ALBERTO TRABUCCHI
di Francesco Gentile

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Portare il saluto della Facoltà di Giurisprudenza alla giornata di studio sulla formazione del diritto europeo a ricordo di Alberto Trabucchi nel centenario della nascita[1] è per me un onore ma soprattutto una gioia personale. Portare il saluto della “sua” Facoltà di Giurisprudenza, com’è scritto con un briciolo di civetteria sul programma ma con piena corrispondenza alla realtà. Perché Trabucchi vi è stato studente, borsista e assistente; professore ordinario, direttore d’istituto e preside, per anni ed anni. Così come per converso lo studente di molte generazioni della patavina Universitas Iuristarum ha considerato Trabucchi come il “suo” maestro per la connotazione possessiva che egli imprimeva al rapporto personale, con tutti gli scolari, e che aveva il momento più intenso nella lezione del martedì, quella dedicata alla discussione comunitaria del “caso”.

Come uno degli “scolari del martedì”, se mi è consentito, vorrei ricordarlo, riandando ad un momento drammatico del rapporto personale con il maestro: quando in Aula Gabbin, al termine dell’esame di Diritto civile, in modo sfacciato e violento contestai il voto, rifiutandomi di prendere il libretto e rivolgendomi agli astanti con un plateale: “Ventiquattro! Ecco cosa è servito seguire per tre anni le lezioni di questo maestro!”. Ho un ricordo confuso di quanto poi è successo, perché venni condotto via a forza in un pianto isterico. Il clima era quello di una tragedia greca, perché tutti si attendevano i fulmini del “nume” offeso e quelli che dovevano ancora far l’esame mi maledivano per il danno che ne avrebbero inevitabilmente ed innocentemente subito. Non accadde nulla. Trabucchi rimase chiuso nei suoi pensieri per qualche istante, consegnò il mio libretto all’assistente perché me lo facesse recapitare e riprese impassibile gli esami. Ho saputo poi dal professor Opocher che in sede di laurea fu proprio lui a proporre che fosse conferita la lode alla mia tesi.

In realtà, dietro alla tragicommedia della mia contestazione, si annidava un autentico “dramma giuridico” che si può comprendere risalendo a come si era giunti a quel voto, peraltro già di per sé assai buono. C’era il regolamento, stabilito dal maestro per gli esami di Diritto civile, che chi avesse aspirato ad un voto superiore al ventiquattro doveva superare un prova scritta, la trattazione appunto di un “caso”, uno dei casi del martedì, e la prova poteva essere sostenuta una sola volta. Io quella prova avevo fallito, sicché il mio ventiquattro all’esame orale corrispondeva ad un trenta e lode e, vi posso assicurare, che avevo risposto da trenta e lode, perché mi ero preparato in maniera impressionante. Non credo d’aver mai studiato tanto in vita per un “ventiquattro”!

