D. Alioto, La justicia de los contratos.
Dialéctica y principios de los contratos privados, Colección Circa Humana Philosophia,
Buenos Aires, 2009, 282 pagg.
di María de Todos los Santos de Lezica
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L’opera di Daniel Alioto propone un tema che a prima vista si può dire fondamentale ma che allo stesso tempo non è stato ancora superato. Si tratta dell’argomento dell’autonomia nell’ambito dei contratti.
Subitamente emergono alcune domande: si può parlare di autonomia della volontà? Oppure l’autonomia è una proprietà della ragione nella sua funzione pratica? Ma potrebbe ritenersi eventualmente una ragione distaccata del volere della volontà? Ancora, l’autonomia potrebbe infrangere l’eguaglianza della giustizia che si verifica nei contratti, e cioè, l’eguaglianza reciproca?
A questo riguardo l’autore si occupa del principio della reciprocità dello scambio, prendendo le mosse dal pensiero di Aristotele, ma cogliendo anche il pensiero di vari autori che proseguono nella linea del pensiero classico come san Tommaso, sant’Antonino di Firenze, il Cardinale Tommaso di Vio Gaetano, Martin di Azpilcueta, Domingo di Soto O.P. e Luigi di Molina S.J., comunque ciascuno con qualche particolarità. Ma questo principio si può capire, in ambito contrattuale, solo se sommato al principio latino pacta sunt servanda perché entrambi indicano diversi punti di vista della realtà contrattuale e producono anche diversi effetti (p. 28). E allora, nel libro viene evidenziata l’evoluzione del pensiero con riguardo i principi classici, ma specialmente, in relazione a qualche ragione che fa evolvere la dottrina contemporanea sulla base dei principi accennati.
I principi rimangono sempre stabili, ma siccome l’oggetto del Diritto e dell’Economia è sempre qualcosa di contingente perché è qualcosa di umano, questi principi stabili ed invariabili devono venir correttamente interpretati perché il passo del tempo non li porti a causare/giustificare delle situazioni di ingiustizia attraverso di una cattiva interpretazione di essi.
Allora, il primo principio accennato ci porta a stabilire che la validità del contratto in generale riguarda non soltanto quello voluto dalle parti ma l’equivalenza in sè. E allora facendo una riflessione di uno assieme l’altro principio anzidetto, entrambi ci portano al problema dell’’obbligo del contratto, del suo fondamento, e cioè, della sua necessità di esecuzione. Perché si deve esaudire un contratto? Perché questo comporta almeno una obbligazione? Le cause di validità del contratto girano attorno ad entrambi questi principi. Il contratto nasce del volere di due o più parti; ma soltanto ciò può farlo diventare imperativo, obbligatorio? Se riteniamo che il principio pacta sunt servanda è legato alle esigenze della giustizia oggettiva, non potremmo dire che il contratto è imperativo soltanto per il fatto che il suo carattere obbligatorio è nella forza della volontà delle parti da imporsi. Anzi, il carattere obbligatorio del contratto sembra avere a che vedere con l’altro principio della reciprocità perché, come abbiamo già detto, l’ultimo riguarda tutti i rapporti contrattuali in generale. Dunque il pacta sunt servanda non potrebbe venir capito lontano dal principio della reciprocità.
D’altra parte, il principio dell’autonomia della volontà è nato assieme ad alcune dottrine economiche, anzi, si potrebbe dire che è nato in seno all’influsso di alcune teorie delle c.d. libertà, tali come la libertà di ogni intervento governativo o sindacale; la libertà di commercio; la libertà di libera disposizione della proprietà individuale; la libertà contrattuale; la libertà di moto personale e finalmente quella di associazione (pp. 46 e ss.).
Nei secoli XVII e XVIII, secondo le riflessioni dell’A. il modo di comprendere la convenzione è stata conseguente all’indirizzo metodologico delle scienze sociali che respinsero le fondamenta dell’ordine naturale e soprannaturale. Da allora il contratto si è costituito come una qualcosa avente un valore assoluto e a partire del quale si è preteso di stabilire un sistema non attaccabile dal punto di vista razionalistico, perché formalmente coerente. Sarà Kant che porterà il principio dell’autonomia della volontà al grado di principio supremo della moralità. Comunque la compatibilità del principio pacta sunt servanda e dell’idea di eguaglianza nel complesso del principio della reciprocità dello scambio, sembrano annunciare la crisi del dogma dell’autonomia della volontà.
Seguendo Aristotele, con riguardo al principio della reciprocità dello scambio, l’A. chiarisce che l’uguaglianza aritmetica della giustizia correttiva non si contrappone all’idea della reciprocità proporzionale e neanche quest’ultima s’identifica con l’uguaglianza geometrica della giustizia della distribuzione. Anzi, la reciprocità proporzionale propria della giustizia correttiva presuppone l’ordine della giustizia della distribuzione (p. 65).
