La laicità nell’esperienza politico-giuridica
di Francesco Gentile
4. Una prova a conferma della tesi qui sostenuta è offerta a contrario dalla considerazione della crisi dell’ideologia laica nell’esperienza giuridica contemporanea in cui è rimasto impelagato “il diritto senza verità”. Le parole non sono mie, le ho tratte dall’opera di un altro professore della patavina Universitas Iuristarum: Enrico Opocher23. “Bisogna veramente riconoscere che il diritto del nostro tempo è un diritto senza verità, che l’attuale crisi dell’esperienza giuridica è, nella sua essenza più profonda, una crisi della verità del diritto o, meglio, di quell’intima consapevolezza del proprio valore, senza di cui l’esperienza giuridica diviene cieca, non è più se stessa”24. A che cosa si riferisce specificamente Opocher con questa accorata denuncia? La risposta è precisa: “Nessun elemento è forse più rivelatore, a questo proposito, del carattere puramente strumentale che il diritto ha assunto nella società moderna. Quasi completamente appoggiato allo stato o, meglio, alle mutevoli e troppo spesso irresponsabili volontà che, attraverso il mito dello stato, si esprimono dominatrici della vita sociale, quel diritto che altra volta era stato scultoreamente definito come ars boni et aequi si è andato sempre più riducendo ad uno strumento per fini estranei al proprio contenuto, se non addirittura ad un mero strumento di governo. La sua dipendenza diretta o indiretta dalla volontà statuale, ossia la sua forma positiva, pur necessaria a garantirne la certezza, è diventata l’unico titolo della sua validità, l’unico criterio della sua giuridicità e per questa via esso è divenuto l’indispensabile strumento per realizzare, perpetuare e giustificare la volontà dominante, per piegare e dirigere l’azione verso qualsiasi avventura, per assicurare validità oggettiva allo stesso arbitrio” 25. Si rivelano così al filosofo le ragioni profonde dell’esito totalitario di una concezione formalistica dell’ordinamento giuridico, considerato come mero strumento di controllo sociale. “Ogni atto della volontà dominante è divenuto, per il solo fatto di appartenere a questa volontà, giuridicamente valido ed i suoi fini sono diventati per ciò stesso i fini del diritto, la misura dell’azione, il mutevole contenuto dell’esperienza giuridica. L’ideologia politica ha fatto così il suo ingresso nel mondo del diritto, se ne è impadronita, se ne è servita come di un potente ed insostituibile strumento”26. A quale ideologia si riferisce Opocher? La risposta è puntuale: “Sulla base astrattamente umanistica della cultura moderna si è così affermato sempre più quello che non esiterei chiamare laicismo giuridico, ossia la pretesa di isolare, appunto, l’esperienza giuridica dalla complessa trama dei problemi, delle istanze, delle certezze implicite nell’azione, (..) la pretesa di fondare e far valere la verità del diritto nel mondo sociale, indipendentemente dalle connessioni profonde che la legano alla complessa trama del mondo morale e quindi prescindendo da un’unitaria e coerente concezione del significato metafisico dell’azione e dei suoi valori”27. Viene, a questo punto, da chiedersi perché Opocher definisca tale pretesa ideologica “laicismo”, con un’insistenza sorprendente. “I teorici del diritto hanno una responsabilità profonda di fronte alla crisi contemporanea e non potranno condurre validamente la loro lotta per la verità del diritto se non riusciranno a superare l’orientamento laico che li ha finora guidati”28. “Anche nel campo dell’esperienza giuridica, il fallimento del laicismo giuridico o, se si vuole, della metafisica dell’antimetafisica, implica, per le sconvolgenti conseguenze alle quali apre la via, la possibilità di un valido superamento”29. “La stessa scienza del diritto, nel suo travaglio interiore, ponendo il problema della sua essenza, sente prepotente il bisogno di superare la sua premessa laicistica, di fondare la sua stessa dignità di scienza sulla verità del diritto”30. “Un compito immane attende i teorici del diritto nel mondo storico: uscire dal comodo rifugio del laicismo e scendere tra i tumulti e le risse di questo mondo”31. Sono ragioni storiografiche e teoretiche insieme quelle che inducono Opocher a parlare di un orientamento “laico” e del “laicismo giuridico” come di un’ideologia. Tale “metafisica dell’antimetafisica” risale, secondo il filosofo del diritto, a Grozio e alla sua idea di un sistema di diritto razionalmente costituibile “etiamsi (..) Deum non esse”32, e a Thomasio, alla sua idea di un sistema di diritto razionalmente costituibile indipendentemente dalla morale e dal costume33. Etiamsi Deum non esse! È questo il tarlo che mina l’idea di “laicità” che sembra andare oggi per la maggiore34. “È, infatti, chiaro – afferma Opocher – che quando lo stato nega la possibilità di ispirare la propria azione ad una verità assoluta ed accetta perciò come propria qualsiasi pretesa verità che riesca ad imporsi alla maggioranza delle coscienze individuali, esso implicitamente afferma sì il carattere relativo della verità, ma al tempo stesso eleva a verità assoluta, a propria verità assoluta, il relativismo”35. E, inevitabilmente, “questo contraddittorio relativismo finisce con l’aprire lo stato ai portatori di una pretesa verità assoluta che non è certo quella relativistica intorno alla quale nessun partito e nessuna maggioranza può evidentemente organizzarsi. E questi, una volta giunti al potere, possono molto difficilmente sottrarsi alla tentazione di eliminare la riserva