Dura lex sed lex / Summum ius summa iniuria Queste due sentenze, l’una che trova in Ulpiano (40,9,12,1) la propria fonte e l’altra in Cicerone (De officiis, 1,10,33), accostate rappresentano icasticamente il dramma giuridico sottostante al giudizio del mio esame ma in genere ad ogni decisione giuridica, quello del rapporto tra lettera e spirito della legge, e Trabucchi, come ogni autentico giurista, il peso di quel dramma ha sempre avvertito. Lettore fedele della Sacra Scrittura, il maestro era perfettamente consapevole che “la lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2Cor 3,6) ma sapeva anche che “beato è l’uomo (..) che cammina nella legge” (Sal 119, 1), sapeva che l’intelligenza di un uomo si misura dalla fedeltà con cui “osserva la legge” (Pr 28,7), sapeva che “il rispetto della legge è garanzia di immortalità” (Sp 6, 18). Per l’ordinamento delle relazioni intersoggettive mediante la legge, lo spirito non meno della lettera ma la lettera non è meno necessaria dello spirito, e nel concreto dell’esperienza giuridica questa interazione non è semplice né agevole ma soprattutto è sempre drammatica. Mi sono imbattuto, nel corso delle letture teologiche che riempiono le mie giornate, in una considerazione che il teologo Joseph Ratzinger fa a partire da un passo della Regola di San Benedetto: “Mens nostra concordet voci nostrae” (Reg 19,7). “Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci precede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce” (Gesù di Nazaret, p. 160). Credo che, con le dovute cautele e distinzioni necessarie, se ne possa trarre una suggestione proprio in ordine al drammatico rapporto tra lettera e spirito della legge perché, almeno per la parte dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive che il giurista attua mediante il diritto legale, contrariamente al solito, la lettera precede il pensiero e lo spirito deve in qualche modo adeguarsi ad essa. Dalla premessa di una delle tante edizioni delle Istituzioni di diritto civile del maestro Trabucchi leggiamo: “E’ difficile (..) far capire che il sistema attuale non è più quello del rigido positivismo, legato alla formula (sinonimo qui di lettera) della legge, ma certamente non è neppure un sistema di pura equità (sinonimo qui di diritto libero), nel quale l’interprete possa prescindere dalla ricerca della fonte legislativa e da una sua logica funzionale interpretazione” (XLI ed., p. XII). Sulla penna di un critico roccioso del positivismo giuridico, qual è stato Trabucchi, quest’affermazione ha un significato del tutto particolare, illuminante il suo modo d’intendere il ruolo della interpretazione nella complessità dell’esperienza giuridica dell’ordinamento. Per definire icasticamente il quale sarei tentato da una similitudine sempre tratta dalla Sacra Scrittura (Mt 5,17s). Con le dovute cautele e le distinzioni necessarie. Nell’esperienza giuridica lo spirito non viene per “abolire” la lettera della legge ma per “dare compimento”. Beninteso tutto questo ha senso se nella legge non si vede solo il prodotto di una volontà sovrana, autoreferenziale e non dipendente che dal potere e non bisogna dimenticare che Trabucchi indicava quale “scopo ultimo” delle sue Istituzioni quello “di far sentire che il diritto non è una spada che si presti a ulteriore violenza: ma un modo di risolvere i problemi della convivenza: problemi di civiltà, di libertà, di benessere” (XLI ed., p. XIII).

In questa chiave ritengo debba anche leggersi la sua curiosità, direi quasi la giovanile meraviglia, per il diritto nascente in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, che egli amava chiamare ius commune europaeum. Così si comprende l’impegno che Trabucchi profuse alla sua formazione, con la consapevolezza precisa che quello comunitario “costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere”, come si legge all’inizio della celeberrima sentenza c.26/62, Van Gend en Loos del 5 febbraio 1963 della Corte di Giustizia, di cui fu redattore e come traspare ancor più dai preziosi appunti del manoscritto inedito e sinora sconosciuto di cui, questo pomeriggio, ci parlerà il giovane avvocato e dottore in filosofia del diritto Giuseppe Perini, del maestro nipote carissimo. Per molti motivi il ius commune europaeum è da considerarsi un ordinamento di nuovo genere ma di questi particolarmente significativo è quello del meccanismo della normazione attraverso l’ingegnoso combinarsi delle direttive comunitarie e delle legislazioni degli stati membri, che incide sul dramma del rapporto tra lettera e spirito della legge contenendo il predominio del principio formale di sovranità ed imponendo, per usare le parole del maestro, l’imperium rationis alla ratione imperii. Questo ho sentito con le mie orecchie in una magnifica relazione, tenuta da Trabucchi a Bolzano vent’anni fa, nel 1987, all’incontro autunnale dell’Institut d’Études Européennes “Antonio Rosmini”. “Il ius commune europaeum del XXI secolo dovrà realizzarsi, su basi romane, attraverso la formulazione di principi fondamentali volontariamente accettati in quanto conformi alle esigenze comuni dei luoghi e dei tempi e questa non potrà essere che l’opera di una vera giurisprudenza europea (..) solo che i giuristi si decidano di abbandonare una volta per tutte il vicolo cieco del positivismo logico, linguistico o come lo si voglia chiamare, e tornino a rendersi conto della loro fondamentale funzione di difensori della libertà individuale e collettiva dall’arbitrio del potere, il quale ha indubbiamente tutto l’interesse a non trovarsi di fronte dei giuristi ma dei semplici esperti di legge, esecutori anonimi e docili di ordini, poiché è ben noto che una società senza giuristi è una società senza libertà” (da L’Europa e il diritto, Napoli 1989).

Ho abusato della vostra pazienza e mi scuso ma, portando il saluto della “sua Facoltà” nella veste di preside pro tempore, e del caso agli sgoccioli del tempo, volevo porre rimedio, seppure a tempo scaduto, allo sgarbo dello “studente del martedì”, per dimostrare che mi è servito, e quanto, seguire le entusiasmanti lezioni del maestro Trabucchi.

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[1] Illasi, 29 settembre 2007