Diritto e terrore *
di Gabriele Civello **
De iure condito, al di là delle numerose argomentazioni teoriche in tal senso, un dato normativo trancia la questione alla radice: la Convenzione europea di Strasburgo del 1977 per la repressione del terrorismo, nonché la Convenzione internazionale di New York del 1997, vietano espressamente la possibilità di qualificare come politici, agli effetti dell’estradizione, i delitti terroristici. È evidente che tale espresso divieto denota una sostanziale inadeguatezza della categoria del delitto politico a comprendere la legislazione antiterrorismo; e tale è, dunque, l’incontestabile approdo del diritto vivente, il quale assume vieppiù profili di interesse teorico, laddove venga progressivamente accostato alla diametrale tendenza, da parte delle frange terroristiche maggioritarie, all’auto-qualificazione in termini di “politicità” (basti pensare alle canoniche dichiarazioni di prigionia politica).
A giudizio dell’Autore, al di là del tema del delitto politico, ulteriori spunti di riflessione provengono da un secondo ramo di ricerca, ossia quello storico-linguistico.
Il termine “terrorismo” si afferma in Francia alla fine del 18° secolo e viene inizialmente riferito alla condotta dei Giacobini e, successivamente, al régime de la terreur; sul punto, è significativo notare come, dal punto di vista etimologico, il lemma terrorisme nasca, si diffonda e si sviluppi in modo autonomo rispetto all’ascendenza linguistica latina: infatti, da un lato il classico terror (paura, terrore), ha subìto la naturale ramificazione linguistica nei differenti idiomi europei (Furcht e Schrecken in area germanica, fear e scare in area anglosassone); dall’altro, invece, il termine “terrorismo” ha guadagnato ben presto un autonomo sviluppo semantico, rimanendo quasi invariato nei differenti paesi europei (terrorism in Francia, terrorismus in Germania). Ciò sta ad indicare, probabilmente, che l’area semantica del “terrorismo” non risente – quantomeno, in modo immediato e diretto – dell’influenza della differente area semantica costituita dalla triade “terrore-paura-panico”.
Allora, il riferimento del “terrorismo” è, storicamente, al “regime del terrore” instaurato nella lunga stagione francese, dall’estate del 1789, al maggio del 1793, al luglio del 1794, stagione che affonda le proprie radici nell’esperienza epocale della Rivoluzione Francese; e dunque, il terrorismo, più che al terrore, si ricollega strutturalmente alla cornice teorica della rivoluzione.
Il termine revolutio, ignoto al latino classico, compare nel De Civitate Dei di Sant’Agostino, per designare originariamente il moto circolare ed il ritorno ciclico dei tempi; in ambito astronomico, il termine rinvia al moto necessario, irresistibile e ciclico degli astri; in ambito politico, invece, esso assume il significato di un “ritorno ciclico di forme politiche ricorrenti nella storia”[9].
Alla fine del ‘700, il termine ‘rivoluzione’ si unisce, quasi a creare un’antonomasia, all’esperienza politica francese e giunge a rappresentare un improvviso e radicale capovolgimento dello status quo e delle strutture istituzionali in essere; tale dinamismo ciclico è caratterizzato sin da subito da una prospettiva autoreferenziale e volontaristica, tipica di un potere arbitrario che intende imporsi e farsi valere con il solo uso della forza; inoltre, l’applicazione del termine “rivoluzione”, implicitamente connesso alla natura necessaria ed irresistibile del moto astrale, all’ambito politico, conduce a qualificare il fenomeno politico-rivoluzionario in termini di necessità, invincibilità ed irresistibilità, quasi che l’ancient regime fosse un frutto ormai maturo, la cui rovinosa caduta a terra si presentasse tanto casuale quanto necessaria.
È l’apoteosi di volontarismo, soggettivismo politico e autoreferenzialità; ed è superfluo segnalare il fil rouge che collega una tale impostazione all’idea hobbesiana della necessitas quale radice del potere politico del Sovrano.
In tale chiave, la terreur assume un ruolo eminentemente strumentale, assurgendo a mezzo principe per l’affermazione del “nuovo potere”: il “terrore” – e, dunque, il terrorismo – si lega strettamente all’idea secondo la quale il regime istituzionale ha, come strumento principe di auto-affermazione, il ricorso alla repressione efferata, per il tramite di un governo di matrice emergenziale.
Paradigmatico di tale impostazione è l’ordine impartito da Robespierre alla Convenzione, in data 8 maggio 1793: “tutte le persone sospette siano considerate come ostaggi e siano messe in stato di arresto”; in tale ottica, al limite, in chiave “terroristica”, la morte diviene lo strumento principale per la neutralizzazione dei conflitti politici. Il patibolo, come osserva Albert Camus, diviene strumento che “assicura l’unità, l’armonia della città, depura la repubblica, elimina le scorie che vengono a contraddire la volontà generale e la ragione universale”; inquietante il riferimento alle “scorie”, sinistramente vicino all’idea futuristica della guerra come strumento di “igiene” del mondo.
