PROLEGOMENI D’INFORMATICA GIURIDICA
di Ugo Pagallo

3. Tre definizioni di tecnica

Da Husserl a Heidegger, da Marino Gentile a Emanuele Severino, da Sartre a Jaspers, da Jacques Ellul a Hans Jonas, la tecnica rappresenta, sotto molti aspetti, il problema della riflessione filosofica contemporanea, a partire, quanto meno, dalla seconda metà del secolo scorso. Innanzi agli strabilianti prodigi della rivoluzione tecnologica, ma avendo a mente anche la concreta possibilità di autodistruzione del pianeta, possiamo infatti affermare con Jonas, che la tecnica "è divenuta ciò che Napoleone pensava che fosse la politica: un destino" (Dalla fede antica all’uomo tecnologico [1974], tr.it. Bologna 1991, p. 137).
D’altra parte, non senza una buona dose di ironia, la stessa popolarità che il tema ha progressivamente acquisito, ha contribuito a rendere sfuocato il concetto stesso di "tecnica". Mentre la dottrina giuridica presenta spesso la cifra della tecnica come natura "neutra" del sapere che riconnette mezzi a fini, invece, seguendo le indicazioni di Marino Gentile in Umanesimo e tecnica (1943), è il caso di avvertire che quest’ultima rappresenta, in realtà, una delle due concezioni, pratiche e teoriche, mediante le quali si è espresso il principio del regnum hominis. Alla tradizione filosofica classica risalente alla paideia di Platone e di Aristotele, si oppone, cioè, la prospettiva more geometrico constructa del diritto che rinvia al "matematismo" della riflessione filosofica moderna. Come segnalava il filosofo italiano, "l’affermazione cartesiana che ogni certezza deve essere ricavata dalla coscienza dell’io, è accompagnata necessariamente dalla convinzione che certezza non meno assoluta presentano le nozioni matematiche su cui è costruito il mondo esteriore alla coscienza dell’io" (cfr. op.cit., pp. 119 ss., che riprendiamo nell’edizione a cura di Giulio F. Pagallo, in occasione del sessantesimo anniversario della pubblicazione dell’opera).
La distanza tra le due posizioni, tra il sapere anipotetico della tradizione filosofica classica e la conoscenza convenzionale e operativa tipica delle scienze moderne, può essere ulteriormente chiarita sulla base delle correnti definizioni di tecnica offerte da ogni (buon) dizionario della lingua italiana.
In primo luogo, la tecnica coincide infatti con "ogni attività che, sulla base di conoscenza scientifiche, progetta strumenti, apparecchi, macchine, motori, utensili, destinati al soddisfacimento delle esigenze pratiche della vita". Secondo questa prima accezione, fine della tecnica è in definitiva il progetto baconiano della scientia propter potentiam, cui si accompagna l’idea di fondo di un "progresso" cumulativo e indefinito. "Per rendersi conto del valore delle opere" – e il Lord Cancelliere pensa alle tre grandi "invenzioni meccaniche" dell’epoca: la stampa, la polvere da sparo e la bussola (ovvero, ai giorni nostri, i computers, la bomba atomica e i satelliti) -, "basterà considerare la differenza che passa tra la vita degli uomini in una regione europea altamente civilizzata e quella che si conduce in un qualche territorio barbaro e selvaggio della Nuova India. La differenza è così grande che si può dire con ragione homo homini deus, non solo per gli aiuti e benefici che può dare, ma anche per il confronto fra le condizioni di vita" (Works, vol. III, p. 611, tr.it., a cura di Paolo Rossi, in Scritti filosofici, Torino 1975, p. 390).