relativistica che menoma il valore della loro ‘verità’, ossia di superare la contraddizione che costituisce la forza e ad un tempo la debolezza degli stati democratici. E allora è la loro verità che prende il posto di quella dello stato democratico, che diviene ‘verità’ dello stato, escludendo così, per la sua stessa assolutezza, tutte le altre ‘verità’ e distruggendo perciò, nel suo principio fondamentale, ossia nel suo relativismo, tutta la realtà dello stato democratico”36. Ritroviamo qui gli stessi accenti amari, le stesse parole con le quali Bertolissi e Vincenti, nella citazione da cui queste nostre riflessioni sulla “laicità” hanno preso le mosse, deprecavano la riduzione del diritto a strumento del potere prevalente, la dura lex sed lex, che vanifica ogni discorso sulla laicità dello stato, sul pluralismo religioso e sulla religione prevalente in quanto, nell’ottica della “geometria legale”, ogni istituzione, laica o ecclesiastica che sia, è concepita come modalità del potere e del potere mutua la logica interna, “l’invincibile aspirazione all’unilateralità che soffoca ogni idea di libertà”37. Sul potere Romano Guardini ha delle pagine sconvolgenti ma terribilmente illuminanti. “Il potere rappresenta indifferentemente la possibilità di ciò che è buono e positivo e il pericolo di ciò che è cattivo e distruttore. Tale pericolo cresce in diretto rapporto con la misura del potere ed è ciò di cui oggi, a volte con subitaneità terrificante, siamo divenuti consapevoli. Il pericolo può provenire inoltre dal fatto che del potere disponga una volontà che ha un orientamento morale falso, ovvero non sente più alcuna obbligazione morale. Può anche avvenire che dietro di esso non ci sia più alcuna volontà a cui ci si possa rivolgere, nessuna persona che risponda, ma solo una organizzazione anonima, in cui ciascuno è guidato e sorvegliato dalle istanze immediatamente contigue e appare perciò privato della propria responsabilità. Un simile pericolo diviene particolarmente minaccioso, come lo constatiamo sempre più, quando a vista d’occhio si attutisce il senso della persona, della sua dignità e responsabilità, il senso dei valori personali della libertà, dell’onore, il senso dell’origine dell’agire e dell’esistere. Il potere assume allora un carattere che non si può individuare, se non alla luce della Rivelazione: esso diviene demoniaco38. Quando l’azione non è più sorretta dalla coscienza personale, un vuoto singolare si determina in colui che agisce. Egli non ha più il senso di essere lui ad agire, il senso che l’azione cominci con lui e che egli perciò ne debba rispondere. Sembra che egli non esista più in quanto soggetto e che l’azione passi semplicemente attraverso di lui, semplice anello di una catena. Lo stesso avviene nei rapporti con gli altri; egli non può fare appello ad alcuna autentica autorità, poiché questa presuppone la persona, la quale con le sue facoltà sta direttamente di fronte a Dio e risponde di sé davanti a Lui. Si diffonde sempre più la sensazione che non ci sia affatto ‘qualcheduno’ che agisce, che dell’accadimento risponda qualcosa di indefinito, che non si può in nessun luogo afferrare, che non si presenta davanti a nessuno, che non risponde a nessuna domanda”39. In questo vuoto si insedia il nulla. “Non c’è da stupire che la formula del nichilismo, appena enunciata e ragionata, si sia diffusa nel mondo degli studi giuridici – scrive Natalino Irti nel suo inno al nichilismo giuridico40 – che cosa è il nichilismo giuridico se non sciogliere il diritto da ogni condizione sovra-positiva? Che cosa, se non risolverlo nell’efficienza del funzionare e nella regolarità del procedere? Il formalismo è fraterno al nichilismo, insieme fattore determinante e conseguenza ineluttabile. (..) Il nulla, che s’insedia nel diritto e ne attraversa le forme, è proprio nell’assenza di presupposti immutabili. Qui non c’è luogo a soluzioni transattive o eclettismi consolatori, ma duro e schietto aut-aut: o la radicale immanenza nella storia, nella finitudine, nella temporalità del divenire; o l’uscita verso l’alto, che sia divinità, o eterna natura, o stabilità ontologica delle ‘cose’ Il dovere di sincerità incombe – ammonisce Irti a ragione – anche sui critici del nichilismo”41. Ma anche su quelli che lo celebrano, dobbiamo aggiungere, i quali dovrebbero dire su che cosa poggiano la “efficienza del funzionare” e la “regolarità del procedere”, di cui il giurista dovrebbe essere garante, e decidersi, aut-aut: o su qualcosa che sta in alto guardando alla quale l’uomo si orienta e si regola; oppure sul nulla, ma allora bisogna riconoscere che nulla è l’efficienza, nulla la regolarità42, e quel che rimane è il potere anonimo per cui, come ha efficacemente detto Pietro Perlingieri, “cinismo del legislatore e cinismo dell’interprete diventano tutt’uno. La deriva formalistica e nichilista di indifferenza verso contenuti e valori, tutta protesa a sottolineare che le leggi vengono dal nulla e tornano nel nulla, che esse possono creare e distruggere indiscriminatamente, rappresenta un pericoloso rinnovato delirio di onnipotenza”43. Fanatismo e cinismo sono opposti l’uno all’altro “ma si toccano, come tutti gli estremi”44 Insomma, se laicità significasse concepire lo stato e il diritto “etiamsi Deus non esse”, l’esperienza politico-giuridica sarebbe destinata ad una inevitabile deriva, in apparenza nichilistica in realtà totalitaria. E non dimentichiamo che, se c’è un totalitarismo che viene dall’alto, c’è “anche un totalitarismo che viene dal di dentro”45.