DIRITTO COSTITUZIONALE E SISTEMA ECONOMICO:
IL RUOLO DELLA CORTE COSTITUZIONALE
di Luigi D’Andrea
Università degli Studi di Messina
Riguardo ai rapporti che secondo il modello costituzionale devono sussistere tra il sistema giuridico ed il sistema economico, davvero paradigmatiche si presentano le molteplici sentenze che hanno progressivamente delineato lo statuto costituzionale della proprietà, segnatamente in relazione all’espropriazione dei beni di proprietà dei privati (art. 42, III c.): infatti, ne emerge con chiarezza sia l’esigenza che il potere pubblico (e dunque, il sistema giuridico) non possa in alcun modo disporre liberamente (o, se si vuole, arbitrariamente) del sistema economico, vanificandone od azzerandone logica e consistenza autonoma, sia l’istanza che il secondo non sia “blindato” nei confronti del primo, incapace di far (pre)valere il pubblico interesse rispetto all’interesse economico privato; ancora, si evidenzia nettamente l’esigenza che il concreto, peculiare atteggiarsi delle diverse fattispecie sia considerato allo scopo di individuare il necessario equilibrio tra tali configgenti esigenze. In primo luogo, occorre considerare che l’espropriazione dei beni privati risulta conforme al sistema soltanto se sussistono effettivamente specifici interessi pubblici, che siano tali da giustificare l’adozione della misura espropriativa: la sent. n. 155/1995 ha ribadito la risalente giurisprudenza costituzionale in tale direzione orientata, escludendo che “il provvedimento ablatorio possa perseguire un interesse meramente privato”, e richiedendo che “esso miri alla ‘soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la comunità’ (sentenza n. 95 del 1966) in funzione delle quali l’utilizzazione del bene trasferito sia concreta ed attuale e non già meramente ipotetica. L’identificazione di tali esigenze, che danno contenuto ai motivi di interesse generale, può rinvenirsi […] nella stessa legge che prevede la potestà ablatoria; come anche in essa può trovarsi definita soltanto la fattispecie astratta (a mezzo di clausola generale) che implica poi l’individuazione in concreto dei motivi di interesse generale mediante la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da realizzarsi sull’area espropriata o da acquisire alla mano pubblica. La valutazione di costituzionalità di siffatto requisito non tocca però la scelta discrezionale del legislatore (riservata alla valutazione politica e di merito del Parlamento) di perseguire proprio con lo strumento espropriativo obiettivi riconoscibili come ‘motivi di interesse generale’ sempre che non appaia una palese irragionevolezza nella scelta del mezzo rispetto al fine ovvero una rilevante sproporzione tra l’interesse generale e lo strumento prescelto con correlativo sacrificio del proprietario dell’immobile trasferito, compensato dall’indennizzo espropriativo” [52] . Quanto all’indennizzo espropriativo, la Corte ha più volte ribadito che esso, “se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare – non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro”; a tale scopo “occorre far riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene” [53] . Dunque, l’indennizzo non può determinarsi prescindendo dalle “caratteristiche essenziali” del bene, e soprattutto dalla sua “potenziale utilizzazione economica” (e perciò le ragioni dell’economia non possono essere azzerate dal conflitto con il pubblico interesse che viene realizzato dall’intervento ablatorio del pubblico potere), ma non deve coincidere con l’“integrale riparazione per la perdita subita” (ovviamente dal punto di vista economico), appunto in considerazione della sussistenza di un interesse pubblico da soddisfare che legittima il sacrificio richiesto al proprietario: la Corte richiede perciò che, mediante opzioni largamente discrezionali, il legislatore elabori criteri equilibrati, idonei ad assolvere l’una e l’altra istanza, e adeguatamente flessibili, sempre atti a tenere conto delle peculiari caratteristiche delle diverse ipotesi di espropriazione. Ancora di recente, nelle storiche “sentenze-gemelle” del 2007 (sentt. 348 e 349) tale indirizzo del giudice costituzionale ha trovato conferma, a fronte di un orientamento non del tutto convergente assunto dalla Corte di Strasburgo: “posto che, in conformità all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, deve essere esclusa ‘una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato’, questa Corte ha ritenuto ammissibili criteri ‘mediati’, lasciando alla discrezionalità del legislatore l’individuazione dei parametri concorrenti con quello del valore venale. La Corte stessa ha tenuto a precisare che la ‘mediazione tra l’interesse generale sotteso all’espropriazione e l’interesse privato, espresso dalla proprietà privata, non può fissarsi in un indefettibile e rigido criterio quantitativo, ma risente sia del contesto complessivo in cui storicamente si colloca, sia dello specifico che connota il procedimento espropriativo, non essendo il legislatore vincolato ad individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità, valido in ogni fattispecie espropriativa’ [sent. n. 283/1993].
