Letture sulla Giurisprudenza[1].
Diritto e giuristi, oggi
di Andrea Favaro

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1. Premessa.

L’oggetto di queste brevi riflessioni investe un tema “classico” nel senso più decisivo del termine[2]. “Classico”, anzitutto, perché impone di tornare a riflettere, ancora una volta, sul tema del fondamento del giuridico, sul legame tra le varie forme di normatività (giuridica, politica, morale, etica) e sulla questione se e come ciò possa definirsi scientificamente; su temi, dunque, che fanno parte della filosofia del diritto da tempo immemore e che appartengono pertanto al suo orizzonte teoretico più specifico.

Nel contempo, però, la questione è classica in un senso ulteriore, e finanche più grave perché come tutti i classici torna costantemente a riproporsi in forme nuove, sempre diversamente attuali, catalizzando ogni volta l’attenzione degli osservatori. Se infatti “classici” sono quei temi che non solo costituiscono un punto d’osservazione privilegiato per l’analisi del contesto storico e culturale all’interno del quale furono elaborati, ma più di tutto rappresentano paradigmi teoretici con i quali ogni generazione torna a confrontarsi, e attraverso i quali è possibile comprendere realtà di volta in volta diverse e impreviste, la tematica in oggetto è precisamente di questo genere. In particolare, il tema del valore del diritto, ovvero del suo fondamento storico-contingente o, diremmo, ontologico, se è vero che rappresenta uno dei ‘luoghi’ teoretici più costanti e ricorrenti del pensiero giuridico, si intreccia oggi con la discussione tutta moderna sulla scientificità dell’ordinamento giuridico, che investe in primo luogo il ruolo del giurista, come già il titolo della presente disamina tenta di sintetizzare “Diritto e giuristi, oggi”.

Dalla sua particolare struttura si vorrebbe far emergere la consapevolezza che il richiamo odierno alla scientificità del diritto, si innesta in modo più o meno evidente su un paradigma filosofico che vede nel diritto qualcosa di assolutamente contingente, storico, fondato unicamente sull’accordo o sulla volontà del legislatore, e dunque espressione diretta ed esclusiva della sovranità dello stato. Con la conseguenza che la concezione per la quale il diritto in sé possa veicolare determinati valori – a prescindere, volendo, dalla loro fondazione: teologica, antropologica, etica etc… – viene percepita come un’indebita usurpazione della sovranità statale, come un’intromissione non dovuta nella sfera ordinamentale di ‘altre’ istanze sovrane, non ultimo lo scientismo sedicente “neutro”. Riflessione questa, che significativamente ad ogni piè sospinto si ripropone e ad ogni passo viene comunque, et pour case, denunciata insufficiente come si rileva anche dalla lettura comparata di alcune opere più o meno recenti sul tema.

«La mancanza di un profilo di storia del pensiero giuridico concreto, che valga a ricostruire e a rivivere per linee interne, (…), i motivi e i problemi che nascono direttamente dall’esperienza di coloro che più direttamente sono a contatto con la vita del diritto»: a detta del Caiani questa era, infatti, una delle lacune più evidenti della cultura filosofico-giuridica italiana nella prima metà del secolo scorso, alla quale tentava, giovane filosofo del diritto all’Università di Padova, di fornire un «modesto iniziale tentativo diretto a colmare»[3] tale deficienza. Quello stesso “profilo”, appunto, che il Grossi, tra i più stimati storici del diritto, cerca di ricostruire sin dal titolo di una delle sue opere recenti con l’esplicita intenzione di definire una «storia della scienza giuridica vista dal di dentro della stessa»[4]. La quaestio che entrambi gli studiosi malcelano è la consapevolezza di voler (ri)costruire un piano comune tra i pratici e i teorici del diritto, perché ambedue consci, tanto il filosofo quanto lo storico, che il diritto “pulsa” nella esperienza comune dell’umano, alla quale, solo, ogni studio sul diritto dovrebbe mirare.

Date tali premesse, ancor più interessante e proficua risulta la disamina dell’ultima opera del Casa[5], filosofo del diritto da sempre attento alle dinamiche concrete dell’esperienza giuridica, che ha come scopo precipuo quello di fornire i criteri interpretativi della scienza giuridica italiana, investigandone il profilo epistemologico. L’esito dell’analisi offerta dallo studioso padovano inquadra con chiarezza la percezione che la filosofia del diritto riuscirà ad interpretare compiutamente il proprio ruolo solo se riconoscerà il senso ed il rilievo della scienza giuridica e di quelle concrete attività dei “pratici”, che alla scienza medesima strettamente si connettono[6]. Non tanto, o perlomeno non solo, per quello che gli esiti della scienza del diritto hanno di compiuto e di definitivo, quanto, o perlomeno anche, per i contenuti che ad essi ineriscono e per i problemi a cui danno risposta, nonché, infine, per le questioni[7] che questi stessi prospettano.

Difatti, siamo latori dell’opinione che, qualsiasi siano l’indole e la funzione[8] che al diritto si intendano attribuire, non se ne può disconoscere il legame che lo unisce alla realtà e, precipuamente, ai suoi (eventuali) conflitti, ma su questo torneremo nelle conclusioni. È dunque evidente come la questione in esame non possa utilmente appellarsi ad un interesse meramente storico e ricostruttivo, peraltro importantissimo e imprescindibile[9], ma chieda al contrario uno sforzo teoretico ulteriore, finalizzato alla comprensione di come il tema della scientificità del diritto si possa porre oggi, e di come esso si intrecci con quello della natura del diritto e del suo fondamento assoluto ovvero della sua assoluta contingenza. Riflettere ancora una volta sul fondamento del diritto, in sunto, può costituire la premessa migliore per aprire un discorso sulla scientificità tout court e sui confini che tale concetto assume in una prospettiva giuridica e filosofica, onde carpire se e in che modo un ordinamento riesca a tenere fondanti e vincolanti per esso taluni criteri oggettivi, al di là, rectius a prescindere, della contingente volontà del legislatore o degli esiti delle procedure democratiche.