A questo punto, l’autore affronta con dettaglio l’argomento dell’usura. Secondo Aristotele l’usura è una forma di economia di scambio “proprio censurata”, “la più antinaturale tra tutti i tipi di commerci, per quanto il denaro lascia di compiere una funzione strumentale allo scambio” (p. 87). Tramite di essa il denaro acquista un valore che non ha un valore in sé stesso. Ma, secondo l’A., il denaro soltanto ha un valore di mezzo per l’acquisto delle cose. L’usura sarà condannata ripetute volte dalla Chiesa cattolica, sia dai padri della Chiesa, sia dai concili. Infatti, san Tommaso segnala che «se si ricupera la cosa data in prestito e, allo stesso tempo, si fa pagare un prezzo, si ha una evidente disuguaglianza contraria alla giustizia commutativa» (p. 101). Il denaro – secondo san Tommaso – non ha un valore in sé stesso, bensì un solo valore di scambio. Il valore è della cosa che rappresenta. E allora il solo valore del denaro è quello di strumento per lo scambio.
Seguendo ora la dottrina di san Tommaso in un epoca nella quale si produce un cambiamento nell’attività economica, l’autore dedica un capitolo al pensiero di Sant’Antonino di Firenze e la sua dottrina riguardo l’usura. Questo pensatore riteneva che ogni volta che siamo davanti ad un contratto che ha come materia il prestito e come forma l’intenzione principale del lucro, ci siamo davanti ad un prestito usuraio (p. 120). Comunque sia il suo pensiero circa l’usura, tale pensatore non giustifica il lucro cagionato dal trascorso del tempo; riconosce la perdita sofferta dal commerciante quando viene privato del suo denaro perché non ha la disponibilità di esso per investirlo. E allora sarà proprio sant’Antonino a riconoscere per primo la funzione del capitale monetario nella produzione e nel commercio, sempre con riguardo al contratto di mutuo. Il denaro non produce denaro per il solo trascorso del tempo, ma si può estrarne qualche profitto se lo si applica al lavoro.
Viene anche dedicato un capitolo Cardinale Caietano. Il suo punto di partenza è diverso dai suoi predecessori. Viene qui difatti introdotta la dottrina del volontario misto, che brevitatis causae sarebbe un atto tra volontario e obbligatorio perché il dare volontariamente non significa presumere che si abbia voluto trasmettere il dominio della cosa data, come accade con chi butta via i suoi effetti personali nel mare per salvarsi del naufragio; il solo fatto di buttarli non permette che qualsiasi altro se ne impadronisca (p. 143).
Con l’abbondanza di denaro e l’aumentare dei prezzi, accaduto con il trascorso del tempo, si torna a riflettere sui problemi presentati dall’usura nello scambio di denaro ed ora l’argomento sarà affrontato seguendo le riflessioni anche di Martin de Azpilcueta facendo concorrere le fonti di diritto civile, diritto canonico e teologia morale assieme alla sua esperienza personale acquistata nella Francia, nella Spagna e il Portogallo. La sua analisi è un contributo per differenziare le operazioni di scambio lecite dalle pratiche usurarie di sua epoca. Quest’autore finirà con l’accettazione degli strumenti economici di credito che sfuggono il principio del divieto dell’usura, con il quale è concorde (p. 154). «Oltre cogliere il denaro nella sua funzione di mezzo di pagamento delle merci, accetta la moneta come oggetto suscettibile di essere comprato e venduto a diversi prezzi, senza cadere in qualsiasi illecito oppure ingiustizia» (pp. 154-155). Azpilcueta parte dalla dottrina di Aristotele che accetta la doppia funzionalità della moneta sia come ‘unita di valore’ sia come ‘unita di misura’; ma non rifiuta – come, spiega Alioto, facevano invece Aristotele e san Tommaso – ogni ricompensa ottenuta dal cambiavalute (p. 155). Invece proponeva che il cambiavalute fosse nominato dall’autorità pubblica e che quindi avesse anche uno stipendio, non generato dallo stesso denaro ma dal lavoro svolto per la comunità. Questa ricompensa a causa del lavoro non era paragonabile con il lucro né era contrario alla giustizia. Eppoi si vede la sua evoluzione circa il pensiero di Aristotele perché ritiene che «l’uso del denaro, per guadagnare con il suo scambio, non è contrario alla sua natura» (p. 158). Il lucro in sé non ha un fine in sé stesso e nel pensiero di Aristotele sarebbe sempre lucro. D’altra parte Azpilcueta ritiene che sia lecito lo scambio di denaro per un altra moneta avente un altro valore. E allora perché ciò possa accadere è necessario che si tratti di monete con diverso valore in sé oppure con diverso valore secondo i luoghi. Mentre Aristotele ritiene che la moneta perda il suo valore se non svolge la sua funzione di scambio, Azpilcueta considera che nella sua funzione di scambio è una merce che ha valore in sé stessa, il cui valore di scambio dipende della sua abbondanza o scarsità. In questo modo il suo pensiero prosegue oltre con la formulazione della legge della domanda e dell’offerta. Nell’economia reale ciò che interessa è il potere di acquisto, e cioè, il valore reale del denaro, piuttosto che la sua manifestazione nominale addetta dalla pubblica autorità. L’abbondanza di denaro produce l’innalzamento dell’offerta e la discesa dei prezzi; invece, la mancanza di liquidità, abbassa il potere di acquisto e invece solleva i prezzi dei prodotti.
