Il processo e la conversione del conflitto
di Francesco Gentile
Dall’autunno di vent’anni fa’, nella nostra scuola, la ricerca si è fervidamente sviluppata, esercitandosi nella dialettica giuridica, per esplicitare le potenzialità euristiche di questa intuizione che ho creduto di fissare nella formula del “trasformare il conflitto in controversia” per ragioni meramente retoriche in contrapposizione alla formula del “trasformare il potere in diritto” con la quale Kelsen configura la qualificazione giuridica dei fatti mediante il sillogismo giuridico. In tal modo mi parve risultasse più scoperta ed evidente la differenza che passa tra una concezione puramente formalistico-virtuale ed una realistico-sostanziale dell’ordinamento giuridico. Straordinaria è l’originalità con la quale i più perspicaci e appassionati tra i miei compagni di avventura nella ricerca, Federico Casa e Torquato G. Tasso sul versante civilistico, Alberto Berardi e Giovanni Caruso sul versante penalistico, hanno penetrato l’esperienza giuridica servendosi di questo strumento. Dalla precisa individuazione dell’essenza lesiva dei reati di sfruttamento e di strumentalizzazione nella negazione dello statuto identitario della persona alla ferma denuncia degli effetti stridenti con la natura retributiva della pena prodotti dalla logica premiale introdotta nell’ordinamento al fine strumentale d’incentivare la collaborazione processuale dell’imputato. Dalla critica puntuale del paradosso del silenzio come forma di comunicazione tra privato e pubblico alla ricostruzione sincronica della pretesa della civilistica italiana di costituirsi come scienza. Solo per ricordare alcune delle molte verifiche fatte dai miei compagni con lo strumento da me loro fornito, che non avrei mai potuto immaginare né personalmente compiere. E di questo sono loro profondamente grato.
Una riserva mi rimaneva, tuttavia, nascosta in fondo alla mente relativa al concetto del “trasformare” a cui avevo piegato, ripeto per ragioni meramente e forse brutalmente retoriche, l’intuizione originaria. Vi percepivo qualcosa di sofistico, d’altronde è al sofista Luciano che il vocabolario fa risalire il termine di metamórphosis. Ero come infastidito dall’isomorfismo che l’utilizzo del termine trasformare poteva di sottobanco stabilire tra conflitto e controversia, come nelle Metamorfosi di Ovidio si canta della trasformazione di Dafne nell’alloro, mentre non c’è dubbio che tra conflitto e controversia vi sia una radicale diversità o meglio che per trascorrere dal conflitto alla controversia sia necessario un radicale rinnovamento. Stavo appunto riflettendo su alcune acute osservazioni di Federico Casa a proposito del rapporto tra le cosidette “questioni di fatto” e le cosiddette “questioni di diritto” nella rappresentazione del caso, sulla sua categorica raccomandazione a non intendere il fatto come non avente in sé nulla di giuridico e la giuridicità come un vestito formalisticamente buono per qualsiasi corpo, quando m’è capitato di imbattermi, leggendo gli Elementi di teologia fondamentale di Joseph Ratzinger, nel termine metánoia e mi sono d’improvviso ricordato d’essermene anch’io servito a suo tempo per rappresentare la ragione sociale della collana di studi filosofici di critica civile intitolata a “La crisalide”, di cui peraltro sono ormai apparsi già trentun volumi. D’essermene servito per evidenziare come in un tempo qual è il nostro, caratterizzato da una snervante transizione, “l’esito fallimentare delle molte rivoluzioni come l’estenuante precarietà delle continue riforme costringano a riflettere sulla natura del rinnovamento che, sempre più scopertamente, appare affidarsi ad una metánoia soggettiva”.