Non è qui il caso d’insistere sulla distinzione teologica baconiana di potestas e voluntas Dei, sulla base della quale il filosofo inglese legittima il sapere di potere della tecnica e la costruzione in terra del regnum hominis: la New Atlantis. Ma, se pure rimane ambiguo nel pensiero di Bacon, il rapporto tra le "condizioni di vita" degli uomini e l’ambito proprio della tecnica, tra il sapere di non potere dell’etica e il potere del sapere tipico del know-how tecnologico, proprio in questa stessa ambiguità si annida l’aporia della scienza (giuridica e politica) contemporanea. Senza giungere all’esagerazione di chi, come Hobbes, ritiene che il sapere dei giuristi sia addirittura più "esatto" di quello dei fisici, poiché, a differenza della natura, il diritto è stato creato dagli uomini, la dottrina è venuta smarrendo la consapevolezza del "sapere di non potere" della scienza baconiana, che, mutatis mutandis, ritroviamo nei "due libri" di Galileo Galilei e, finanche, nella morale "provvisoria" di Descartes. Alla tentazione di declinare le "esigenze pratiche della vita" in senso auto-referenziale, fa seguito l’idea che la dimensione tecnica del sapere sarebbe l’unico modo di fondare in forma "oggettiva", avalutativa e "certa", l’incedere operativo degli uomini.
L’eclisse del "sapere di non potere" dell’etica conduce in questo modo alla seconda definizione di tecnica come "complesso di norme che regolano l’esecuzione pratica e strumentale di un’arte, scienza o professione". L’accezione corrisponde infatti al tipico modo in cui i giuristi pensano per lo più al diritto, come condizione della scientificità ed oggettività dei risultati raggiunti, e formalizzazione del "mezzo" a disposizione dei "fini" più vari. Ne è sufficiente esemplificazione la definizione del diritto come tecnica del controllo sociale data da Kelsen; e la separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, tra imperativi di natura ipotetica e imperativo categorico, che spinge gli epigoni del giurista di Praga a ritenere di poter porre in parentesi il principio sostanziale del diritto. Quando la dottrina pensa tecnicamente al "complesso di norme" che la "norma fondamentale" ha reso coerenti – e concepisce giuridicamente la tecnica come "esecuzione strumentale" del sapere convenzionale ed operativo della scienza -, non è un caso se alla forma del diritto come "mezzo" a disposizione dei fini più vari, subentra la tesi della neutralità dello "strumento" destinato a soddisfare le "esigenze pratiche della vita".
Del resto, non mancano alcune buone ragioni a sostegno di questa conclusione, tanto più che la bontà del fine non dipenderebbe dalla natura del mezzo. Quando tutti sperimentiamo i vantaggi della rivoluzione tecnologica, e ammiriamo la potenza hardware che ha chiarito in pochi anni molti dei misteri del genoma umano – quando sistemi esperti annullano lo spazio tra medico e paziente, e, a sua volta, l’incalzare dell’informatizzazione spiazza la tradizionale configurazione spazio-temporale degli ordinamenti politici, giuridici ed economici -, da più parti, e ripetutamente, si ricorda che sempre per via della tecnica, fonte indifferente del bene e del male, è diventato attuale il rischio d’autodistruzione del pianeta. In effetti, la minaccia non deriverebbe dall’essenza della tecnica, ma dal modo (improprio) secondo cui il "mezzo" è utilizzato. Sicché, proseguono gli epigoni del Kelsen, là dove la tecnica (del diritto) consiste unicamente nell’imparzialità ed oggettività rispetto ai conflitti ideologici, il diritto (della tecnica) solleva questioni di mezzi, non di fini, giudizi di fatto, non di valore, imperativi ipotetici, non di natura categorica.
