Prima lettura critica della Legge sull’occupazione e il mercato del lavoro
(La riforma del mercato del lavoro dal Libro Bianco alla Legge 14 febbraio 2003 n. 30)
di Torquato Tasso
La legge Biagi si pone, nel panorama giuslavoristico, con un intento evidentemente innovativo che promette grandi rivoluzioni nel settore. Come ogni rivoluzione, il Libro Bianco prima (che, ripetiamo, altro non è che il fondamento teorico della legge delega) e la legge Biagi poi sono stati accolti in modo molto contrastante. Da un lato è stata accompagnata da grandi entusiasmi. Dall’altro è stata accompagnata da una sorta di diffidenza. In realtà, la polemica, che la rivoluzione annunciata ha sollevato, non ha solo una rilevanza squisitamente politica ma si giustifica con i problemi giuridici che solleva e sui è opportuno soffermarsi, per esprimere, con serenità e per quanto possibile con obiettività, una valutazione.
Innanzi tutto è doveroso precisare che la legge Biagi non è il frutto di una volontà partigiana apparsa, come d’improvviso e inopinatamente, nel panorama della normativa giuslavoristica italiana. La legge Biagi, infatti, non fa altro che prendere atto di un’evoluzione normativa che si è evidenziata, negli ultimi anni, come necessaria (e necessitata) sotto molti punti di vista.
Necessaria da un punto di vista europeo, dal momento che, come in precedenza più volte ricordato, l’innovazione e la richiesta d’innovazione vengono proprio dall’Unione Europea che, in numerose occasioni, ha invitato i paesi membri (e l’Italia tra i primi) all’ammodernamento della loro normativa giuslavoristica. L’Italia era ad un bivio. O innovare la normativa giuslavoristica per rispettare i parametri imposti dall’Unione Europea e, quindi, rimanere in Europa (e possibilmente in una posizione di rilievo); o uscire dall’Europa, mettendo in discussione l’evoluzione in senso europeistico degli ultimi trent’anni della storia politica del nostro paese.
Pare francamente improbabile (e antistorico) che si potesse anche solo pensare di seguire questa seconda opzione. Ma bisogna anche riconoscere che la necessità di mutare l’ordinamento o, meglio, di modernizzare la normativa giuslavoristica non appariva solo un’imposizione europeistica, espressione dello "ius corrigendi" dell’Unione. Era un’effettiva esigenza, se ci si poneva, con obiettività, a considerare i principali fattori evolutivi della realtà storico economica italiana.
Le norme, o quanto meno, le norme storicamente più rilevanti e che hanno trovato la loro massima espressione nello Statuto dei lavoratori, sono figlie di un periodo storico molto importante per l’economia italiana e per il settore giuslavoristico, di conseguenza, quale quello degli anni 60-70; Un tempo, però, che appare ormai molto lontano. L’organizzazione del lavoro che caratterizzava quel periodo storico e i relativi rapporti sindacali erano molto diversi rispetto agli attuali. D’allora, molto è cambiato, relativamente alla tecnologia, all’organizzazione del lavoro, alla occupazione e al tipo d’occupazione, al diverso grado di cultura scolastica e universitaria della media dei lavoratori. L’economia stessa e gli equilibri economici internazionali erano molto diversi da quelli attuali; la logica imprenditoriale e commerciale erano diverse da quelle attuali. Le regole, per converso, non si sono evolute con la stessa velocità. Attualmente, il mercato del lavoro si trova ad essere regolato da regole obsolete che non hanno avuto la capacità di seguire l’evoluzione, per altro molto veloce, del mercato del lavoro e, in generale, dell’economia.
Una parte della critica politica, confortata, in questo, da una parte della dottrina, pur non negando la necessità di un’innovazione e modernizzazione del settore, teme che all’innovazione si accompagni la negazione dei diritti fondamentali dei lavoratori e, in particolare, del diritto al lavoro. Per comprendere se tale timore è effettivamente fondato, diviene necessario rileggere i passi più significativi della riforma, alla luce delle norme costituzionali e comprendere se e in che termini possano costituire violazione dei diritti costituzionali relativi al lavoro. Solo in questo caso si potrebbe parlare di normativa illegittima. Nel caso in cui tale violazione non si riscontrasse, la normativa dovrebbe essere accolta come pienamente legittima.