Come emerge chiaramente dalla citata pronuncia, questa Corte, accanto al criterio del serio ristoro – che esclude la pura e semplice identificazione dell’indennità espropriativa con il valore venale del bene – ha pure riconosciuto la relatività sincronica e diacronica dei criteri di determinazione adottabili dal legislatore. In altri termini, l’adeguatezza dei criteri di calcolo deve essere valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al momento del giudizio. Né il criterio del valore venale (pur rimasto in vigore dal 1983 al 1992), né alcuno dei criteri ‘mediati’ prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell’assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene” [54] .
Largamente conforme al modello di costituzione economica qui prospettato appare la giurisprudenza costituzionale anche in tema di concorrenza (e dunque in relazione all’art. 41, II c., Cost.). Di tale modello le decisioni riguardanti la concorrenza confermano innanzitutto il carattere flessibile, motivato dalla mutevolezza dei punti di equilibrio sui quali il sistema può storicamente assestarsi: si registra infatti in tale materia un’evoluzione (anche) giurisprudenziale, con il passaggio da una posizione più risalente preoccupata dei rischi recati dalla concorrenza ad un atteggiamento volto a porre in evidenza la concorrenza come vantaggio [55] .
A testimonianza della prima possono ricordarsi la pronunzia del 1957 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato infondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati nei confronti della disposizione che recava il divieto di vendita dei medicinali a prezzo diverso da quello fissato nell’etichetta, in quanto il prezzo imperativo dei medicinali si pone al servizio della tutela del pubblico “da inconvenienti legati al regime di libera concorrenza, che porterebbe al ribasso dei prezzi e, inevitabilmente, alla preparazione dei medicinali con materie prime meno costose e, perciò, con risultati terapeutici che potrebbero recare nocumento alla salute dei cittadini” [56] ; ovvero la sentenza del 1964, che ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale relativa al divieto di lavoro notturno dei fornai, individuando la ratio legis nell’intento di “evitare una causa di ingiustificata concorrenza a favore dell’esercente che, lavorando personalmente, si potrebbe sottrarre alla disciplina comune, il cui carattere di generalità è imposto dall’esigenza di tutelare gli interessi di tutta la categoria degli esercenti e quella dei consumatori”, nonché nello scopo di “assicurare una tutela sanitaria alle persone addette alla panificazione e di apprestare una tutela igienica per un prodotto alimentare di largo consumo, il pane”, ponendosi la tutela sanitaria come “una delle ragioni di utilità sociale che, a mente dell’art. 41 della Costituzione, giustificano le limitazioni all’iniziativa economica privata” [57] ; od ancora la sent. n. 60/1965, nella quale la Corte ha rigettato le censure di costituzionale riguardanti le vendite straordinarie o di liquidazione, in ragione dell’esigenza di sottoporre a controllo tali attività allo scopo “di evitare forme di concorrenza sleale e mistificazioni a danno degli acquirenti” [58] .
Successivamente la Corte ha mutato indirizzo, naturalmente (ed inevitabilmente) sensibile ad una complessiva evoluzione dell’intero ordinamento (basti qui menzionare l’entrata in vigore nel 1990 di una legge generale a tutela della concorrenza e del mercato: la c.d. “legge anti-trust” n. 287/1990), determinata anche dalla crescente incidenza al riguardo del sistema comunitario, nettamente orientato a favore di un sistema di libero mercato, ed ha assunto molteplici decisioni volte ad assicurare le condizioni di libera concorrenza.