In rapporto alla "neutralità" del mezzo tecnico, la scienza giuridica, erede della tradizione geometrica dell’ordinamento, rivendica l’autoreferenzialità del proprio sapere. La forma come mezzo della volontà sovrana, rappresenta, cioè, il telos del diritto, dato che le configurazioni tecniche dei rapporti umani – dalla definizione kelseniana del diritto come strumento di controllo sociale, all’estinzione del diritto nella società senza classi del comunismo di Marx, alla tecnocrazia di St.-Simon, e via dicendo -, comportano, tutte, l’illusione di aver risolto la questione del fine una volta per tutte. Proponendo altrimenti la questione, si può dire che l’autoreferenzialità del mezzo come fine proprio della tecnica, aspira alla dimensione di ciò che non ha tempo, all’eternità. Che importanza può avere il tempo per la verità di un teorema matematico classico? Come afferma Galileo, non è forse il nostro sapere matematico intensive, pari a quello di Dio? Quale il ruolo della storia per i civil lawyers?
In realtà, oltre al "non tentar le essenze" dello scienziato italiano, vale la pena di ricordare come perfino Hobbes – il quale, nel De homine, dichiara che siamo in grado di avere una conoscenza "esatta" dei principi del diritto e la politica, poiché "li abbiamo fatti noi" (X, 5, in Opera latina, London 1889, vol. II, p. 94) -, metta in guardia dal rischio delle interpretazioni meramente tecniche dell’agire umano. Dalla "fine della storia" di Marx all’a priori neo-kantiano della Grundnorm di Kelsen, la tentazione è stata infatti di tradurre il tempo della tecnica come tecnica del tempo. Or bene, avverte il Leviatano, "sebbene la sovranità, nelle intenzioni di coloro che la istituiscono, sia immortale, tuttavia" – questo il punto che sta a cuore a Hobbes sottolineare -, "per sua natura [la sovranità] non solo è soggetta a morte violenta a causa di guerra contro nemici esterni, ma anche reca in sé, fin dalla stessa istituzione, a causa dell’ignoranza e delle passioni, i molti semi della mortalità naturale generati dalla discordia intestina": con ossimoro inquietante, il Leviatano è pur sempre "a mortal God" (op.cit., cap. XXI, tr.it. a cura di Arrigo Pacchi, Bari-Roma 1992, p. 185).
Lungi dal potersi ridurre la relazione del diritto alla tecnica, come rapporto di fine a mezzo, di forma a materia, di regola a regolato, la "neutralità" dello strumento tecnico, su cui tanto ha insistito ai giorni nostri la dottrina, svela piuttosto il senso in cui la peculiare indifferenza etica di ogni strumento tecnologico, si tramuta in un imperativo categorico. Alla base del giudizio di fatto della tecnica, esprimibile secondo le modalità degli imperativi ipotetici, dei rapporti di mezzo a fine, etc., esiste un preciso giudizio di valore. Per usare le parole di Marino Gentile, "anche la tecnica, che pure si compiace di prescindere da valutazioni morali, si pone un dovere, ed è quello della progressione infinita nella via della chiarezza razionale e dell’aumento quantitativo, su cui essa spinge ogni attività. Il dovere è di fare sempre di più, nella riduzione ansiosa di tutto a numero, calcolo, legame logico" (Umanesimo e tecnica, cit., pp. 173-174).
Per approfondire questa (terza) accezione di tecnica, torniamo al ricordato dialogo tra Irti e Severino, che consente di riformularne il significato, nella forma del dovere, per cui "occorre fare in modo che tutto ciò che è possibile fare tecnicamente, si faccia" (clonazioni, cyborgs, bio-ingegnerie, teletrasporto molecolare, etc.). Tra la riduzione della tecnica a diritto compiuta dal giurista, e la riduzione, eguale e contraria, del diritto a tecnica, ad opera del filosofo, Irti e Severino concordano infatti nel presentare l’ordinamento come epifenomeno del "volere di potere" tipico della tecnica moderna. Mentre il filosofo scorge in questo la riprova del folle destino d’Occidente, a sua volta, il giurista vi verifica la tesi che riduce il diritto a strumento del controllo sociale. Sicché, se Irti declina la figura della "volontà di potenza" nel senso politeistico del conflitto ideologico, Severino concede al giurista che, allo stato, questo è lo "scopo" e il "principio ordinatore" del diritto: "volontà di raggiungere scopi attraverso norme". Ma, aggiunge egli subito dopo, questo obiettivo dovrà sottostare un giorno all’esclusiva "volontà di potenza" della tecnica (intendendosi il genitivo, per una volta, in senso soggettivo). "La tecnica è destinata a diventare il principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà" e "comunque", avverte il filosofo, "che l’atteggiamento politico-giuridico continui a voler regolare, orientare il capitalismo e la tecnica è indubbio: il problema è quale successo abbia tale volontà. Mi sembra che Irti identifichi impropriamente la volontà di essere principio ordinatore della materia regolata, con l’essere senz’altro tale principio" (Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 27 e 25).