Dunque il valore della moneta dipende dall’autorità pubblica, ma anche dalla sua scarsità, facendo distinzione tra il valore reale e quello nominale di essa (p. 163). In questo senso, Azpilcueta precede la teoria della previsione stabilendo il principio dell’inalterabilità del valore reale del prestito. Concorde con san Tommaso, ammette il risarcimento del danno e, con riguardo al lucro cessante, pensa che sia giusto sempre che si riferisca alla perdita di una garanzia come risultato di una attività commerciale (p. 166). L’autore spagnolo introduce una novità interessante circa il risarcimento del danno. Questo avrà luogo anche quando ci si mantenga una capacità di compra indeterminata, che si conosce come «il privilegio dalla liquidità» (p. 167). Azpilcueta conferma le tesi classiche condannando l’usura, ma tenta di distinguere gli affari leciti dai quelli illeciti.
A continuazione l’A. analizza il pensiero di Domingo di Soto e Luigi da Molina come due importanti rappresentanti della Scuola Spagnola del XVII secolo che affrontano il problema dell’usura dalla prospettiva della reciprocità degli scambi. Con riguardo al problema dell’alterazione del prezzo, Domingo di Soto, distingue tra il prestito e la compravendita. Con riguardo al primo, non si deve restituire il valore della roba, ma la sua sostanza materiale che deve essere della stessa specie e qualità, senza che il suo prezzo rilevi; con riguardo al secondo, ciò che interessa è il valore della cosa. Se ciò che si da in prestito sono monete, si deve restituire una quantità simile al valore che essa aveva al momento in cui sono state consegnate al alienatario. Dopo precisare i pregiudizi ai quali fa riferimento quando parla di lucro cessante e risarcimento del danno, elenca cinque conclusioni (cfr. p. 177). In quei casi non ci sarà usura. Il denaro non ha un valore in sé stesso, ce l’ha soltanto con riguardo all’attività dell’alienatario. Perciò tra le tre forme di scambio che segnala Aristotele: 1) una cosa per altra cosa; 2) una cosa per denaro; 3) denaro per denaro, l’ultima la considera usuraia. Risulta lecito lo scambio di denaro per ragione del luogo ma non del tempo. Non è vero che il denaro si muove di un luogo in un altro e perciò non si deve pagare per il trascorso del tempo perché se si da denaro in certo luogo per ricuperarlo in un altro, si fa un prestito usuraio. Il sol fatto del tempo, non giustifica ricevere una somma diversa (pp. 182-185). Luigi da Molina si occupa della dottrina del giusto prezzo, seguendo Aristotele che aveva anche riflettuto sulla giustizia nella cornice della vita economica. Con riguardo alla compravendita, ritiene che in certi casi sia lecito incassare un sovrapprezzo, e cioè: quando risulti una ricompensa dall’attività del commerciante; quando si tratti di sostenere il valore delle merci data la fluttuazione dei prezzi; infine, quando il prezzo viene adeguato ragionevolmente (pp. 192-193). Molina distingue il prezzo giusto della compravendita in naturale, quello che hanno le cose in sé stessi, e cioè, dipendendo della stima che di esso ha l’uomo; e in legale, quello che viene stabilito dall’autorità pubblica con fondamento nel primo (p. 194). Le cose non hanno un valore in sé medesime; hanno soltanto valore di mezzo, di strumento per la soddisfazione delle necessità umane. Ergo il giusto prezzo di una cosa sarà il prezzo naturale, e cioè, il prezzo adeguato allo giusto naturale. Quindi il valore in cui una cosa viene scambiata per altra di un valore equipollente. Ogni contraente ha un interesse immediato che è il contrappeso. Inoltre la compra e vendita si ordina a soddisfarre un bene comune delle parti, il cui non sarà aggiunto se il valore del contrappeso non è equo con la cosa scambiata (p. 203).
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