ADRIANO TILGHER
di Francesco Gentile
E tanto può bastare a proposito della triste sorte della filosofia del diritto nell’ambito dei corsi di giurisprudenza a Napoli all’inizio del XX° Secolo.
Per il giovane Tilgher il vero problema, anzi no, perché non di problema si trattava, l’autentico impegno era quello di applicare le categorie crociane della filosofia pratica, oltre il detto, nell’ambito delle tematiche ricorrenti, e in un certo senso affaticanti, i libri dei cosiddetti o sedicenti filosofi del diritto, per dimostrare che con esse si sarebbero risolte tutte le antinomie della filosofia del diritto. Le antinomie della filosofia del diritto è appunto il titolo del saggio più denso del 1910, che verrà rielaborato e fuso con altri nei capitoli giuridici della Teoria del pragmatismo trascendentale, del 1915, e addirittura riprodotto, nelle parti non utilizzate, nell’aggiunta alla seconda edizione della Teoria stessa, apparsa nel 1928, col titolo nuovo di Saggi di etica e filosofia del diritto.
Nel saggio del 1910 Tilgher dichiara esplicitamente il suo proposito: "Tenteremo di applicar questa concezione (la concezione crociata) alla risoluzione di un gruppo di problemi di filosofia giuridica su cui le opinioni dei pensatori furono tanto numerose quanto discordi e che dettero luogo a serie di antinomie, credute sinora affatto insolubili". E perché non sorgessero dubbi, in nota, vengono enumerate le opere di Croce a cui si farà riferimento, con l’indicazione pignola della data di edizione: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902, Materialismo storico ed economia marxista e la Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia del 1907, le Obiezioni alla mia tesi sulla natura del diritto del 1908 e soprattutto la Filosofia della pratica: Economia ed Etica del 1909. Le antinomie affrontate sono quelle di diritto ed equità, diritto e forza, diritto ed interesse, diritto e sentimento giuridico, diritto positivo e diritto naturale. Nonché, nel saggio intitolato Analisi del concetto di delitto e di pena del 1909, le antinomie delle teorie utilitaristiche e delle teorie moralistiche del delitto, delle teorie utilitaristiche e delle teorie moralistiche della pena.
Per dare un saggio del modo in cui Tilgher procede al superamento, o risoluzione che dir si voglia, delle antinomie della filosofia del diritto con l’applicazione dei due "distinti" dello "spirito pratico" di crociana "invenzione", proporrei, nell’economia contenuta di questa galleria, di considerare le antinomie relative al delitto e alla pena. Si potrà così vedere, in primo luogo, la meccanica del processo di sistemazione, cioè di riduzione a sistema, delle opinioni o tesi o teorie discordi, appunto antinomiche, in cui consiste per il giovane adepto del crocianesimo la "filosofia dello spirito" e nel medesimo tempo si potranno riconoscere i motivi, ma più ancora le cause, della reazione di Croce a tali applicazioni della sua Filosofia della pratica: reazione che fu in un primo tempo di circospetto silenzio, qualcosa di sconcertante e deludente insieme per il giovane Adriano, e poi di rimbrotto, in apparenza benevolo ma sostanzialmente tranchant, dalla "varietà" de "La Critica", del 1914, nella quale oltre a quelli di Bignone, di Di Carlo, di Ricci, di Flora, di Murri, di Losacco, di Natoli, di Modica, di Ravà, di Cesarini Sforza, di Biamonti, di Folchieri, di Rensi, di De Montemayor, di Miceli, di Falco e di Maggiore sono ricordati i saggi del nostro Tilgher: "Sentite cari ragazzi (dei quali taccio il nome appunto perché siete ragazzi e mi auguro che vi rivediate): voglio narrarvi come s’è formata quella mia teoria del diritto; e vi avvedrete forse che essa merita di servire a qualcosa di meglio che alle vostre cupidigie e ambizioncelle".