Del termine metánoia il vocabolario dà una serie di traduzioni assai diverse, sovvertimento di pensiero, cambiamento di senso, rivolgimento di vita, pentimento ecc. Quella di “conversione” sembra tuttavia la più congrua e comunque la più conveniente per la radicalità che è capace di veicolare. Tale radicalità risulta ancor più accentuata nell’accezione cristiana del termine come s’intende solo che si mettano a confronto il pentimento con la conversione: il primo, d’impronta tipicamente greca, può riguardare infatti un singolo atto del pensare, del sentire o del volere mentre la seconda, d’impronta tipicamente cristiana, riguarda la vita nella sua interezza ed implica un rinnovamento fino nella profondità dell’essere. Volendo approfondire il ragionamento bisognerebbe riflettere sul termine greco di epistrophé, usato specificamente per conversione, che designa il movimento circolare ossia, come osserva anche Platone, il movimento perfetto appartenente agli dei, al cielo e alla terra. Il circolo, infatti, segna il ritorno dell’esistenza su se stessa. Lo stoicismo e il neoplatonismo, faranno della epistrophé, del ritorno all’unità del reale, il principale postulato morale, donde l’idea che l’uomo per poter ritrovare se stesso abbia bisogno del movimento globale di rivolgimento e quindi debba convertirsi, per ricondurre la sua vita dalla dissipazione nell’esteriorità al raccoglimento nell’interiorità. E tanto basta per intendere come in realtà i Padri della Chiesa abbiano potuto avvicinare l’ epistrophé della filosofia classica alla metánoia della fede.
Quali suggestioni ho creduto di poter trarre dal termine cristiano di metánoia relativamente all’opera del giurista di fronte alla lite per il cui superamento egli è stato professionalmente advocatus ?
La prima è suggerita dall’idea di cambiamento di cui la metánoia cristiana è carica. La conversione, infatti, designa un movimento mediante il quale l’uomo si stacca dal proprio Io per poter accedere alla comunione con Dio, un movimento di rottura radicale per il quale sono necessari un coraggio ed una determinazione affatto particolari poiché il soggetto si trova a dover fare i conti, per così dire, con due forze di gravitazione, quella dell’interesse particolare, dell’egoismo individuale, e quella del bene in generale, della Verità e dell’Amore, e deve decidere di sottrarsi all’attrazione della prima per lasciarsi prendere totalmente dalla seconda. Ora, mutatis mutandis, nell’esperienza giuridica della controversia la situazione presenta delle singolari e suggestive analogie poiché chi vi accede, o come attore o come convenuto, uso i termini in senso lato e quindi atecnicamente, è inevitabilmente chiamato a confrontare le proprie ragioni, di parte, con le ragioni altrui, anch’esse di parte, nella prospettiva di attingere, da un confronto correttamente condotto secondo le regole dell’arte dialettica, la verità che è e non potrebbe non essere comune alle parti senza essere esclusiva di nessuna di esse. Tutto questo implica per chi accede alla controversia giuridica il coraggio di rompere con la particolarità della propria opinione per riconoscersi nella comunanza del vero; implica il coraggio di sottrarsi alla forza di gravitazione dell’egocentrismo individuale per lasciarsi attrarre dalla forza di gravitazione del bene comune. In altri termini implica una vera e propria conversione.