Per precisare ulteriormente il significato del fine della tecnica come essenza dell’autoreferenzialità del mezzo, seguiamo, per negationem, le obiezioni che il giurista, Irti, muove alla tesi (filosofica) del "destino" occidentale della tecnica. Nel solco della dottrina pura del diritto di Kelsen e in rapporto alle considerazioni svolte a proposito della tradizione more geometrico constructa dell’ordinamento, al giurista preme infatti ribadire la natura "oggettiva" ma "neutra" del sapere tecnico. Anche ammettendo, cioè, che la tecnica sia una delle più formidabili "volontà di potere" che si contendono i nomo-dotti del diritto, Irti contesta a Severino l’idea che il volere di potere tecnico monopolizzi e determini i contenuti dell’ordinamento, poiché – è questo il commento del giurista -, "dinanzi all’asserzione di Severino circa la ‘incapacità delle norme non tecnologiche di continuare ad essere principi ordinatori della tecnica’, resterebbe al giurista soltanto un dilemma: o porsi al servizio della tecnica (che mai gioverebbe, se dal contenuto della norma suprema sono deducibili tutte le altre norme?) o chiudersi in nobile e onorevole silenzio. Il silenzio, che è dovuto all’illimitata e trionfale grandezza di un nuovo Dio" (op.cit., p. 61).
Senza entrare nel merito dei contributi d’informatica giuridica che si son posti "al servizio della tecnica", non è tuttavia il caso di rinchiudersi in "nobile silenzio". Quando tutti avvertiamo la necessità di fissare "limiti" alle applicazioni tecnologiche (e, del resto, sono i giuristi ad essere chiamati in causa per primi, riguardo le clonazioni, i cyborgs, le bio-ingegnerie e quant’altro), è la stessa inarrestabilità del processo che fa percepire la tecnica come "destino". Per dirla infatti con Ernst Jünger, è come se una forza attraesse dal futuro; per cui, rielaborando la tesi che ispira Macchinismo e filosofia (1947) di Pierre-Maxime Schuhl, si potrebbe anche dire di essere quasi passati dalla rassegnazione senza speranza dell’antichità, alla moderna speranza entusiasta à la Bacon, e, infine, alla rassegnazione disperata che regna sovrana tra i filosofi contemporanei. "Nella sua essenza la tecnica è un destino, entro la storia dell’essere, della verità dell’essere che riposa nell’oblio. Essa risale infatti alla t???? intesa come un modo dell’????e?e??, cioè del rendere manifesto l’ente. In quanto forma della verità, la tecnica ha il suo fondamento nella storia della metafisica" (cfr. M. HEIDEGGER, Lettera sull’"Umanismo" [1946], tr.it. a cura di Franco Volpi, Milano 2000, p. 71).
Lasciando in sospeso le ragioni che hanno indotto i filosofi a declinare per lo più il destino della tecnica in senso negativo, rimane il fatto che la stessa ineluttabilità del processo revoca in dubbio il tentativo del positivismo di "salvare le forme". Se pure la doxa giuridica contemporanea si illude che la progressiva informatizzazione del diritto non abbia riflessi sulla configurazione "geometrica" dell’ordinamento – per cui la firma elettronica sarebbe la tradizionale sottoscrizione di atti sotto nuove vesti tecnologiche, il contratto stipulato automaticamente da agenti software un modo, anche bizzarro, di ripensare al concetto di consenso, la tutela digitale del copyright una forma di aggiornare il vecchio diritto d’autore, e la notifica telematica un modo di ringiovanire le vetuste mansioni degli ufficiali giudiziari -, non di meno, in tutti questi casi, il medium tecnico "virtuale" secondo cui è mediata l’interazione comunicativa dei soggetti, finisce per trasfigurare il significato di atti quali la firma o la notifica, il contratto o la delega.