Tuttavia, prima di richiamare qualcuna di tali pronunzie, occorre osservare come la Corte non abbia cessato di sindacare le norme volte a garantire le condizioni di libera concorrenza dal punto di vista dei diritti costituzionalmente protetti dei cittadini: basti qui menzionare la sentenza del 2003, nella quale, in relazione alla legittimità costituzionale di una legge della Regione Lombardia che poneva limitazioni di orario, turni e ferie per le farmacie, la Corte ha osservato che “le finalità concrete che la legge vuol raggiungere con il contingentamento delle farmacie (assicurare ai cittadini la continuità territoriale e temporale del servizio ed agli esercenti un determinato bacino d’utenza) vanno nello stesso senso di quelle che si vogliono conseguire con la limitazione dei turni e degli orari, in quanto, come è stato più volte osservato, l’accentuazione di una forma di concorrenza tra le farmacie basata sul prolungamento degli orari di chiusura potrebbe contribuire alla scomparsa degli esercizi minori e così alterare quella che viene comunemente chiamata la rete capillare delle farmacie. Esiste in altri termini, nella non irragionevole valutazione del legislatore, un nesso tra il contingentamento delle farmacie e la limitazione degli orari delle stesse, concorrendo entrambi gli strumenti alla migliore realizzazione del servizio pubblico considerato nel suo complesso” [59] .
Probabilmente la prima sentenza costituzionale che ha manifestato un orientamento nettamente filo-concorrenziale della Corte è stata la sent. n. 223/1982, la quale ha esaminato (e fugato) i dubbi di legittimità costituzionale sollevati (ai sensi degli artt. 41, II c., e 43 Cost.) nei confronti dell’art. 2596 c.c., riguardante i limiti contrattuali apponibili alla libertà di concorrenza, in quanto diretto a garantire soltanto l’interesse individuale dell’imprenditore. Ivi la Corte ha individuato una duplice finalità della libertà di concorrenza tra imprese: “da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, é diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi”, restando perciò l’autolimitazione mediante accordi di tale libertà, pur possibile (non turbando essa necessariamente il gioco della libera concorrenza, anzi potendo talvolta agevolarlo, “come nel caso di accordi intesi ad evitare l’emarginazione di imprese più deboli e la conseguente formazione di posizioni di monopolio o di quasi monopolio ovvero di oligopolio, da parte delle imprese più forti”), soggetta ai limiti “che l’ordinamento giuridico pone nell’interesse individuale o in quello della collettività” (corsivi, naturalmente, non testuali). E la norma oggetto del sindacato viene giudicata non affetta dai denunziati vizi di costituzionalità in ragione della sua idoneità a tutelare non solo l’interesse individuale dell’imprenditore, ma anche l’interesse collettivo, “impedendo eccessive restrizioni alla libertà di iniziativa economica e tutelando così, nella misura – sia pure modesta – espressa dalla norma stessa, il mercato nelle sue oggettive strutture” [60] . Ai nostri fini, conviene porre adeguatamente in evidenza come già in tale (per così dire, pionieristica) pronunzia l’opzione a favore del mercato concorrenziale sia il risultato di un sinergico riferimento ai valori di libertà e di eguaglianza [61] , in riferimento alla libertà tutelata dall’art. 41, I c., Cost., e sia adottata nella prospettiva oggettiva dell’interesse generale ad un mercato strutturalmente aperto ed accessibile (e perciò anche dinamico).
A tale sentenza, altre sono seguite, che hanno con forza sottolineato la funzionalizzazione della tutela della concorrenza all’“utilità sociale”, da cui la libertà di iniziativa economica è limitata, ed al valore dell’eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, II c., Cost.: così, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso la Corte ha sostenuto la necessità di “una efficace normativa anticoncentrazione” non soltanto “nel complessivo settore dell’informazione”, ma anche “nel più vasto settore dell’attività economica, pur se in questo assume connotati in buona parte diversi, per la diversità dei valori tutelati. II principio dell’autonomia contrattuale […] se ha rilievo assolutamente preminente nel sistema del codice civile del 1942, non lo ha negli stessi termini nel sistema delineato dalla Costituzione, che non solo lo tutela in via meramente indiretta, come strumento della libertà di iniziativa economica (sentenza n. 159 del 1988), ma pone limiti rilevanti a tale libertà.