UNA “GIUSTA AUTONOMIA” PER IL “GOVERNO DI UOMINI LIBERI E UGUALI”.
LA LEGGE COME CAUSA ESEMPLARE DELL’ATTO UMANO.*
di Gonzalo Letelier Widow
(Università di Padova)
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Abstract
The nature of the law is one of the main problems of juridical philosophy. Within the problem of law, the key is how to explain that an external command turns into an internal principle of action. Modern philosophy has given two great opposite lines of answers: law is external constriction, reducing law to force; or else, law is a decision of a will that has been artificially identified with the will of the State. Both answers have proved to be insufficient.
The thesis of this paper is that the answer of a classical realistic philosophy consists in a voluntary identity of the practical reason of the prince and that of the citizen, founded on a common love to a common good (the aristotelic homonoia or political friendship), made possible by the participation of the political imperium of the prince in the individual imperium of the citizen. This means that the law is the model, Idea or exemplar cause of the order of justice in all its levels, and that the virtue of individuals is a product of their “just autonomy”.
I
Uno dei problemi centrali del Diritto è quello della natura e degli effetti della legge. Cos’è la legge, qual è il suo rapporto con il Diritto e perché obbliga sono questioni che una teoria del diritto, qualunque sia la sua tendenza filosofica, non può non affrontare.
Anche se fosse solo per negarlo, il problema è inevitabile.
In generale, la questione della natura e del fondamento della legge positiva si è posto a partire dal problema dell’obbligo giuridico: perchè e in che modo la legge è obbligatoria? Così, per spiegare l’efficacia della legge, si ricorre ad un qualcosa di anteriore alla legge stessa: al suo rapporto con quello che è considerato la fonte di ogni obbligo. In questo modo, il problema della legge diventa un capitolo dell’etica.
Quest’impostazione è particolarmente visibile negli autori tomisti, i quali solitamente studiano la legge umana a partire dalla legge naturale, e questa a partire dalla legge eterna, come fece lo stesso San Tommaso.
Non è in assoluto mia intenzione criticare questa prospettiva. Il suo valore è attestato dalla qualità e varietà dei suoi risultati scientifici. Vorrei semplicemente notare che quando Tommaso d’Aquino scrisse il suo trattato della legge non voleva studiare le cause del diritto né l’esperienza giuridica, oggetto proprio di ciò che oggi chiamiamo “filosofia del diritto”. La prova sta nel fatto che appunto il proprium della legge umana, che consiste nel determinare ciò che la legge naturale lascia indeterminato, viene trattato molto brevemente ed in funzione di un problema diverso . [1] È naturale: il trattato della legge fa parte della sezione dedicata alla teologia morale all’interno di una Summa di teologia. Il medesimo principio vale anche per la quaestio unica sul diritto, che fa parte di un trattato sulla virtù della giustizia . [2] Anche se per la filosofia del diritto è molto proficuo approfondire la nozione tomasiana di legge, è chiaro che il suo oggetto formale non è propriamente giuridico. È necessario fare filosofia del diritto tomistica, nella consapevolezza però che essa non è la filosofia del diritto di San Tommaso, la quale, se esiste in assoluto, non è stata specificamente sviluppata in nessuna parte della sua opera, e deve essere letta tra le righe, partendo da una considerazione globale di tutta la sua filosofia.
Il problema meriterebbe una discussione approfondita che non si può svolgere in questa sede. Ma, in ogni caso, non sembra controvertibile la constatazione del fatto che il trattato della legge della Summa di Teologia, vero canone dell’impostazione tradizionale del problema, non contiene una teoria tomistica del diritto positivo in quanto tale.
In questo contesto, sembra possibile ed auspicabile presentare il problema della legge positiva da una prospettiva diversa, che ritengo più propria della filosofia del diritto. Questa prospettiva non considera la legge positiva in primo luogo partendo dai suoi superiori (legge eterna e legge naturale), ma come un fatto d’esperienza, e assume la sua obbligatorietà come un principio ricevuto, che non spetta spiegare alla filosofia del diritto se non in quanto essa stessa è Metafisica. Perché il problema dell’obbligo è metafisico, non giuridico; è proprio ciò che rende impossibile prescindere dalla metafisica nell’ordine della filosofia pratica .
[3]
II
Non sembra che ci sia autore degno di menzione che non concepisca la legge come qualcosa che intende modificare la condotta di qualcuno, sia perché la dirige realmente oppure perché la qualifica in un certo modo. Per questa ragione, la definizione nominale di legge proposta da San Tommaso è ancora vigente ed è comunissima: la parola “legge” designa “una certa regola e misura degli atti, che inclina verso l’azione o allontana da essa” .
[4] Da questa prospettiva, il problema fondamentale della legge è il seguente: come può un giudizio esterno all’uomo modificare i suoi atti? La questione si presenta anche per le dottrine deterministiche, che negano la libertà, perché anche se si riduce il comportamento umano a quello di una bestia, è impossibile negare che il principio dei movimenti dell’uomo è sempre interno all’uomo. È indifferente se questo accade per impulsi animali o per libera scelta; la cosa importante è che l’uomo solo agisce da se stesso.
Per modificare la sua condotta dal di fuori, allora, è necessario modificare il principio interno dei suoi atti. Ma un giudizio imperativo altrui, in quanto tale, è assolutamente estrinseco a quel principio interno dell’azione, e di conseguenza, incapace di modificarlo.