La concezione "neutra" ed "oggettiva" della tecnica ereditata da Kelsen e dalla tradizione geometrica del diritto, ha infatti condannato i giuristi a non comprendere il problema di fondo che la tecnica solleva nei confronti dell’ordinamento. Riprendendo le osservazioni critiche che Severino muove all’indirizzo d’Irti, non è lecito nutrire alcuna illusione sul fatto che "nello scontro tra una tecnica debole e una tecnica forte è inevitabile che quest’ultima abbia a prevalere" (Dialogo su diritto e tecnica, cit., p. 79). Senza dover condividere la prognosi sul "folle destino d’Occidente", e però, di fronte alla pretesa del giurista d’intendere il diritto come tecnica della tecnica, enzima della forza uscita vittoriosa dallo scontro tra le diverse "volontà di potenza", non è arduo indovinarne già a priori la sorte: "il prevalere effettivo è determinato dalla conoscenza che l’agire della tecnica possiede intorno alla consistenza dei limiti di cui esso è circondato" (ibidem).
Tra il "silenzio onorevole" della dottrina e il mettersi "al servizio della tecnica" da parte dei giuristi informatici, affiora in questo modo un paradosso. Il disvelamento dell’essenza della tecnica come auto-referenzialità del mezzo che "rende manifesto l’ente", porta infatti alla luce l’aporia cui va incontro la dottrina, proprio quando il fondamento del diritto in quanto tecnica, non può che coincidere con il fondamento tecnico del diritto. Tanto il filosofo (Severino) quanto il giurista (Irti) perpetuano l’idea che la "volontà di potenza" della tecnica non sia altro che l’ultima manifestazione della tendenza all’"unicità" del pensiero moderno secolarizzato – dal "sovrano" di Hobbes all’uomo dello "stato di natura" di Rousseau, al "proprietario" di Stirner, alle ideologie "moniste" e, sul piano internazionale, "dualiste" della scienza giuridica contemporanea -, sicché, sulla base dell’equivoco logico implicito nella teorica del Grund, affiora l’odierna pretesa di presentare la tecnica come nuovo terzo "unico" auto-referenziale. Con le parole di Irti, "due norme supreme sono concepibili nell’ordine storico, non nell’ordine logico, dove vige il più rigoroso aut-aut" (op.cit., atto secondo del giurista, § 7, p. 54).
Prima di tornare sull’impatto che le nuove tecnologie e l’informatica hanno sull’ordinamento, proponendo figure sconosciute ai giuristi e rimodellando atti ed istituti ereditati dalla tradizione, occorre fermare per intanto l’attenzione, su questo particolare aspetto del problema che rinvia ai motivi della Grundnorm. Laddove i contributi della scienza giuridica contemporanea pensano al diritto come tecnica della tecnica, il rischio è infatti che la "base dell’ordinamento" – che i giuristi individuano attraverso la nozione di norma fondamentale -, sia sostituita dall’odierna tesi della doxa filosofica che, a sua volta, identifica il fondamento del diritto e, più in particolar modo, dell’informatica giuridica, nella tecnica in sé e per sé considerata. Solo dopo aver visto l’incongruenza dell’assunto che suppone un fondamento che fondi, e cioè, che condizioni, senza essere condizionato, potremo passare ad esaminare il modo in cui i programmi matematici dell’informatica giuridica hanno reagito per primi, in sede storica, alla pretesa "unicità" logica della Grundnorm.

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