Tilgher non si sarebbe ravveduto, che anzi, raccogliendo nella Teoria del pragmatismo trascendentale, del 1915, i saggi precedenti e citati da Croce, concluderà drasticamente: "Alle obiezioni superficiali di tanti contro la possibilità di una Filosofia della legge o del diritto ed ai loro tentativi di risolverla nella filosofia dell’utilità o nella mortale, noi, invece abbiamo risposto meglio che col fatto stesso della sua esistenza: col fare noi stessi logicamente la sua esistenza".
La contro risposta crociana non si sarebbe fatta attendere, con la stroncatura già menzionata del ’15, latore il fido De Ruggiero. La vicenda costituirà, nell’itinerario speculativo di Tilgher, quasi il preludio del suo "esodo dallo storicismo", come lo chiama Mercadante, ma avrà dei riflessi anche sullo svolgimento della crociana filosofia del diritto come "scienza della pura forma giuridica (= economia)". Perché c’è qualcosa di singolare e di comune nei due casi, di Croce e di Tilgher. Da quel momento, per l’uno come per l’altro, il problema giuridico, che sino allora aveva avuto una rilevanza centrale, sfuma sull’orizzonte speculativo per poi scomparire del tutto nell’incerta luce "etico-politica". Qualcuno dirà perché ormai risolto. Personalmente, sarei tentato di dire perché irresolubile nei termini dello storicismo assoluto come del pragmatismo trascendentale. Ma torniamo, per ora, alle antinomie della filosofia del diritto.
Relativamente alla definizione di delitto, Tilgher isola quattro principali opinioni. Quella secondo la quale il delitto sarebbe "violazione delle leggi positive", conforme la tesi di Pessina e di Impallomeni: espressione di un formalismo giuridico privo di valore filosofico seppur operativamente utile per giuristi e avvocati. Quella secondo la quale il delitto sarebbe "atto contrario all’utile della società", conforme la tesi di Bentham: espressione di un utilitarismo che riesce a spiegare, come delitti, le azioni "cui ripugna la coscienza meramente utilitaria" ma non quelle "cui ripugna la coscienza morale". Quella secondo la quale il delitto sarebbe "ciò che è contrario alla coscienza morale", conformi le enunciazioni rozzamente empiriche del criminologo Garofano: espressione di un moralismo che "non è vero che a metà". Quella, infine, secondo la quale delittuoso sarebbe "ogni atto contrario in pari tempo alla coscienza morale e all’utile": espressione di un eclettismo che tende a "giustapporre meccanicamente elementi opposti e cozzanti fra di loro, i quali non si possono conciliare che in virtù di un principio superiore", che sfugge tuttavia al mero eclettico. Quattro definizioni di delitto, "la giuridica, l’utilitaria, la morale e l’eclettica", che per la loro parzialità non sono in grado di "comprendere il mondo qual è" e cadono nella tentazione di trasformarlo, nel senso di prospettarsi come affermazioni del mondo quale dovrebbe essere. In altri termini, secondo Tilgher, in tal modo si scivolerebbe nella posizione di chi "non si pone più di fronte al delitto come ad un prodotto dello spirito, che si tratta di esaminare e analizzare, ma come di fronte ad un problema pratico che bisogna risolvere, a un dovere che bisogna compiere", sicché, "non vede più ciò che il delitto è ma ciò che deve essere e, se le sue intenzioni sono lodevoli e degne di essere attuate, il suo assunto scientifico fallisce però completamente. Poiché la filosofia deve comprendere il mondo qual è: ricrearlo, cioè, intellettualmente, non trasformarlo; ché, se a tanto aspirasse, usurperebbe il posto dell’attività pratica. La filosofia – precisa il giovane Adriano affidandosi alle parole di Hegel – giunge, e deve giungere, sempre tardi, a fatto compiuto; perché essa non crea il reale, ma lo ricerca e comprende. Sorge a sera, quando l’opera della giornata è al suo termine: l’uccello di Minerva leva il suo volo al crepuscolo".