanno sostenuto che "al di là del concetto di proprietà (ma la cosa varrebbe per ogni concetto giuridico e più in generale per ogni concetto) non vi è una proprietà reale o vera che il concetto abbia il compito di cogliere nella sua essenza o natura". Sicché, quando si è chiamati ad elaborare dei concetti, per una legge ma anche per un libro, non si tratterebbe di fare attenzione a che essi siano "più o meno veri", poiché il solo problema scientificamente rilevante sarebbe quello della loro maggiore o minore utilizzabilità, "a seconda del maggiore o minore rigore usato nello stabilire le regole del loro uso". Chiedersi poi "a che fine?", per i puristi dell’analisi del linguaggio, sarebbe solo una mancanza di politesse. Sarebbe un interessarsi indebitamente delle opzioni individuali, assolutamente gratuite e comunque non comunicanti ed incomunicabili, valutabili solo in termini statistici. Con quali esiti, il nichilismo volgare, nel senso di diffuso e dilagante, che oggi ci soffoca e ci svuota, sta inequivocabilmente ad indicare. Sul versante della scrittura, ma anche di ogni altra modalità figurativa e più in generale dell’istituzione, come sul versante della comunicazione, dalla politica alla domestica, dalla scolastica alla professionale.
Al centro nelle discussioni del Comitato, accese talvolta al limite della asprezza, non stavano dunque, o non soltanto, le formule del modello "presidenziale" o "semi-presidenziale" o "Westminster", né le formule dello stato "federale" o "semi-federale" o "regionale", quanto il problema della decifrazione del significato autentico del voto popolare espresso dal referendum del 18 aprile dell’anno precedente che costituiva l’antecedente naturale del progetto di riforma costituzionale voluto dal Governo e per la definizione del quale il Comitato era stato insediato. Non si deve dimenticare che fu quella la prima e l’unica volta nella storia repubblicana della nostra Patria in cui il Popolo ebbe l’opportunità di esprimersi direttamente su di un argomento riguardante la struttura stessa dell’ordinamento politico e lo ha fatto con una nettezza ed una coralità che nessun’altra consultazione elettorale ha mai conosciuto. L’amico Francesco Mercadante, con il quale non sempre vado d’accordo ma sì questa volta, parla elegantemente ed efficacemente di quello come del "momento della nostra storia repubblicana nel quale il cittadino anonimo, statistico, comune si è mosso tra le macerie della partitocrazia e, con frettoloso addio al proporzionale ed una fuga nel maggioritario, ha fatto balenare la cosa democratica".

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