In altri termini, spiegare l’efficacia della legge significa spiegare in che modo un giudizio esterno diventa principio della propria azione; significa spiegare il modo in cui questo giudizio si fa interno all’uomo .
[5] Lo scopo di questo scritto è di presentare le linee fondamentali di quello che mi sembra sia la risposta della filosofia classica a questo problema.
III
A partire dalla modernità, questa domanda ha ricevuto due tipi di risposte, le uniche possibili per una filosofia che si è riconosciuta apertamente nominalista:
1. L’efficacia della legge (e quindi la sua obbligatorietà) si fonda sulla coattività, che è la sua proprietà essenziale. La legge è obbedita e modifica veramente la condotta degli uomini perché è sostenuta dalla forza. Paradigmatici i casi di Hobbes, Spinoza, Austin o Kelsen .
[6] Secondo questa posizione, il giudizio in cui consiste la legge non è efficace per sé stesso, ma per quello che succede se essa non viene obbedita. L’individuo fa veramente proprio il comando come principio della sua azione, ma non al modo di un giudizio pratico (del tipo “devo agire in questo modo”), ma al modo di un giudizio tecnico (del tipo “date queste circostanze, mi conviene agire in questo modo per raggiungere questo fine che di fatto voglio, ma potrei non volere”). Così, mancando lo stimolo sensibile della sanzione, mancherebbero anche le ragioni per obbedire alla legge.
Intesa in questo modo, l’efficacia non appartiene alla legge, ma alle sue eventuali conseguenze. Non si obbedisce alla legge perché è legge, ma per evitare il dolore.
Molto si può obiettare a questa posizione. Basti a noi constatare, insieme a tutta la tradizione platonica, che la deduzione della legge da una premessa di forza significa sempre e indeffetibilmente la riduzione del diritto a pura forza .
[7] 2. Secondo un’altra tesi moderna, la legge obbliga perché si acconsente ad essa. Sia che si ceda la propria volontà ad un altro, sia che si partecipati democraticamente alla sua formulazione, la legge è legge solo perché io l’accetto come tale. Il principio fondamentale è che solo un atto della propria volontà può generare obblighi per un soggetto; tutto il resto è coazione .[8] Perfino storicamente, questa seconda posizione si presenta come una correzione della prima. La dimostrazione sta nel esplicito e costante riferimento a Hobbes del suo primo e principale esponente, Rousseau . [9] Ciò significa che, per negare la conclusione della prima posizione (“la legge è il comando della forza”), si assume il suo principio (“ogni legge è costrizione”). Per questa ragione, l’obiettivo non è che la norma cessi di essere costrizione – perché questo è impossibile –, ma che la costrizione medesima venga giustificata rendendola interna allo stesso individuo. È quello che afferma espressamente Rousseau: il fine del contratto sociale è renderci liberi sotto le catene della legge . [10] Come hanno visto Platone, Hobbes e lo stesso Kant, il problema fondamentale di questa posizione è che la volontà individuale non può vincolare se stessa, perché così come si obbliga, potrebbe dopo “disobbligarsi” . [11] La conseguenza logica inevitabile è quella di dover trovare un modo per identificare in modo assoluto la volontà individuale con quella dello Stato. Il XX secolo ha abbondato in tragici esempi di questa tesi, che esige fisiologicamente la creazione di istanze di "autocritica" o "terapia ideologica" per i casi in cui la volontà singolare dell’individuo non è d’accordo con la sua volontà statuale .[12]
IV
La storia della filosofia politica presenta in modo ricorrente i due poli di questo problema che così lucidamente aveva visto Rousseau: 1) la legge è obbedita solo se viene fatta propria da chi la riceve, ma 2) l’obbligo legale esiste solo se non dipende dal soggetto. A quanto pare, si tratta di un’aporia insormontabile, un dilemma di due alternative ugualmente impossibili . [13] Perché la forza coattiva, per definizione, non è propria del soggetto, e la scelta personale, per definizione, non obbliga.
Questa è la ragione ultima per la quale la filosofia moderna non è stata capace di spiegare la legge secondo il modo in cui essa si presenta all’esperienza.
Una risposta valida deve essere in grado di conciliare questi due termini apparentemente antitetici: il governo politico e la libertà, secondo quello che, da Aristotele in poi, è stato identificato come la funzione propria di ogni autorità politica: il governo su uomini “liberi e uguali” . [14] Ma per fare questo, è necessario superare gli stretti limiti del nominalismo e avere il coraggio di “tentare le essenze” .[15]
V
Abbiamo detto che la filosofia moderna è nominalista, e che è proprio il suo nominalismo la causa di questo dilemma della filosofia giuridica. La tesi esige una giustificazione. Non è questo il luogo per discutere le proprietà comuni e l’identità fondamentale delle diverse correnti della filosofia moderna. Basta che si conceda il nome “moderno” per designare genericamente l’insieme delle filosofie che hanno dominato in modo indiscusso la cultura europea dopo la frattura religiosa della riforma e il processo di secolarizzazione avviato dall’umanesimo. La questione particolare del carattere essenzialmente nominalista del dilemma qui presentato si palesa considerando le sue origini teoriche.
Nei termini della filosofia realistica classica, attribuire “efficacia” alla legge non significa altro che affermare che la legge è una certa “causa” dell’agire, perché “produrre”, “modificare” o “qualificare” un atto sono modi diversi di causarlo.