LA RICERCA DELLA VERITÀ NEL PROCESSO: UNA PROSPETTIVA SCOLASTICA
di Elvio Ancona
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1. La concezione corrispondentista della verità: problemi aperti – Anche in base alle risultanze del dibattito suscitato in Italia dalla riforma del processo penale la concezione corrispondentista della verità è risultata il più soddisfacente paradigma conoscitivo in quell’ambito della realtà costituito dalla controversia giudiziaria1. Al fine di evitare facili fraintendimenti o confusioni, occorre subito precisare al riguardo che almeno in tale ambito la corrispondenza con la realtà deve essere intesa non come riferita direttamente ad enunciati, al modo tarskiano, e quindi come fenomeno immediatamente osservabile, quanto piuttosto come criterio di verificazione degli enunciati stessi, che devono essere provati2.
Ci resta però ancora da comprendere come tale criterio effettivamente operi e come possiamo epistemicamente conoscerlo, perché possa costituire il paradigma, fornire il principio esplicativo, delle nostre conoscenze scientifiche, e quindi anche processuali.
Proviamo dunque ad esaminare con attenzione quella che può forse essere considerata la teoria corrispondentista per antonomasia, la concezione tomistica della verità come adaequatio rei et intellectus3. Essa infatti è forse anche quella, fra le varie teorie corrispondentiste, che permette di rendere meglio ragione dello svolgersi del nostro processo conoscitivo. Ciò è dovuto alla peculiare dottrina tomistica dell’intelligibilità dell’ente che vi è sottesa, in quanto l’adequatio dell’intelletto alla realtà è possibile secondo Tommaso solo perché la realtà è in se stessa intelligibile.
2. La concezione tomistica della verità: la dottrina dell’intelligibilità dell’ente – Consideriamo pertanto innanzitutto la concezione tomistica dell’intelligibilità dell’ens4.
Tale concezione ha indubbiamente il suo tratto caratterizzante, la sua “cifra”, nella tesi che l’ens, ogni realtà che partecipa dell’esse5, sia integralmente intelligibile in quanto concepita e posta “in essere” dall’intelletto divino6. La dipendenza dall’intellezione divina, tuttavia, per quanto geneticamente fondamentale, non è necessaria per riconoscere l’essenziale intelligibilità dell’ens. Lo dimostra in modo emblematico il primo articolo delle Quaestiones disputatae de veritate, che contiene quella che è stata considerata “la trattazione più esplicita e particolareggiata” sull’argomento7, e in cui, a proposito della convenientia entis ad intellectum, si parla unicamente dell’intelletto umano, vis cognitiva dell’anima8. Ivi, non solo si afferma che ogni ente, in quanto ente, è conoscibile dal nostro intelletto9, ma si suggerisce che viene anzi virtualmente già conosciuto da esso fin dal suo primissimo atto, la conceptio entis10. E si direbbe che sia anche per questo, in quanto l’intelletto umano conosce immediatamente sebbene confusamente l’ens, che l’anima viene aristotelicamente ritenuta quodam modo omnia. 11
L’ens, quindi, nella sua totalità, ogni ente e tutto l’ente, è ad un tempo confusamente conosciuto e distintamente conoscibile dal nostro intelletto. E il nostro pensiero (ratiocinatio), quale attività discorsiva dell’intelletto che trasforma il conoscibile in conosciuto12, non è che il manifestarsi dell’ens, è – per così dire – l’ens stesso in quanto ci diviene progressivamente noto13. La celebre formula intellectus in actu est intellectum in actu, che l’Aquinate riprende da Aristotele14 e pone a caposaldo della propria gnoseologia15, esprime compiutamente il realismo di questa concezione.
Che cos’è allora il vero in questa prospettiva? Vero è innanzitutto l’intelletto allorché attualmente conosce l’ens così com’è16. Verum est declarativum et manifestativum esse, asserisce Tommaso citando Ilario di Poitiers17 nell’articolo summenzionato, e questo è sicuramente il primo modo in cui dobbiamo intendere l’essere “vero”18. Ma “vero” può essere detto per analogia anche l’ens, in quanto conoscibile dal nostro intelletto per quello che è19. Vero è anzi – appare sostenere l’Aquinate – lo stesso esse in quanto semplicemente intelligibile20.