Una seconda suggestione deriva dal fatto che tale disposizione al cambiamento non ha nulla a che fare con la mancanza di orientamento propria, ad esempio, di una banderuola che cambia di direzione col mutare del vento né con l’indecisione nell’esistenza o l’influenzabilità occasionale che lasciano l’uomo soggetto all’ondeggiamento in qualsiasi direzione. Sulla irreversibilità dell’impegno fondamentale del cristiano a convertirsi la Lettera agli Ebrei ha parole che possono sembrare inquietanti ma che sono in realtà illuminanti. Se si è imboccata la vera direzione, la direzione della verità, quella rimane il tracciato ed indica il cammino, rimane la meta e imprime il movimento. Ora, mutatis mutandis, nell’esperienza giuridica della controversia la situazione presenta delle singolari e suggestive analogie: il confronto delle pretese di parte, infatti, avviene sulla base della loro ragionevolezza ossia della riconoscibilità in comune della direzione che conduce al vero e al bene, dalla quale non è più possibile discostarsi una volta adita la via del processo. La contraddizione non vi ha più spazio. Scoperta risulta la centralità che a questo scopo assume nel dibattimento il giudice il quale, non essendo latore di una pretesa di parte, è chiamato a garantire la più distesa apertura ad ogni prospettiva di parte in quanto tuttavia concorrente al riconoscimento del vero. Incontraddittoriamente. Solo la fedeltà al vero, che non si presenta come possesso di un dato assodato ma come tracciato di una ricerca impregiudicata, rende possibile la conversione dei soggetti confliggenti nella lite, tanto che saremmo tentati di affermare come primario impegno del giudice quello di garantire il confronto più aperto e impregiudicato possibile delle ragioni di parte assai più della stessa imparzialità nel giudizio sul quale inevitabilmente finiscono per poter incidere le inclinazioni soggettive. Ma, a ben riflettere, non meno rilevante per l’attuarsi di questo processo è l’impegno dell’avvocato di parte. La conversione, infatti, è, e non potrebbe essere se non, personale e interiore. E’ il soggetto litigante che solo può superare autenticamente la lite; è lui che deve rompere con le pulsioni individuali, egocentriche e bellicose, per lasciarsi trasformare dall’impronta del bene comune che lo allontanerà da esse, così ristabilendo la relazione con l’altro dal conflitto interrotta sulla base di un bene che è di tutti senza essere di alcuno in esclusiva. Ora questo mutamento richiede coraggio personale e interiore ma ha bisogno d’essere sostenuto comunitariamente e per questo a chi adisce la via del processo è tassativamente garantita l’assistenza di un giurista di professione. Un parákletos diremmo in greco, che significa insieme il chiamato in aiuto, l’advocatus latino, ma anche l’intercessore e il consolatore. Tutto questo non dovrebbe essere dimenticato da chi è chiamato ad esercitare la funzione di accusatore o di difensore nel caso concreto di un processo.
Quanto alla terza suggestione che il riferimento alla metánoia mi ha provocato, forse la più penetrante, oggi non saprei se non balbettare qualche parola. M’è parso cioè come di intravvedere nell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive, allo stesso modo peraltro dell’ordinamento economico degli interessi e all’ordinamento politico delle dignità, un momento del processo di purificazione personale a cui l’uomo è chiamato per la sua natura composita di essere animale e divino, naturale e sovrannaturale. Ma non sono per ora in grado di dire altro.
Avrei voluto ascoltare il magistrato, dottor Carmelo Ruberto, e l’avvocato, professor Emanuele Fragasso, sui temi dell’accusa e della difesa nel processo di terrorismo e con esse confrontare le suggestioni provocatemi dall’evocazione della metánoia, nell’accezione cristiana, in particolare relativamente al caso tragico dell’omicidio di un giurista per l’esercizio del ruolo del giurista nel processo; il riferimento all’autodifesa nel titolo dell’intervento dell’amico, professor Mauro Ronco, mi dà l’impressione di non essere del tutto fuori tema. Ho chiesto al collega avvocato e professore Federico Casa di leggere questo testo, e vi chiedo scusa per il tempo che ho fatto perdere, perché desidero che rimanga traccia dell’approfondimento che nella nostra scuola è stato apportato alla formula del “trasformare il conflitto in controversia”, riconoscendo nell’opera del giurista nel processo di ordinamento delle relazioni intersoggettive mediante l’instaurazione della controversia i tratti essenziali della “conversione”. Se vi sarà qualcuno a fare la storia della nostra scuola, avrà facilitato il compito almeno quanto alle date: Benevento 1986 e Padova 2007!
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[1] Università degli Studi, Padova, 17 novembre 2007
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