In tale prospettiva, “il terrore mortifero quale essenza stessa della Rivoluzione, quale tratto caratteristico dell’attività del rivoluzionario e della sua mentalità, nasce per iniziativa dello Stato, nell’interesse di esso, incarnando l’accezione più forte del soggettivismo politico, in nome del quale la politica, con la distribuzione generalizzata della violenza più furiosa, si rafforza, mostra la sua connotazione bellica e, previamente, la sua intima radice conflittuale” (pag. 90): è evidente che una tale teorica del terrore costituisce, in ultima analisi, l’estremo e maturo compimento della radice ideologica rappresentata nel Contratto sociale di Rousseau, ossia l’idea secondo la quale il destino politico dell’individuo consiste nell’alienazione integrale in favore della comunità, la quale perviene ad un controllo capillare del corpo sociale mediante l’esercizio unilaterale – anche se, in apparenza, democraticamente condiviso – del proprio potere.
A questo punto, l’Autore del testo ripercorre le lunghe propaggini storiche dipartitesi dalla Rivoluzione Francese, fino a giungere alla rivoluzione del 22 febbraio 1848, con la proclamazione della Seconda Repubblica, nonché all’esperienza della Comune di Parigi del 1871, con la successiva ricostituzione dell’unità territoriale della Terza Repubblica, tutto all’insegna della repressione violenta e del terrore più spietato.
In particolare, l’esperienza comunarda appare suscitare un notevole interesse in capo allo studioso della rivoluzione, in quanto sembra presentare in nuce l’idea, ben sviluppata successivamente in seno alla dottrina marxista, secondo la quale, dall’eliminazione della forma monarchica come dominio di classe, si sarebbe dovuti passare alla soppressione della stessa idea politica di dominio di classe, attraverso anzitutto l’eliminazione delle basi economiche e produttive che stanno alla base della formazione storica delle classi. Così, nell’esperienza della Comune, comincia a fare capolino il principio in base al quale il potere debba essere conquistato non per un interesse di stampo possessivo (rivoluzione per l’acquisto di un potere), bensì per una finalità eminentemente distruttiva (rivoluzione per la rivoluzione).
Che ogni evento rivoluzionario, attuato mediante il terrore, abbia la tendenza ad una inevitabile deriva distruttiva, era peraltro già stato oggetto di osservazione da parte di Adolphe Thiers e François-Auguste Mignet all’inizio del 1800, i quali avevano intuito come ogni moto permanente di lotta di classe sia connotato da una indisciplinata energia cinetica, la quale non si arresta prima di aver travolto e trascinato con sé tutto il corpo della società.
Peraltro, a parere dello scrivente recensore, che vi fosse già alla fine del ‘700 uno stretto legame tra rivoluzione e serpeggiante nichilismo, è dimostrato da una importante quanto sibillina frase di Anacharsis Cloots, membro della Convenzione, il quale, in un suo discorso del 27 dicembre 1793, aveva affermato: “la Repubblica dei diritti dell’uomo non è né teista né atea, è nichilista”[10].
Sibillino e profetico il riferimento al nichilismo, in seno alla dottrina della rivoluzione, spia di un più profondo clinamen lungo il quale la terreur sembra destinata a scivolare irreversibilmente.
Tornando alla questione relativa alla lotta di classe quale motore della rivoluzione, Alberto Berardi ritiene evidente come essa abbia ricevuto la massima teorizzazione nel materialismo storico di Karl Marx, il quale fondò l’intera propria opera sull’idea dell’inevitabilità storica del processo di conflittualità tra classi e del trionfo definitivo della classe operaia, con conseguente cancellazione ed eradicazione ab imis dello Stato borghese. In quest’ottica, la caratteristica peculiare della lotta di classe sarebbe quella di essere necessariamente totalizzante, ossia di implicare una rivoluzione totale dello status quo: è chiaro che, in una tale prospettiva di eversione completa Stato, non vi sia spazio per alcun giudizio di valore, il quale implicherebbe ed esigerebbe, di contro, un’attenta discriminazione tra vero e falso, tra giusto ed ingiusto; viceversa, nel moto rivoluzionario vige il “regno della necessità”, nel quale il ribaltamento dello status quo è ritenuto indefettibile ed inesorabile in sé e per sé, senza che tale revolutio ripeta un proprio fondamento o una propria giustificazione in un quid che trascenda il mero fatto del dominio.
In questa prospettiva, evidenzia l’Autore del testo, il partito viene considerato come la forma più alta di organizzazione classista del proletariato: infatti, la situazione socio-economica della Russia d’inizio secolo mostrava una pressoché totale assenza, all’interno del tessuto sociale, di un vero e proprio proletariato industriale, che potesse rappresentare il germe o il “lievito” di un moto autenticamente rivoluzionario; di talché o si avallava il c.d. “attendismo rivoluzionario” (secondo il quale la rivoluzione si sarebbe dovuta procrastinare, in attesa della maturazione delle condizioni economiche “ideali all’esperimento”), o si propendeva per la teoria leninista del partito.