Stimolo cardine di una ricerca tanto improba da apparire illusoria, rimane il monito del Grossi che ricorda a tutti e a ciascun giusperito come «in ogni branca dello scibile giuridico il giurista più vivace sente il bisogno di affrontare temi di fondazione e di rifondazione del proprio sapere»[10].

In tal modo intendiamo sin da subito confessare il punto di partenza: verificare nel concreto dell’esperienza umana se il diritto in quanto tale possa configurarsi come uno strumento valido per offrire un criterio di ordine alle relazioni intersoggettive[11], che non sia fondato in virtù di un mero rapporto di forza, perché riteniamo vera la seguente affermazione: «un’elaborazione ordinata della epistemologia delle scienze umane richiede la esplicitazione di due premesse fondamentali, (…) l’esistenza dell’uomo e l’esistenza della società»[12].

Su questi due essenziali presupposti e alla luce di quanto affermato anche da Caiani, Grossi e Casa, riteniamo si debba fondare una scienza del diritto, consci che il quesito fondamentale consiste nel chiedersi cosa desideriamo, in qualità di individui destinati a vivere in re publica, dall’ordinamento giuridico, che in quanto tale non può non rimanere strumento e mai fine. La risposta non può essere altro che volere una migliore comprensione dell’umano vivere, indi, dell’esistere dell’animale politico con tutte le interazioni proprie, anche conflittuali, di un essere società.

2. Quale scienza per il diritto (positivo)?

Conclusa la premessa è utile osservare che la questione dell’autenticità dell’esperienza giuridica può ragionevolmente costituire il riferimento principale per una riflessione sul carattere storico e contingente del diritto o, viceversa, sulla sua sostanziale trascendentalità e necessità.

La presente vuole essere una semplice prospettiva che, partendo proprio dalle analisi del Caiani, del Grossi e del Casa, ha il solo obiettivo di rivalutare lo spessore delle loro opere offrendo qualche spunto di meditazione per tentare di proseguire oltre le loro stesse opere. Gli autori citati, difatti, se da un lato non hanno remora alcuna nel mostrarsi ben consci della difficoltà che comporta l’argomento della scientificità del diritto, rimangono però, forse inconsapevolmente, avviluppati in una concezione limitante di scienza, ma soprattutto di diritto.

Difatti, a quanto è dato conoscere, non si sono posti il quesito se il diritto possa essere inteso come una dimensione inautentica e dunque eventuale dell’esperienza umana, oppure come dimensione ineludibile dell’essere umano. Solo conseguentemente a quella che può dirsi una vera e propria presa di posizione a-problematizzante, la giuridicità può essere identificata come una pura regolamentazione eteronoma, qualcosa che si cala sul soggetto dall’esterno e che condiziona il suo agire e le sue possibilità relazionali; oppure come una caratteristica che procede dall’autonomia propria di ogni essere umano e dalle relazioni che si instaurano grazie alla presenza di soggetti autonomi.

Secondo la prima impostazione, la libera attività personale, dimensione davvero autentica della soggettività, sarebbe pertanto artificialmente sottoposta ad una serie di vincoli esterni che, per varie ragioni operativamente perfino comprensibili, costituirebbero un sistema sanzionatorio e repressivo socialmente importante ma, certamente, non autentico. In conseguenza a quella che potremmo chiamare inautenticità, dunque, il diritto dovrebbe continuamente giustificarsi mediante una dimostrazione di conformità ad una dimensione fondativa, quali, ad esempio, l’utilità sociale o economica o morale, ovvero la forza della volontà sovrana; in sunto una procedura di determinazione di esso accettata dai destinatari delle norme, ma non potrebbe in alcun modo rivendicare un carattere esistenzialmente autentico, anzi sfigurerebbe la stessa esperienza giuridica in qualche accidente solo eventuale.

Ditalchè la norma giuridica diviene la fonte di una dimensione virtuale[13] della stessa esistenza umana; la sorgente di una modalità relazionale anche molto utile ma priva, in sé, di autenticità. L’uomo autentico non sarebbe insomma l’homo juridicus, né la normatività, e meno che mai la normatività giuridica, potrebbe pretendere di essere ritenuta in qualche modo naturale. La naturalità implicherebbe, infatti, proprio quella dimensione di autenticità che al diritto si pretende di negare ricercandone proprio il fondamento scientifico, e che apparterrebbe invece unicamente alla libera manifestazione della volontà desiderante dell’uomo; il diritto in quanto forma specifica della normatività insomma non sarebbe certamente una modalità autentica dell’esperienza umana, ma semplicemente una applicazione tecnica determinata dalla necessità dei gruppi sociali più complessi, e che pertanto dovrebbe, da un lato, restringersi il più possibile, lasciando spazio ad altre modalità di gestione e disciplina delle relazioni, ma soprattutto dovrebbe assecondare il più possibile le pretese soggettive, vere manifestazioni della libertà dell’uomo[14].

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