La dottrina tomistica della verità delle cose significa allora che, oltre ad essere attualmente conosciute dall’intelletto divino, esse sono conoscibili da parte dell’intelletto umano, ciò che costituisce una fondamentale condizione di possibilità perché vi sia anche una verità del nostro intelletto come attuale conoscenza dell’ens. L’affermazione dell’esistenza di una verità delle cose, tuttavia, in quanto significa altresì che la loro conoscibilità è una conoscibilità totale21, deve misurarsi al tempo stesso con il problema della propria dimostrabilità: è realmente sicuro – ci si potrebbe infatti chiedere – che la verità così intesa sia una caratteristica di ogni ente e di tutto l’ente, dell’ens nella sua totalità? È realmente sicuro cioè che la conoscibilità dell’ens, di ogni ente, sia una conoscibilità totale? Più precisamente, è proprio sicuro che ogni ente sia integralmente conoscibile dal nostro intelletto? Da un intelletto come il nostro la cui capacità conoscitiva è limitata e rimane sempre, anche quando comincia ad essere attuata, in potenza nei suoi confronti? Lo sarebbe ugualmente anche se per assurdo non ci fosse l’intelletto divino che lo conosce attualmente? La risposta di Tommaso, che è, come abbiamo visto22, senza dubbio affermativa, può essere efficacemente provata riflettendo su un suo ragionamento. Si tratta della curiosa dimostrazione per impossibile sviluppata dal maestro domenicano nel secondo articolo delle sue Quaestiones a sostegno dell’asserzione secondo cui la verità, in quanto implica relazione all’intelletto divino, inerisce alle cose per prius rispetto alla verità concepita in relazione all’intelletto umano. «Se anche non ci fosse l’intelletto umano, – egli scrive – le cose si direbbero ugualmente vere in ordine all’intelletto divino; ma se, per assurdo [per impossibile], non ci fossero entrambi gli intelletti e restassero solo le cose, la nozione di verità non rimarrebbe in nessun modo»23. Ciò che, espresso in termini positivi, significa che la nozione di verità rimarrebbe, anche se per impossibile non ci fosse l’intelletto umano, per il solo fatto che esiste l’intelletto divino. Ma, – potremmo a nostra volta chiederci continuando a ragionare per impossibile – rimarrebbe ugualmente se esistesse solo l’intelletto umano? Riconosciuto che secondo la filosofia tomistica si tratterebbe comunque di impossibile eventualità, appare difficile escluderlo se, come Tommaso stesso aveva poco innanzi sostenuto proprio in riferimento alla nostra facoltà conoscitiva, «nella misura in cui c’è dell’entità in qualcosa, quest’entità è di natura tale da conformarsi all’intelletto, e in base a ciò ivi consegue la nozione di vero»24. Possiamo allora concludere che l’ens, considerato nella sua totalità, non sarebbe vero, non potrebbe essere conosciuto, solo se non esistesse alcun intelletto che potesse conoscerlo, eventualità anch’essa appunto impossibile, se non altro perché manifestamente contraria all’esperienza del nostro attuale intendere25. Cosicché, alla domanda se potrebbe l’ens non essere totalmente vero, intelligibile, sembra che si possa rispondere, perlomeno sulla base di questi testi, non appena che potrebbe essere siffatto “solo se non ci fosse alcun intelletto che, come l’intelletto divino, lo conosca totalmente”; potremmo infatti più semplicemente anche affermare che l’ens potrebbe non essere vero, intelligibile, “solo se non ci fosse nessun intelletto, neppure un intelletto in potenza come il nostro”. Ciò vuol dire che la potenzialità del nostro conoscere non costituisce un’obiezione alla verità, all’intelligibilità dell’ens. L’ens è nella sua totalità vero, intelligibile, non perché lo conosciamo o lo conosceremo attualmente come tale, bensì già solo per il fatto che possiamo conoscerlo.
Non tutti i problemi sono perciò ancora risolti. Infatti, – potremmo ulteriormente chiedere una volta provata questa nostra capacità conoscitiva – come possiamo essere certi che si tratti di una capacità reale26? Come facciamo cioè a sapere che questa capacità noi possiamo effettivamente attuarla? È proprio sicuro che l’ens, che conosciamo solo virtualmente, possiamo anche attualmente conoscerlo? È sicuro che l’ens non siamo in grado di conoscerlo che fino a un certo punto? O, più radicalmente ancora, è sicuro che ciò che conosciamo non sia altro che una nostra rappresentazione dell’ens, e non l’ens in se stesso? La risposta a tutte queste domande, in verità, noi l’abbiamo già incontrata ed è racchiusa nel fatto che, come abbiamo visto27, la potenzialità del nostro intendere non è potenzialità pura, ma potenzialità immanente nella conoscenza attuale, per quanto confusa e indistinta, dell’ens. È in questa originaria apprensione dell’ens l’autentica forza del realismo tomista. In essa alberga la più radicale soluzione del problema critico28. Per essa infatti si spiega, in quanto la totalità dell’ens ci è già immediatamente benché confusamente nota, perché non potremmo essere vittime di un genio ingannatore o – come nella più aggiornata immagine putmaniana – cervelli in una vasca29. E per essa altresì si dimostra che possiamo conoscere “veramente”, pur non conoscendola attualmente in maniera chiara e distinta, tutta la realtà.
Cosicché nell’intellectus entis tutto l’esse si manifesta immediatamente come vero, sebbene non ancora distintamente conosciuto. Perché venga anche distintamente conosciuto, occorrerà tutto lo sviluppo discorsivo e progressivo del nostro conoscere razionale. E che il vero sia l’esse stesso in quanto diviene manifesto al nostro intelletto, e non ciò che il nostro intelletto si rappresenta, lo dimostrano anzi proprio la discorsività e la progressività di tale conoscere.